venerdì 16 febbraio 2018

IL GENERALE LUIGI CADORNA E IL DUCA TOMMASO GALLARATI SCOTTI



Il Duca Tommaso Fulco Gallarati Scotti
Dal sitro http://www.ambrosiana.eu
Tommaso Fulco Gallarati Scotti (1878-1966) apparteneva all’alta nobiltà lombarda, figlio primogenito di Gian Carlo, Principe di Molfetta, e di Maria Luisa Melzi d’Eril dei Duchi di Lodi. Cattolico liberale, vicino al modernismo ma ossequiente all’autorità del Papa, in coerenza con la sua posizione ispirata all’interventismo democratico ma anche a quello del Direttore del Corriere della Sera Luigi Albertini, vide nella Grande Guerra l’occasione di una conciliazione tra coscienza religiosa, unità nazionale e senso dello Stato. Nell’imminenza del conflitto, si presentò quindi volontario, ottenendo il decreto di nomina a Sottotenente di Fanteria il 9 maggio 1915.
Assegnato al 5° Reggimento Alpini (il cui Battaglione Morbegno fu il primo a sperimentare nel 1907 la divisa grigio-verde poi adottata da tutto il Regio Esercito), tradizionalmente legato alla città di Milano, su richiesta del Sottocapo di Stato Maggiore Generale Carlo Porro dei Conti di Santa Maria della Bicocca, amico della famiglia di Antonio Fogazzaro al quale il Duca era assai
vicino, e del Col. Andrea Graziani, fu però subito chiamato al comando del V corpo d’armata, prestandovi servizio come ufficiale ricognitore dal giugno 1915 al giugno 1916. Partecipò ad azioni belliche ottenendo una promozione a Tenente per meriti di guerra e un Encomio solenne. Dal giugno all’ottobre 1916 fu ufficiale di collegamento presso il Comando del XXII Corpo d’Armata. Il 23 settembre 1917 il Generale Luigi Capello gli concesse direttamente la medaglia d’argento al Valor Militare per le azioni del 12-17 maggio precedente. Il Decreto del 20 giugno 1918 recita: «Nei giorni che precedettero e seguirono la conquista di Monte Cucco, in accompagnamento di un autorevole personaggio [il Generale Cadorna] portava alle truppe, nelle zone avanzate, sotto violento bombardamento, il contributo di fede: animatore delle truppe stesse e sprezzante del pericolo, si spingeva sino alle prime linee, dando esempio di coraggio personale e chiare virtù militari» (1).
Forse su suggerimento del Generale Porro, Cadorna lo chiamò come proprio Ufficiale d’Ordinanza al Comando supremo, dove prestò servizio dal 26 novembre 1916 al 9 novembre 1917. Il Duca era vicino a Cadorna anche per la sua amicizia con la figlia Carla, «donna di superiore carattere e di forte cultura», già simpatizzante per il movimento modernista. Al Comando Supremo Gallarati Scotti svolse un ruolo sicuramente assai importante. Si legge nel Rapporto personale a lui relativo stilato da Cadorna il 22 giugno 1918: «Il Tenente Gallarati-Scotti Tomaso (sic) ha prestato servizio presso di me circa un anno e mezzo quale Ufficiale d’ordinanza. Egli è persona di molta intelligenza, di vasta coltura, noto in Italia come distinto scrittore. Per questa sua qualità nella quale l’ho largamente impiegato, per la signorilità dei modi, per il tatto, per la devozione che mi ha costantemente dimostrata, io non posso che esprimere la più larga ed ampia soddisfazione per il servizio a lui prestato. Egli si è guadagnata una medaglia al valor militare, e, son certo che nel suo nuovo servizio presso le truppe Alpine, farà largamente onore al suo nome».
Dopo Caporetto, Gallarati Scotti segui Cadorna, destinato a Versailles come rappresentante italiano presso il Consiglio Supremo di guerra interalleato, dal novembre 1917 al febbraio 1918. Quando il 17 febbraio Cadorna fu sostituito in tale ufficio dal Sottocapo di Stato Maggiore Gaetano Giardino, Gallarati Scotti dal 5 giugno al 18 settembre prestò servizio nel Battaglione Alpino sciatori Monte Ortler (così era chiamato allora l’Ortles), poi fino al congedo il 17 dicembre nel Battaglione Alpino Val d’Orco, entrambi del 5° Reggimento Alpini. Decorato nel 1919 di Croce al Merito di Guerra e nel 1931 della Medaglia di benemerenza per i volontari della guerra italo-austriaca 1915-18, promosso Capitano nel 1929, Maggiore della riserva nel 1934 e infine Tenente Colonnello nel 1939.
Dalle lettere di Cadorna emerge un rapporto assai affettuoso con il suo Ufficiale d’ordinanza, alla cui madre, scriveva il 25 ottobre 1918: «A Tommasino mi legano vincoli indissolubili di affetto e di riconoscenza per tutto ciò che ha fatto per me nelle fortunose vicende che si son svolte da un anno in qua». Ancora alla stessa il 22 aprile 1922: «Il bravo suo figlio Tommasino non deve
