domenica 23 dicembre 2018

Il Piave: limite invalicato


di Michele D'Elia

Dopo Caporetto, Peschiera. Il verbale ignorato



CONVEGNO DI PESCHIERA
giovedì 8 novembre 1917
La fede del Re nei Soldati d’Italia
Alfa e Omega. Vuole il mondo che la guerra degli italiani si concentri in due nomi: Caporetto e Vittorio Veneto. Sempre il mondo vuole che la prima segni una vergognosa disfatta e la seconda, una mezza, casuale vittoria, grazie alle truppe alleate. Nel convegno del 30 novembre 2014 dimostrammo la falsità
delle due tesi. Qualche integrazione non sarà superflua, anche se ben lungi dall’esaurire i due argomenti.
* * *
La Conferenza di Rapallo, 6 e 7 novembre 1917, non ci aveva reso giustizia. Il Re convoca per l’8 novembre a Peschiera i Capi alleati, politici e militari: Lloyd George, Smuts, Painlevé, Bouillon, Orlando, Sonnino, Bissolati, Robertson, Wilson e Foch. Tiene un discorso e pone fine al velenoso chiacchiericcio sul nostro soldato e sull’Italia.
Il verbale della riunione è redatto in inglese; è datato Aix-les- Bains 9 novembre 1917. (1)
Giornalisti, storici, scrittori e politici ignorarono ad arte la svolta che l’incontro impresse al conflitto.
IL VERBALE
Peschiera: Quartier Generale, 8 novembre 1917
Il Re parla chiaro: gli Alleati, dall’inizio della guerra, trascurano il fronte alpino; per questa visione del conflitto, limitata al fronte occidentale, pianure di Francia e Belgio, essi “non [hanno n.d.r.] sfruttato la campagna in Italia per schiacciare la resistenza austriaca … [il Re] ha manifestato profondo rincrescimento che l’Austria – che solo pochi mesi fa era sull’orlo del crollo – sia riuscita,con l’aiuto della Germania, a ribaltare la situazione in Italia”. Lloyd George finge di non capire ed esprime “ rincrescimento” per l’assenza del Re alla Conferenza di Roma del 16 gennaio 1917, “dove aveva sostenuto con
forza la sua posizione in favore di un’azione combinata sul fronte italiano”.
Il Signor Primo Ministro inglese dimentica che il Re non era a Roma perché era al fronte. (2)
Il Re informa: l’Esercito italiano ha già perso 30.000 ufficiali.
I presenti non sanno o fingono di non sapere quanto effettivamente accaduto a Caporetto e che cosa abbiano saputo fare i nostri soldati. Il Re colma le loro lacune. Egli non nega e non sminuisce nulla: ma metodicamente, analizza le ragioni principali del “collasso dell’esercito italiano sotto l’attacco combinato austro-tedesco”.
Per il Sovrano le ragioni principali del nostro cedimento sono:
a) una nebbia molto fitta che gravava il giorno dell’attacco sul fianco settentrionale dell’esercito italiano e che ha reso impossibile l’uso dell’artiglieria.
b) L’assenza di ufficiali professionisti addestrati, che potessero manovrare le truppe in modo adeguato una volta cominciato il ripiegamento”.
A queste ragioni se ne aggiunge un’altra, senza dubbio la più importante e tecnicamente grave, che il Re mette in evidenza senza mezzi termini:
[Il Re] Ha detto che l’esercito italiano aveva perso circa 30.000 ufficiali nel corso della guerra e che quelli più giovani, non adeguatamente addestrati, non erano in grado di gestire i loro uomini nelle difficili condizioni che la ritirata aveva portato alla luce”.
Egli “aveva osservato lo stesso fenomeno nell’esercito austriaco”, infatti: ”quando gli italiani avevano sfondato le linee austriache durante la loro recente avanzata [probabilmente il Re si riferisce alla battaglia delle Bainsizza n.d.r.] i soldati austriaci non adeguatamente addestrati, non avevano saputo ripiegare nel modo dovuto ed erano caduti preda dell’esercito italiano avanzante”
Sul campo: frequentissimi assalti e contrassalti dei due eserciti, malattie e condizioni igieniche inumane riducevano a larve le unità combattenti; non c’era tempo per addestrare adeguatamente i nuovi ufficiali ed i nuovi soldati. Da qui la confusione nell’attuare manovre complesse, come sono in genere
le ritirate.
Disfattismo: questione gonfiata ad arte. Il Re la liquida con fastidio.
[Il Re] “… ritiene sia stata attribuita un’importanza indebita all’entità dei progressi fatti dal movimento pacifista all’interno dell’esercito. Senza dubbio, danni sono stati fatti in un certo numero di casi isolati, dagli appelli del clero e in misura minore dall’influenza dei socialisti, ma nel complesso [il Re] non
pensa che il morale italiano sia stato seriamente scosso da tali influenze. Attribuisce più importanza alla durata della guerra, che ha reso gli uomini stanchi e depressi, e sottolinea come sia stato osservato che chi torna dalla licenza è generalmente depresso e scoraggiato per lo stato in cui ha trovato la sua famiglia e le sue piccole faccende”.
Fede del Re nel Soldato italiano e del soldato nel Re significa lealtà verso le istituzioni. Pure virtù civiche. In un documento, che Cadorna aveva indirizzato al Presidente Boselli l’8 giugno 1917, leggiamo:
Persona che si ha ragione di ritenere di fiducia, addetta al servizio informazioni, riferisce, in data 6 giugno, quanto è trascritto nell’annesso foglio …”. L’Informatore, a noi sconosciuto, scrive: “Roma, 6 giugno 1917. Ho avuto in questi giorni un colloquio con Scalarini, il noto pupazzettista dell’«Avanti»
e l’ho condotto sull’argomento della propaganda socialista pacifista nell’esercito e nel Paese. … I soldati siciliani, sardi ecalabresi – mi ha detto lo Scalarini – sono monarchici per la pelle; essi sparerebbero contro di noi socialisti con la medesima facilità e con la medesima voluttà con la quale sparano agli austriaci, e noi dobbiamo quindi fare fra loro opera di persuasione e di propaganda, cercando di attirarli nella nostra orbita. ….” (3)

Tradimento. Accusa respinta
Sebbene siano state anche avanzate accuse di tradimento, non un singolo caso è stato provato e [il Re] è convinto che l’esercito italiano non sia stato intaccato con successo dal nemico”.