nulla a me. Sono io, invece, che debbo molto a lui, il quale, negli “indimenticabili giorni” mi dimostrò tanto interesse ed amicizia, nel momento in cui, a disdoro dell’umanità - ma senza sorpresa alcuna - dovetti assistere a tanti tradimenti! Sono quelli i momenti, “quando si cangia in tristo il lieto stato”, in cui si distinguono i falsi dai veri amici. Fu allora che mi affezionai vivamente al di lei figliolo e che lo annoverai fra i miei migliori amici».
Il rapporto stretto e affettuoso tra i due si costruì sulla base delle comuni idee che per brevità definirò cattolico-liberali, si rafforzò nel periodo in cui Gallarati Scotti fu collaboratore prezioso al Comando Supremo e divenne ancora più forte quando dopo Caporetto egli si schierò fermamente a fianco di Cadorna, collaborando attivamente alla difesa della sua immagine e del
suo operato. Tale difesa non verteva tanto sulla condotta militare della guerra, campo nel quale Gallarati Scotti non aveva evidentemente particolare competenza, anche se nei suoi taccuini non mancano acute osservazioni, quanto sul carattere del Generale, sulle sue doti di Comandante, sul suo chiudersi in uno sdegnoso silenzio senza entrare pubblicamente in polemiche, atteggiamento molto apprezzato dal Duca, sulla sua sobria e virile
personalità aliena da compromessi: «maschia figura ascetica con una impronta tra militare e sacerdotale», lo aveva definito in un appunto del 16 maggio 1916.
Gallarati Scotti si offrì di dare la sua testimonianza alla Commissione d’inchiesta su Caporetto. 11 Duca riferì tra l’altro queste parole dettegli dal Comandante Supremo: «Io non voglio commissari civili in zona di guerra; se hanno fede in me mi tengano, altrimenti mi mandino via, ma non tollero che un ministro incompetente venga a controllare l’opera mia e a lavorare nascostamente contro di me». Domenica 10 aprile 1921 un lungo articolo di Gallarati Scotti dal titolo Cadorna comparve su La Perseveranza, il vecchio quotidiano conservatore di Milano, ancora pregevole per qualità ma di modesta diffusione, che traeva spunto dalla pubblicazione dell’opera di Cadorna La guerra alla fronte Italiana fino all’arresto sulla linea della Piave e del Grappa (24 maggio 1915-9 novembre 1917). «Tacque. Dolorosamente, fieramente si impose silenzio. - scriveva il Duca riferendosi a Cadorna - Non parlò nelle ore amare in cui dopo gli esaltamenti senza misura, le classi dirigenti, che hanno un fondo idolatrico e alzano sugli altari con onori divini quando la fortuna è propizia, concentravano tutte le ire e tutte le responsabilità sul suo nome.
Non parlò di fronte agli ambigui accorgimenti degli uomini politici che, temendolo, per allontanarlo lo pregarono in nome degli interessi supremi del Paese di rappresentare l’Italia nel Consiglio supremo di guerra di Versailles, e lo consegnarono, pochi giorni dopo, come un accusato, nelle mani di una Commissione d’inchiesta. Obbedì tacendo, [...] e il suo silenzio fu pieno di una dignità austera che impose rispetto ai suoi stessi avversari». Ora finita la guerra, ha pubblicato: Gallarati era stato tra quelli «che più dubitarono dell’opportunità che il suo silenzio fosse rotto», tuttavia «dobbiamo subito convenire che la sua parola è degna del suo silenzio perché ispirata da uno stesso sentimento dell’onore nazionale». «È una rivendicazione appassionata e convinta» della sua opera nei tre anni di Comando Supremo, evitando «salvo qualche eccezione per l’estero, qualsiasi accenno polemico che non sia strettamente indispensabile all’esatta comprensione dei fatti”». «Cadoma deve giustificare sé (sic) stesso, non tanto di fronte ai critici militari, agli uomini politici, alla stampa e all’opinione pubblica italiana ed estera; quanto a ciascuno dei vivi e dei morti, di cui tenne il destino nelle sue mani». Lo definiva «un uomo nato per i supremi cimenti». Passate in rassegna le principali fasi della neutralità e della guerra, Gallarati Scotti concludeva che Cadorna «può in coscienza affermare che la sua azione nella guerra non finisce a Caporetto, ma al Piave».
Gallarati Scotti fu poi oppositore del Fascismo, mentre il fratello Gian Giacomo fu Senatore del Regno (2)e Podestà di Milano dal 1938 al 1943. Nel dopoguerra fu Ambasciatore a Madrid (1944-46) e a Londra (1947-51) e successivamente uno dei protagonisti della vita intellettuale (3) e pubblica milanese, ricoprendo tra l’altro gli incarichi di presidente dell’Ente Fiera (1954-58) e del Banco Ambrosiano (1954-65).
Massimo De Leonardis
Università Cattolica, Milano