La ritirata
“Riguardo alla ritirata in sé, ha detto che il ripiegamento della Terza Armata è stato condotto in modo piuttosto soddisfacente e che anche il gran numero di feriti di questa armata è stato evacuato con successo. La Seconda Armata si è in larga misura sbandata durante il ripiegamento, ma centinaia di migliaia di
uomini sono stati raccolti nelle retrovie e saranno riorganizzati in unità regolari appena possibile. Basandosi su quanto osservato personalmente durante il ripiegamento, [il Re] non pensa che morale degli uomini sia stato seriamente intaccato.
Riguardo alle tre divisioni schierate più a nord, in Cadore, una ha ripiegato con successo, ma di due non si hanno notizie da diversi giorni e non si è ancora certi se siano state tagliate fuori dal nemico o se si stiano ritirando con successo in direzione ovest attraverso le colline ai piedi delle Alpi”.
È giusto ricordare che il generale Sagramoso, responsabile delle retroguardie, svolgeva un metodico lavoro di recupero delle unità e dei singoli, che si erano scollegati dal grosso delle truppe.
Il nostro futuro è il Piave
Il Re incardina a quattro ragioni tecniche essenziali la necessità di resistere sul Piave:
1. impiego di 400 cannoni d’assedio e 600 da campagna, già in batteria sulla sponda occidentale del fiume;
2. le trincee scavate lungo gli argini del fiume;
3. cadendo questa linea, “Venezia sarebbe perduta … perdere Venezia significherebbe dovere ritirare la flotta a Brindisi o a Taranto, poiché più a nord non ci sono porti adatti”;
4. ritirare la flotta in Puglia significherebbe lasciare l’Adriatico quale campo libero alle forze navali austro-tedesche, specialmente ai sottomarini.
“Secondo lui occorre quindi fare ogni sforzo per tenere la linea del Piave”.
Vittorio Emanuele, proseguendo nella sua esposizione, non si nasconde i pericoli che incombono su questa scelta, Il verbale registra: “Il vero pericolo di questa linea – secondo lui – è a nord, verso l’alto corso del fiume, dove le forze tedesche, sul lato destro dello schieramento austriaco, si stanno spingendo rapidamente avanti. Se i tedeschi dovessero riuscire ad attraversare il Piave sull’alto corso e a prendere il Monte Grappa fra Asiago e il fiume, le posizioni lungo il Piave potrebbero essere aggirate e sarebbe necessario effettuare un altro ripiegamento, [le truppe italiane] stavano già occupando il Monte Grappa e si stava facendo tutto il necessario per contrastare la rapidità dell’avanzata tedesca, ma non c’erano dubbi che un
grave pericolo stava minacciando quel settore”. Tuttavia noi stiamo, ricorda il Re, occupando il Grappa e rallentando l’avanzata tedesca. Egli, ancora una volta, non ha dubbi sulla resistenza del nostro esercito e vede lontano. Lo
occupiamo [il Grappa n. d. r.] e lo teniamo sino alla vittoria.
La politica
Lloyd George interviene “con molta forza” sullo “ stato dell’Alto Comando italiano”, il che significa la sostituzione del gen. Cadorna. Il provvedimento era già stato attuato. Tuttavia, “il Re d’Italia ha risposto che, anche se non concordava in alcun punto con le critiche mosse al generale Cadorna, pure
pensava che grande attenzione doveva essere porta alle obiezioni fatte … e che il Governo aveva già deciso di rimuovere il generale Cadorna dal comando e di nominare al suo posto il generale Diaz … “, con l’assistenza del gen. Giardino, Ministro della Guerra.
Il Re trova la soluzione al problema posto dagli Alleati e, nello stesso tempo, ne segna i limiti: vi accontentiamo, ma a casa nostra comandiamo noi.
Il verbale riporta anche alcune peregrine osservazioni dei consiglieri militari alleati che “ … non erano certi fosse stato fatto l’uso migliore delle quattro divisioni francesi spostandole a ovest del lago di Garda …”. La decisione del nostro Comando comunque rimane, non solo, ma il Governo britannico e
quello francese decidono di lasciare completa libertà ai generali Wilson e Foch “ per spostare le sei divisioni alleate attualmente presenti in Italia nei settori del fronte dove pensavano potesse esserne fatto l’uso migliore”.
I due alti ufficiali partono per Padova dove si consulteranno con il nuovo Capo di Stato Maggiore gen. Armando Diaz, circa il trasferimento delle Divisioni di cui sopra. Conclude la conferenza un Re “apparso gioviale”, che si impegna a fare “il suo meglio” per la vittoria. Sottile e dura, come nello stile
dell’Uomo, la vera conclusione del convegno, verbalizzata: “[il Re] crede che per la campagna in Italia sarebbe stato possibile fare di più e ora più che mai pensa sia importante che nell’immediato futuro tale campagna assuma proporzioni maggiori e maggiore importanza”.
Per Lloyd George il Re ha parlato con il “ fervore di Mazzini e [la] chiaroveggenza di Cavour”. (cfr. L’Esercito Italiano …, op. cit., vol. V, Tomo 1°, Narrazione, pag. 13)
Tutto il convegno significa una cosa sola: fede nel popolo.
Da questa scaturisce, il 10 novembre, il proclama alla Nazione, che, riportiamo integralmente in ultima pagina e che si conclude con questa perorazione: Italiani! Cittadini e soldati siate un esercito solo …”.
L’Ufficio Storico dell’Esercito, sintetizza: “L’8 novembre, a Peschiera, presenti Lloyd George, Painlevé, Orlando, Sonnino, Bissolati, Robertson, Wilson, Smuts e Foch, il Re d’Italia intervenne vigorosamente a dirimere dubbi e a dissipare perplessità.
In una minuziosa analisi delle cause del nostro insuccesso militare, il Sovrano scagionò l’Esercito da qualsiasi accusa di scarsa saldezza morale, dimostrando sulla base di mille episodi eloquenti che lo spirito delle nostre truppe se aveva subito una scossa non era affatto compromesso. Affermò che l’Esercito non era stato vinto e che, già in fase di riorganizzazione, aveva in sé la capacità di resistere al Piave, il cui abbandono avrebbe peraltro determinato conseguenze strategiche gravissime per gli stessi Alleati. Dichiarò che la nostra difesa del Piave concorreva alla vittoria della causa alleata ed espresse il suo convincimento profetico che le operazioni alla fronte italiana avrebbero potuto avere, in seguito, caratteri e funzioni risolutive di tutta la guerra.
Era un bagno di spiritualità che il fervoroso proclama alla Nazione del 10 novembre diffondeva nel Paese, con immenso benefico effetto, le cui prove non tardavano a manifestarsi dando l’esatta misura non tanto di una frettolosa corsa a ripari occasionali, quanto di un’etica che solo una plurisecolare civiltà è capace di esprimere.
A malgrado, però, del senso di riacquistata fiducia, gli Alleati continuarono ad irrigidirsi nel loro atteggiamento di voler preservare ad ogni costo le proprie unità.
Ne negarono, infatti, l’impiego immediato sulla linea del Piave, richiesto – su suggerimento dello stesso Presidente del Consiglio – anche dal nuovo Capo di Stato Maggiore italiano, generale Diaz, nel primo colloquio che egli ebbe con essi l’11 novembre”. (L’Esercito Italiano …, vol. IV, Tomo 3°, Narrazione,
pagg. 623-624)

giovedì 8 novembre 2018

Da Caporetto a Caporetto


NUOVE SINTESI
trimestrale di cultura e politica
Direttore Responsabile Michele D’Elia
con la collaborazione dell’Istituto Zaccaria




Francesco Cangiullo, litografia realizzata tra la fine del 1914 e i primi mesi del 1915




1915 - 1918
PROFILO DELLA GRANDE GUERRA
DEGLI ITALIANI

Da Caporetto a Caporetto

 Sabato 24 novembre 2018
Istituto Zaccaria, Aula Magna - ore 15.00
Via della Commenda, 5 – Milano, MM 1


La invitiamo al convegno nazionale di studi storici
organizzato da

NUOVE SINTESI

trimestrale di cultura e politica
con la collaborazione dell’Istituto Zaccaria


1915 - 1918
PROFILO DELLA GRANDE GUERRA DEGLI ITALIANI

Da Caporetto a Caporetto

 Il Direttore Responsabile Michele D’Elia




 PER INFORMAZIONI: 02.68.08.13 – michele.inhostem@gmail.com
P R O G R A M M A


Presentazione del Convegno

Saluti istituzionali

RELAZIONI

Il Convegno di Peschiera, 8 novembre 1917 ed il suo verbale ignorato

Michele D’Elia, Direttore di Nuove Sintesi, Milano

L’Italia, la politica della nazionalità e il Congresso di Roma sulle nazionalità oppresse, 8 – 10 aprile 1918.
Gianluca Pastori, Università Cattolica, Milano

La posizione diplomatica dell’Italia all’inizio della Conferenza della pace
Massimo de Leonardis, Università Cattolica, Milano

La stampa italiana e la Vittoria
Giorgio Guaiti, giornalista e scrittore, Milano

Il Museo del Risorgimento in via Borgonuovo, 23. Un tesoro sconosciuto
Ilaria De Palma, Conservatore delle Civiche Raccolte Storiche, Milano

I costi della guerra e per effetto della guerra
Salvatore Sfrecola, Presidente dell’Associazione Giuristi di Amministrazione, Roma

Tematiche delle arti figurative alla fine della Grande Guerra
Salvatore Paolo Genovese, Docente di Disegno e Storia dell’Arte, Liceo Sc. St. “Vittorio Veneto”, Milano

La febbre spagnola
Claudio Maria Cumetti, medico U.N.U.C.I., Milano

Società delle Nazioni o Federazione Europea?
Paolo Lorenzetti, Segretario provinciale del M.F.E., Milano

La guerra secondo Vilfredo Pareto
Roberto Cipriani, Emerito di Sociologia, Università Roma 3

     
Coordinano i lavori
Paola Manara, Direzione Cultura del Comune di Milano, Area Biblioteche
Paolo Foschini, giornalista del Corriere della Sera

Ingresso libero



Completa il convegno la mostra del Maestro Fernando Carcupino, pittore, illustratore e soldato
sul tema La guerra dei Padri.



Si ringraziano quanti hanno collaborato
per la buona riuscita del convegno.