1 Salvo altra indicazione, le citazioni sono da documenti dell’Archivio Tom-
maso Gallarati Scotti, presso la Biblioteca Ambrosiana di Milano.
2 Alla sua morte nel 1983 era l’ultimo rimasto, come pure, alla vigilia della
scomparsa, fu tra gli ultimi insigniti dal Re Umberto II del Collare dell’Or-
dine Supremo della SS. Annunziata.
3 Tra le sue opere principali: La vita di Antonio Fogazzaro, Milano 1920,
Storie dell’amore sacro e dell’amore profano, Milano, 1924, Vita di Dante,
Milano 1957, Interpretazioni e memorie, Milano 1961, La giovinezza del
Manzoni, Milano 1982.


sabato 10 febbraio 2018

La fronte orientale Alpina nella grande guerra e le sue fortificazioni



Alla vigilia dell'entrata in guerra dell’Italia contro l’Austria nella primavera del 1915, tra i due stati correva un confine terrestre di oltre 600 km, tra il giogo dello Stelvio e la Laguna di Marano, la cui linea appariva alquanto articolata, attestata com’era lungo valli e dorsali montuose, e considerando che In linea d’aria essa scendeva, tra il Lago di Garda e II Golfo di Trieste, a circa 300 km.
Topograficamente, dallo Stelvio al Lago di Garda, il confine si snodava lungo i rilievi delle Alpi e delle Prealpi Rètiche (con il Tonale e l’Adamello) scendendo poi nelle Valli Giudicarie a lambire il Lago d’Idro e attraversando il Garda nella sua estremità settentrionale. Dalla riva gardesana orientale il confine risaliva quindi al crinale del Monte Baldo per ridiscendere nella Val Lagarina superando l’Adige e risalendo sulla sommità dei Lessini. Da qui dopo aver attraversato il massiccio calcareo del Pasubio e contornato l’altopiano di Asiago, scendeva in Valsugana per risalire, attraverso le Prealpi Bellunesi fino alla Marmolada nel cuore delle Dolomiti.
Proprio sul ghiacciaio della Marmolada correva la linea divisoria tra Italia e Austria. Quindi, aggirando a sud la conca di Cortina d’Ampezzo si inerpicava lungo le tre Cime di Lavaredo per scendere poi al Passo di Monte Croce di Comèlico e proseguire poi lungo il crinale delle Alpi Càrniche e scendere a Pontebba, tagliare la Val Canale e risalire al Jóf di Montàsio. Quindi, zigzagando attraverso le Prealpi Friulane e tenendosi sempre sulla destra della valle dell’Isonzo, il confine arrivava all’Adriatico attraverso la pianura friulana fino a Palmanova e alla Laguna di Marano.
Visto dalla parte italiana questo andamento della linea di confine appariva in un certo senso alquanto sfavorevole, considerata l’asperità delle condizioni topografiche e, più in generale, ambientali.
Dal 1866 numerosi forti erano stati costruiti dall’Austria oltre il passo del Tonale, mentre in Val Camonica, poco a nord di Ponte di Legno era posizionato l’unico forte italiano, il Corno d'Aula.
In territorio austriaco, a sud di Trento, si distingueva  il complesso di fortificazioni disseminate sugli altopiani di Lavarone (tra i 1200 e i 1400 metri) e del Pasubio (tra i 1600 e i 1800 metri) ubicati tra le valli dell’Adige e dell’Astico. Sull’altopiano di Lavarone erano dislocati ben sette forti, dalla Cima di Vezzena (1908 m) alla località di Serrada (1250 m sull’altopiano di Folgaria) ancora oggi inframmezzati da numerosi resti di trinceramenti. La più importante di queste strutture era senza dubbio il forte Belvedere (1177 m) costruito a guardia della sottostante Val d’Astico e del vicino altopiano di Asiago. Ai limiti di quest’ultimo (noto anche come altopiano dei Sette Comuni), in territorio italiano, vennero costruite, già in previsione del conflitto, ben quattro fortezze, le principali delle quali erano rappresentate dal Forte Verena (sulla cima del monte omonimo a 2015 m di quota), incombente sulla Val d’Assa ad est, e dal Forte Campolongo, anch’esso sulla cima dell’omonima montagna (1720 m) e dominante il versante orientale della valle dell’Astico. Essi si contrapposero egregiamente ai tre forti austriaci di Verle, Spitz di Vezzena e Luserna, situati a quote più basse.
Ai limiti dell’altopiano di Asiago erano state costruite altre due fortificazioni: il forte Corbin, sul versante orientale della Val d’Astico a breve distanza dal M. Cengio, e il forte User sulla cima del monte omonimo (1633 m). Quest’ultimo a sua volta può considerarsi parte di un complesso sistema difensivo, situato alla confluenza nella Brenta del fiume Cismòn, con numerose strutture fortificate (Cima di Campo, Tombiòn, Còvolo S. Antonio, Cima di Lan, Tagliate delle Scale e delle Fontanelle), generalmente noto come Forti Brenta-Cismòn. Esso aveva anche lo scopo di sbarrare l’accesso al sottostante massiccio del Grappa (1775 m), trasformato in una vera e propria fortezza naturale, che rimase saldamente in mano italiana anche dopo la disastrosa ritirata di Caporetto.
Nella bassa pianura friulana sono da segnalare le  piazzeforti di Latisana (con i forti di Precenicco e di Rivarotta lungo il fiume Stella e poco a nord della laguna di Marano) e di Codròipo, a sud ovest di Udine (con i forti di Beano, Rivalta e Sedigliano). Molto più a nord, allo sbocco del Tagliamento nell’alta pianura friulana, dalla Testa di Ponte di Pinzano dipendevano i forti di Ragogna, di Fagagna, di Col Roncone e di Monte Lanza. Ancora più a nord ecco infine i forti del Ridotto Carnico, con Osoppo sul largo e piatto fondovalle del Tagliamento, quindi poco più su il forte di Ospedaletto, il forte di Monte Festa presso Cavazzo Carnico e quello di Chiusaforte nel Canale del Ferro percorso dal fiume Fella principale affluente del Tagliamento.