sabato 20 ottobre 2018

I poeti inglesi e la guerra


I primi cittadini inglesi che si arruolarono volontari furono operai e disoccupati, attratti dalla buona paga militare; ai soldati semplici, di bassa estrazione sociale, toccò il compito di uccidere, mentre i ceti medi e a quelli superiori, ai quali fu ben presto necessario ricorrere per inquadrarli nel ruolo di ufficiali, cercavano di agire sul campo di battaglia in modo sportivo e cavalleresco. Migliaia di giovani si presentarono agli uffici di reclutamento immaginando la guerra come una prova di coraggio e di virilità. Jessie Pope (1868-1941), scrittrice e giornalista inglese, viene ricordata per la sua poesia patriottica e nazionalista, che fu pubblicata in giornali popolari quali il Daily Mail e il Daily Express con lo scopo di spingere i giovani ad arruolarsi. 
Famosa fu la sua poesia The Call: Who’s for the trench– Who’s for the khaki suit– Ae you, my laddie? Are you, my laddie? Who’ll follow French– Who longs to charge and shoot– Will you, my laddie? Do you, my laddie? Who’s fretting to begin, Who’s keen on getting fi t, Who’s going out to win? Who means to show his grit, And who wants to save his skin– And who’d rather wait a bit– Do you, my laddie? Would you, my laddie? 
La guerra, che gli Stati Maggiori europei avevano immaginato come una “guerra lampo” che si sarebbe conclusa nel giro di poche settimane, si trasformò, in realtà, in una guerra da topi, in una guerra “di miserabile infrattarsi – uomini-pigmei che si imbucano sottoterra pregando di scampare ai colpi del gigante che scuote la terra con cieco furore” (E.F. Graham, in War Letters of Rocheste’s veterans). In sintesi, la prima guerra mondiale, secondo l’analisi fatta dallo storico Eric Leed nel suo libro Terra di nessuno, fu un gigantesco e sanguinoso rito di passaggio. 
La Prima Guerra mondiale rappresentò uno spartiacque tra due epoche anche in campo letterario. Per quanto riguarda la poesia inglese, gli anni immediatamente successivi alla morte di re Edoardo VII e all’ascesa al trono di Giorgio V (1910-1936) videro la nascita della “Georgian poetry”, la poesia georgiana, che prese il nome dal re ma anche dal titolo di un’ antologia in cinque volumi, Georgian Poetry, 1911-12, edita da Edward Marsh e pubblicata tra il 1912 e il 1922. L’ antologia conteneva contributi tra l’altro di Rupert Brooke, Walter De la Mare e John Manefi eld. La loro poesia si rifaceva alla poesia romantica e vittoriana e si inspirava principalmente a specifi ci elementi tipicamente inglesi, quali la vita di campagna dove svolgere escursioni in bicicletta o idilliache scampagnate e tradizionali temi pastorali ma, in questo modo, perdendo il contatto con la realtà contemporanea. La poesia giorgiana perse il suo fascino allo scoppio della WWI. La maggior parte dei giovani poeti della guerra modellarono, quindi, i loro primi versi sulle stesse consolidate tecniche poetiche dei poeti georgiani, utilizzando la lirica breve. Ed ecco che Robert Brooke nei versi iniziali del sonetto intitolato Peace, ringrazia per la sfi da morale offertagli dalla guerra in termini di opportunità di personale purifi cazione e rigenerazione morale: “Now, God be thanked Who has matched us with His hour/ And caught our youth, and wakened us from sleeping/ With hand made sure, clear eye, and sharpened power/ To turn, as swimmers into cleanness leaping/ Glad from a world grown old and cold and weary”. E arriviamo al sonetto V, l’ultimo e più famoso della serie 1914, intitolato The Soldier, in cui Brooke parla in prima persona della sua possibile morte. Il poeta esprime quello che era generalmente percepito dagli Inglesi nell’autunno del 1914, e cioè un senso di patriottismo di fronte al nemico e in difesa del proprio paese e l’idealizzazione di coloro che morivano in battaglia. Ma nella poesia intitolata Fragment, scritta mentre Brooke era in viaggio verso la penisola di Gallipoli con i suoi soldati, il poeta vorrebbe che la loro bellezza e solida vitalità potesse durare per sempre. 
A differenza dei precedenti sonetti, quest’ultimo esprime tristezza e un senso di frustrazione nel vedere la distruzione dei migliori giovani d’Inghilterra: “I would have thought of them [i miei compagni] – Heedless, within a week of battle – in pity/ Pride in their strength and in the weight and fi rmness / And link’d beauty of bodies, and pity that/ This gay machine of splendour’ld soon be broken/ Thought little of, pashed, scattered”. Quell’esercito innocente, quella gioventù defi nita da Owen “Doomed”, spacciata, raggiunse una piena conoscenza del bene e del male il 1° luglio 1916 sulla Somme. Prima dell’azione sulla Somme, nel gennaio 1917, W. Owen scrive alla madre: “essere in Francia suscita sentimenti alti ed eroici e io sono in condizioni di spirito perfette”. Ma sedici giorni dopo tutto è cambiato: “Non vedo nessun motivo di ingannarti circa questi quattro giorni. Ho sofferto mille inferni. Non sono stato al fronte. Sono stato davanti al fronte”. 
Morire sventrati da una granata, oppure avvelenati da un’esalazione di gas, non aveva nulla di memorabile o di dignitoso. “Here dead we lie/ because we did not choose/ To live and shame the land/ From which we sprung./ Life, to be sure, is nothing much to lose/ But young men think it is/ And we were young.” Questa poesia Here Dead we lie del poeta A. E. Housman esprime tutto il rimpianto dei giovani soldati caduti in battaglia. La visione idealistica della guerra dei primi poeti lascia, quindi, il posto alla letteratura del disincanto. Signifi cative, a questo proposito, sono le parole che W. Owen scrive nella prefazione al suo volume di poesie: “Questo libro non parla d’eroi... Né vi si parla di gesta, di nazioni, di ciò che concerne la gloria, l’onore, la forza, la maestà, il dominio, il potere, se si eccettua la Guerra. 
Soprattutto non mi interessa la Poesia. Il mio tema è la Guerra, e la pietà della Guerra. La poesia è nella pietà... Oggi un poeta non può che ammonire. Perciò i veri Poeti debbono essere veritieri”. Così come Herbert Read in The Happy Warrior descrive, con amara ironia, un momento terribile della guerra di trincea, quando un soldato inglese colpisce più volte con la baionetta un soldato tedesco: “His wild heart beats with painful sobs,/ His strain’d hands clench an ice-cold rifl e,/ His aching jaws grip a hot parch’d tongue,/ His wide eyes search unconsciously./ He cannot shriek./ Bloody saliva/ Dribbles down his shapeless jacket./ I saw him stab/ And stab again/ A well-killed Boche./ This is the happy warrior./ This is he......” Il mitico guerriero del titolo è paradossalmente descritto con attributi animaleschi, è pazzo di terrore come se la guerra avesse annullato in lui qualsiasi dignità umana. O in Futility, dove W. Owen esplora il senso di desolazione e insensatezza che suscita in lui la morte di un compagno. Ecco come Edgell Rickword, in, Winter Warfare, personifica l’inverno e il gelo “Colonel Cold strode up the Line/ (tabs of rime and spurs of ice); stiffened all that met his glare:/ horses, men and lice”. Nella poesia Breakfast Wilfred Gibson si riferisce ai soldati che “facevano colazione sdraiati sulla schiena perché le bombe fischiavano sulle loro teste”. Anche in Break of the Day in the Trenches (Albeggiare nelle trincee), Isaac Rosenberg richiama un tema caro alla tradizione dell’elegia pastorale inglese, l’alba che, però, non è quella idilliaca di tante poesie georgiane, ma quella tetra della trincea: “The darkness crumbles away./ It is the same old druid Time as ever,/ Only a live thing leaps my hand,/ A queer sardonic rat,/ As I pull the parapet’s poppy / To stick behind my ear.” E poi arrivavano gli attacchi, i colpi di mortaio, le bombe al gas! “Il Gas! Il Gas! Svelti, ragazzi! 
Freneticamente annaspavano infilandosi appena in tempo i goffi elmetti; ma uno ancora gridava e inciampava e si agitava come fosse in mezzo al fuoco o nella calce viva..... Confusamente, attraverso i vetri appannati e la densa luce verdastra, come in un mare verde, lo vidi annegare”. (W. Owen Dulce et Decorum est). Il passaggio dall’entusiasmo iniziale alla disperazione e all’angoscia provate poi effettivamente sul campo è ben sintetizzato nella poesia Glory of Women di Siegfried Sassoon che, si trasformò nel rigoroso moralista del 1917 che alternava oltraggio a sdegno per quanto vedeva tanto da pubblicare il 31 luglio 1917 la lettera aperta al giornale The Times A Soldier’s Declaration. In essa Sassoon affermava: “Rendo pubbliche le mie opinioni come un atto di sfi - da alle autorità militari, perché credo che la guerra venga volutamente prolungata da coloro che hanno il potere di porvi fi ne. Io sono un soldato, convinto di agire per il bene dei soldati. Credo che l’attuale guerra, nella quale sono entrato credendola guerra di difesa e di liberazione, sia ora divenuta una guerra di aggressione e di conquista... 
Per fortuna, un suo amico, il noto scrittore Robert Graves, riuscì a persuadere la commissione giudicatrice che Sassoon soffrisse di shell shock, un trauma psichico dovuto alla guerra. Fu confinato per un certo periodo nell’ospedale militare di Craiglockhart in Scozia come malato di mente. 
Tornando al sonetto Glory of Women, esso rappresenta una dura condanna di quel patriottismo che si prova in patria ma che non ha riscontri nella realtà sui campi di battaglia e nelle trincee: “You love us when we’re heroes, home on leave,/ or wounded in a mentionable place./ You worship decorations; you believe/ That chivarly redeems the war’s disgrace.” Al nono verso il poeta mostra al lettore il vero volto della guerra: “You can’t believe that British troops “retire”/ When hell’s last horror breaks them, and they run,/ Trampling the terrible corpses- blind with blood.” La “German mother dreaming by the fi re,/ While she is knitting socks to send her son” non ha nessuna idea che “His face is trodden deeper in the mud.” Ma questa madre è “tedesca”; perché il poeta ha voluto sottolineare che anche le madri tedesche non hanno la percezione delle sofferenze che i loro figli devono sopportare? Perché la perdita di giovani vite è l’unico vero fattore unificante per le donne e per le nazioni; la morte è l’unica fondamentale ineludibile realtà, che però solo il soldato al fronte, che sia inglese o tedesco, riesce a vedere. Infine, l’Inghilterra preguerra descritta da P. Larkin nelle prime tre strofe della poesia MCMXIV, è svanita per sempre insieme a quella moltitudine di uomini morti combattendo per il loro Paese: “Never such innocence again”, ovvero mai più una tale innocenza! Signifi cativo è il fatto che Larking abbia scritto questa poesia all’inizio degli anni 60, a sottolineare l’enorme impatto che la guerra ebbe nella storia dell’umanità.

Daniela Savini

domenica 15 luglio 2018

Grande Guerra, quarta dell’indipendenza italiana.


Aspre sono le guerre. Aspra è la Prima Guerra Mondiale. Questa nasce da un groviglio di interessi economici e coloniali, di errori diplomatici e di egoismi politici, di pesi e contrappesi nazionali ed internazionali e di guerre locali. Concetti dei quali non aveva idea Gravilo Princip, assassino per caso di Francesco Ferdinando e della sua consorte Sofia Chotek il 28 giugno 1914, dopo il fallito primo tentativo nella stessa mattinata. L’Attentatore pensava che la morte dell’Arciduca, peraltro aperto alle richieste degli slavi, avrebbe liberato la Serbia e gli slavi meridionali dal dominio austriaco. Ne nacque, invece, un infernale domino, con la seguente  scansione temporale: 23 luglio, ultimatum dell’Austria alla Serbia; 28 luglio, l’Austria dichiara guerra alla Serbia; 30 luglio, lo zar Nicola II, protettore degli slavi meridionali, ordina la mobilitazione generale; 31, Guglielmo II intima  alla Russia e alla Francia di interrompere la mobilitazione entro12 ore; 1 agosto, dichiara guerra alla Russia e il 2 invade il Lussemburgo; il 3  dichiara guerra alla Francia; nella notte tra il 3e il 4  invade il Belgio, il 7 i tedeschi entrano a Liegi.
Lo stesso 3 agosto, l’Italia dichiara la propria neutralità, in forza dell’art. VII del Trattato della Triplice Alleanza. 4 agosto, l’Inghilterra dichiara guerra alla Germania; il 6 anche l’Austria dichiara guerra alla Russia; il 9 e il 13  rispettivamente Francia e Regno Unito dichiarano guerra all’Impero austro-ungarico. Il 27, il Giappone interviene a fianco dell’Intesa; il 5 ottobre, la Bulgaria dichiara la propria alleanza con gli Imperi Centrali; il 31, la Turchia si schiera con l’Austria e la Germania.
Secondo una tesi propria anche di personalità come il  Premio Nobel Thomas Mann, la Germania aggredisce per non essere aggredita, come Federico II ai tempi della Grande Coalizione.
L’esercito tedesco il 20 agosto occupa Bruxelles, il 3 settembre giunge Senlis a 35 Km da Parigi. Il Governo francese si era già trasferito a Bordeaux.
Anche questa sconosciuta velocità  delle armate tedesche prelude e simboleggia le profonde trasformazioni  dell’assetto tecnico, geopolitico, sociale ed economico, e soprattutto mentale, del vecchio continente e delle sue colonie. Infatti,  la Grande Guerra sarà anche un conflitto coloniale; o, secondo Lenin, l’ultima frontiera del capitalismo.
Per tutti  i  Paesi europei la dichiarazione di guerra è quasi un automatismo; non così per l’Italia.

Il  giovane Regno, vincolato agli Imperi Centrali dall’Alleanza firmata  nel 1882 e confermata nel 1902, dovrebbe intervenire, ma non lo fa; motivo ufficiale: il patto è difensivo e non offensivo.
Nei fatti le cose stanno diversamente: l’Italia è un Paese di recente costruzione, ancora geograficamente incompleto, perché privo di alcune sue vaste regioni, sintetizzate, nella memoria collettiva, nei nomi di Trento e Trieste, perle dell’Impero. Le popolazioni della Penisola non sono amalgamate; milioni di cittadini, nonostante l’impegno della Monarchia, non sanno  nemmeno leggere e scrivere. Gli italiani sono cattolici e rifiutano lo spargimento di sangue, anche se tra i cattolici emergono frange interventiste, che fanno capo a don Romolo Murri. La diplomazia è delusa dall’altalenare del Governo Salandra. Questa amarezza è manifesta in molta corrispondenza tra i vari Ambasciatori; un esempio: l’ambasciatore a Vienna Avarna il 5 ottobre 1914 rispondendo al collega di Berlino, Bollati, che gli aveva scritto il 25 settembre, lamenta che il Corpo Diplomatico “sia tenuto interamente all’oscuro del vero pensiero del Governo” e preannuncia  l’intenzione di voler    lasciare l’incarico “… non volendo rendermi complice dell’atto di slealtà che sta maturando”, ovviamente verso l’Austria-Ungheria. (Documenti Diplomatici Italiani)
Violente fibrillazioni scuotono il mondo politico: i socialisti e le Sinistre in generale pensano prima ad uno sciopero contro la guerra, poi si dividono in interventisti democratici e tradizionali. Benito Mussolini cambierà fulmineamente idea e campo: espulso dal P.S.I.   fonda  il Popolo d’Italia il 14 novembre 1914  e lancia una specie di grido di battaglia con l’articolo “Audacia!”. Il mondooperaiosi riunirà a Zimmerwald, presso Berna, tra il 5 e l’8 settembre 1915; con un proprio  Manifesto, detto appunto  di Zimmerwald, contesterà la scelta dei socialisti europei di partecipare alla guerra ciascuno per il proprio Paese, in nome del sacro egoismo nazionale; ma il loro grido:”Proletari di tutti i paesi unitevi!”, cadde nel vuoto.
 I socialisti italiani, in tale consesso, sono rappresentati da Lazzari, Serrati, nuovo direttore dell’Avanti! e Modigliani. I Futuristi, primo fra tutti Marinetti, ma anche Papini, Curzio Malaparte, le riviste La Voce, Lacerba, … i pittori Carrà, Carlo Erba, i  matematici come Eugenio Elia Levi, architetti come Antonia Sant’Elia, scrittori come Serra,  che cadranno in battaglia; gli irredenti Battisti ed i fratelli  Filzi, si schierarono per l’intervento. Quasi superfluo ricordare Giuseppe Ungaretti e l’indigesto D’Annunzio. Tanti altri ancora come Monelli, Papini, Omodeo,  Pertini, Lombardo Radice, Parri, Calamandrei, Pieri, Cecchi, Rebora, Volpe, l’anziano Bissolati, Amendola  … non tutti  futuristi e neanche nazionalisti, per dovere civico o libera scelta, parteciparono al conflitto, con diverse funzioni . Anche i repubblicani mazziniani sono per la guerra. Ogni nome rappresenta una storia diversa, ma un ideale comune: quello di Patria, pur diversamente declinato.
 A fronte di queste minoranze più che vivaci, la classe politica liberale, che fa capo a Giovanni Giolitti, tiene un contegno molle ed incerto, segno di decadenza. Il Re tace. La Camera, contraddicendo un suo precedente e recente atto, il 20 maggio 1915 vota l’intervento  contro l’Austria-Ungheria con 407 sì e 74 no; ma solo il 28 agosto 1916 dichiareremo guerra all’Impero germanico, segno che il secolare nemico è uno solo. Antonio Salandra, che si era dimesso il 13, viene riconfermato Presidente del Consiglio ed ottiene  i pieni poteri. Il 22 maggio il Re firma il decreto di mobilitazione generale, il 23 l’ambasciatore a Vienna Avarna, consegna la dichiarazione di guerra al ministro Burian. Il 26 il Re, dal quartier generale Martignacco di Udine,  lancia il suo primo Proclama ai soldati. Vittorio Emanuele III lascerà il fronte solo per risolvere le crisi di governo.                                                                                                                                                        
Il giovane Regno ha un’occasione ed una speranza: accreditarsi tra le potenze continentali ed intercontinentali anche e proprio perché fu presto chiaro, forse non a tutti, che l’eurocentrismo stava scomparendo e che il conflitto ne avrebbe accelerato la fine.
La guerra fu luogo di scontro e d’incontro, per l’Italia, di uomini di regioni, civiltà, costumi e lingue diverse. I nostri soldati analfabeti  cominciarono ad imparare a leggere e scrivere in una lingua sino ad allora sconosciuta: l’italiano (De Mauro). 
La guerra è una costante del genere umano: da Socrate a Karl von Clausewitz i conflitti armati sono la continuazione della politica, quando questa e la diplomazia non hanno più niente da dire.
Guerra e pace sono intimamente connesse. Solo dallo scontro cruento nascono nuove realtà sociopolitiche, anche se a volte peggiori di quelle soppiantate.
Aree di frizioni geopolitiche divennero, lentamente e poi sempre più rapidamente, origine di frattura ideologica e sociale. Ozioso è chiedersi se un conflitto sia giusto o ingiusto, morale o immorale. Pungente ed equilibrata la tesi di  Benedetto Croce  in  L’Italia dal 1914 al 1918. Pagine sulla guerra ha scritto: “… quando la guerra scoppia (e che essa scoppi o no, è tanto poco morale e immorale quanto un terremoto o altro assestamento tellurico) i componenti dei vari gruppi non hanno altro dovere morale che di schierarsi alla difesa del proprio gruppo, alla difesa della Patria … Solo a questo modo l’individuo è giusto, sebbene, a questo modo, giusto sia anche l’avversario e, per questa via giusto sarà per un tempo più o meno lungo, l’assetto che si formerà dopo la guerra”.
Tra questa tesi e quella di von Clausewitz si dispiega una serie quasi infinita di livelli e di interpretazioni polemologiche. Sta di fatto che la Grande Guerra è il displuvio tra il nuovo e l’antico, processo di trasformazione al quale l’Italia non poteva sottrarsi.
I  belligeranti respinsero con fastidio l’appello di Benedetto XV, dell’uno agosto 1917, concordato con l’imperatore Carlo, per porre fine all’inutile strage, tanto si erano identificati nei propri interessi e nelle proprie ragioni, e pure, proprio in agosto a Torino era scoppiata la sanguinosa  ‘rivolta del pane’.

Caporetto e Vittorio Veneto  sono due metafore che rappresentano l’Italia, sempre caricate di significati estranei alla loro natura di fatti bellici. Mercoledì 24 ottobre 1917 alle ore 2 del mattino gli austro-tedeschi investono, con i gas, gli avamposti della conca tra Plezzo a Tolmino. Hanno in mente un’operazione di ordine tattico, condotta su tre colonne che attaccano contemporaneamente sulla destra e sulla sinistra dell’Isonzo. Il progetto  divenne via  via strategico, quando il nemico si  rese conto che i nostri Comandi  al più alto livello nelle prime ore non riuscivano ad organizzare alcun contrasto in profondità, poiché la loro filosofia era sempre stata solo di attacco e non anche di difesa in profondità.  La 14ª Armata austro-tedesca, 15 divisioni, investì tre nostre divisioni prive di riserve. In sintesi, il nemico avanzò lungo la linea Isonzo-Tagliamento-Udine- Belluno- Piave nel vuoto, per tutta la prima giornata.  Il piano di contrasto  fu preparato da Cadorna  tra il 28 e il 30 ottobre. I reparti in linea, nel frattempo, si ritiravano combattendo. Pochi esempi: il 24 stesso alle ore 14 nel comune di Idersko si combatte casa per casa e solo alle 16 i battaglioni slesiani occuperanno Caporetto.
il 25 ottobre: “… ufficiali della brigata Napoli, 75° reggimento, che si trovavano verso Monte Piatto videro al mattino del 25 i battaglioni della brigata Firenze, che salivano a plotoni affiancati l’erta ripida verso la cima del Podklabuk … L’artiglieria nemica rivolse il tiro contro di essi. Si videro i plotoni colpiti scomporsi, ricomporsi subito e ritentare la salita; ed i fanti della brigata Firenze salivano sempre più in alto, mentre vuoti continui si osservavano nelle loro file”. Così Guido Sironi, I vinti di Caporetto.
Il Diario del  LI Corpo d’Armata tedesco conferma: “Gli italiani difesero lo Jeza con straordinario valore”.
Il 27 ottobre il Bollettino austriaco afferma: “ Gli italiani hanno difeso la Bainsizza a passo a passo”.
E ancora: “Le intercettazioni telefoniche ci facevano conoscere le maledizioni alla nostra artiglieria, il numero dei morti e dei feriti, le proteste degli ufficiali perché fosse data un’altra sistemazione alle loro truppe”. Generale Enrico Caviglia in La dodicesima battaglia – Caporetto pag 93.
La travolgente avanzata dopo le prime 24 ore andò gradatamente rallentando sino a spegnersi del tutto sulle rive del Piave il 9 novembre; tra il 10 e l’11 dicembre 1917, si spensero anche le ultime spallate di Conrad.
L’arretramento sulla linea del Piave era previsto sin dai tempi di Odoacre, di Napoleone e del generale Cosenz. Cadorna il 27 ottobre giunge a Treviso e  predispone il rischieramento dell’esercito sulla riva destra del Piave; il 30 il nuovo progetto è pronto. Sarà attuato da Diaz. Purtroppo, alle ore 13 del 28 il Generalissimo aveva emanato l’infelice Bollettino n.° 887, che accusava di viltà la II Armata. Cadorna avrebbe spiegato la sua accusa nel volume Pagine polemiche Garzanti 1951. (D. D. I.) Un po’ tardi!
Sul fronte politico il Re, tornato a Roma il 26, risolve la crisi di governo sostituendo  Boselli con Orlando e nominando, poi,  il generale Diaz al posto di Cadorna. Il 5 e il 6 novembre si svolse a Rapallo la riunione preparatoria del convegno dell’8 a Peschiera. Qui Vittorio Emanuele III sostenne le ragioni del soldato italiano e la sua capacità di resistenza. Non sbagliò. Il Piave, quindi, fu un disegno netto e meditato, che riduceva la linea del fronte da 650 a 300 km, e ci consentiva un rafforzamento fondamentale nell’immediato e nella prospettiva.
                                                                                                                                                        
L’altra metafora è Vittorio Veneto. Per taluni è  modesta  battaglia enfatizzata dalla propaganda governativa. Falso. Le tre battaglie del Piave, che a Vittorio Veneto si conclusero il 31 ottobre, ci costarono 36.000 perdite, delle quali 7.000 morti accertati. Vero è, invece, che l’implosione dell’Impero asburgico non aveva intaccato  la capacità di resistenza e offesa dell’ esercito, fedele all’Imperatore.
Non possiamo descrivere l’andamento degli scontri sul Piave e sul Grappa,  dove già il 24 eravamo partiti all’attacco e dove i combattimenti saranno più sanguinosi che sulle rive del Piave e sugli Altipiani, ma la montagna non ebbe un Cantore, come l’ebbe il fiume; diremo soltanto che il  nemico organizzò la propria manovra su tre momenti: a. superare il Piave;  b. prendere Venezia; c. dilagare nella Pianura Padana. 
                                
La massima penetrazione del nemico si ferma sull’ansa tra Zenson e la Grave di Papadopoli.  Lo storico londinese Erbert A. L. Fisher nella sua  Storia d’Europa, a pag 401, aveva scritto:“Che, dopo simile disfacimento del morale militare,[Caporetto ndr] il fronte italiano fosse solidamente ricostruito, dimostra la grande abilità di Cadorna e l’enorme forza di reazione italiana. Il Piave fu tenuto e fu salvata Venezia. Ma al sopraggiungere dell’inverno era ancora incerto se l’esercito italiano, benché sotto il nuovo comandante Diaz e rafforzato da divisioni francesi e inglesi, sarebbe stato in grado di respingere vittoriosamente il nuovo attacco”. Purtroppo l’illustre storico dimentica che prima della battaglia di Caporetto gli Alleati avevano ritirato dal fronte alpino ben 99 medi calibri ed avevano sospeso l’invio, già iniziato, di altre 102 bocche da fuoco, il 19 settembre 1917, non credendo all’imminente attacco degli Imperiali. Non  solo, ma le divisioni promesse non saranno 11 e le poche arrivate si attesteranno oltre il Mincio. Gli Stati Uniti, entrati un guerra il 6 aprile del 1917,  ci manderanno un solo reggimento, il 332° di fanteria. Astuti!
Epitome della guerra italiana è il passaggio del Piave. Sera del 26 ottobre 1918: “Appena fu notte, cominciarono le operazioni sulla fronte delle armate schierate lungo il fiume, fra Pederobba e La Grave. La 12ª e l’8ª armata potevano agire per sorpresa; la 10ª, avendo già sfruttato la sorpresa, doveva passare di viva forza. Verso le ore 21 le truppe erano raccolte ai posti prestabiliti; ed i pontieri erano pronti. Cominciò subito il traghetto con le barche. Gli Austriaci tacevano, ed il rumore delle barche sul terreno e dei carri era soffocato da quello della turbinosa piena del fiume. Essa ci rendeva un buon servizio, pur essendo in quel momento la nostra principale avversaria. La 12ª armata, dopo vari tentativi di gittamento del ponte, era riuscita a far passare al di là il 107° fanteria francese, i battaglioni alpini Bassano e Verona, nonché due compagnie mitragliatrici e due compagnie della brigata Messina (XII corpo d’armata – Di Giorgio). Ma tutti i lavori per gittare un ponte e tre passerelle furono distrutti dalla piena e dalla reazione nemica. Al mattino del 27 le truppe passate erano isolate al di là del fiume”.   Le tre battaglie del Piave (pagg. 174-175)  Così il Generale Enrico Caviglia, comandante l’VIII Armata, che condusse la manovra.
Da questo momento le truppe italiane proseguiranno in profondità riprendendo uno per uno tutti i centri occupati dal nemico. 30 ottobre mattina, cade Vittorio Veneto. 1 novembre, ore 11, cade Belluno. 3 novembre, ore 2,30, l’Imperatore Carlo telefona al Capo di Stato Maggiore l’ordine segreto n.° 2.101 che recita tra l’altro: “Le condizioni di armistizio dell’Intesa sono accettate …”.
Eccone i momenti fondamentali:
3 novembre alle 13,30 cade Udine. Stesso giorno, ore 15,15 ‘Alessandria Cavalleria’ entra a Trento.   Alle 16 il gen. Petitti di Roreto sbarca a Trieste con 200 carabinieri, il 10° battaglione bersaglieri ed una compagnia di mitraglieri della Regia Marina. Sempre il 3 novembre, ore 18,20, i generali Badoglio e von Webenau, a Villa Giusti, firmano l’armistizio. Questo atto stroncò la nostra avanzata verso Vienna. Nessuno, amici ed alleati, voleva che l’Italia andasse oltre.
4 novembre, ore 15, cade Caporetto.
Stesso giorno il gen. Diaz firma il “Bollettino della Vittoria”.
9 novembre, il Re, dal Comando Supremo, indirizza il suo Ordine del Giorno all’Esercito ed all’Armata.
10 novembre, Vittorio Emanuele III sbarca a Trieste dal cacciatorpediniere ‘Audace’.
Tuttavia, l’esperienza bellica modifica le coscienze e testimonia l’esaltazione della storia di  un popolo, ignaro, sino a quel momento, di quanto sapesse fare e sconosciuto a se stesso. I nostri giovani chiusero un’epoca e ne iniziarono un’altra. Diedero prova di virtù civiche prima ancora che militari. Si identificarono nello Stato Nazionale. Cianciare di “generazione perduta” significa negare noi stessi. 
  
Michele D’Elia
Direttore R. di Nuove Sintesi