Lamberto Laureti
Già docente all’Università di Pavia

giovedì 1 febbraio 2018

I NOSTRI CORRISPONDENTI DI GUERRA


Per i corrispondenti di guerra italiani l’impegno dal fronte termina cinque mesi dopo l’armistizio di novembre. Molti di loro a quel punto erano già rientrati nelle loro redazioni, mentre un gruppo di inviati era rimasto aggregato al Comando supremo per fornire notizie e servizi dalle “Terre redente”. Il congedo ufficiale arriva per tutti in forma solenne il 3 aprile 1919 con un ordine del giorno del generale Diaz.
I testi di storia del giornalismo dicono che nel conflitto persero la vita 84 giornalisti italiani. Il dato però va aggiornato e quasi raddoppiato. Un’accurata ricerca condotta proprio in occasione del centenario della guerra dice che i morti furono 166. Fra i corrispondenti che presero parte anche ai combattimenti vennero attribuite tre Medaglie d’Argento (una a Antonio Baldini e due a Achille Benedetti). Dieci giornalisti, fra i quali Guelfo Civinini e Arnaldo Fraccaroli, furono decorati con la Croce di Guerra.

Precisazioni forse necessarie visto che da più parti, sia all’epoca, sia successivamente da alcuni storici, i giornalisti impegnati nelle corrispondenze dal fronte sono stati anche pesantemente criticati e accusati di raccontare gli eventi standosene al calduccio e al sicuro negli alberghi. Per dirla a chiare lettere i corrispondenti sono stati spesso bollati come imboscati. In realtà, fatta salva l’ovvia certezza che fra i giornalisti, come in qualsiasi altra categoria di professionisti, ci sarà stato chi si impegnava con maggiore o minore serietà nella sua attività, le cifre relative ai morti e ai decorati dovrebbero bastare come risposta alle critiche. Ma, al di là di quelli che forse sono stati casi particolari di attaccamento alla professione e all’ideale patriottico, c’è una considerazione più generale, che consente di dare una diversa valutazione sull’impegno degli inviati al fronte.
Le disposizioni ministeriali per l’accreditamento come corrispondente di guerra fissavano tre requisiti fondamentali: fedina penale pulita, esperienza militare e età non inferiore ai 40 anni. La mobilitazione generale del maggio 1915 interessò tutte le classi fino al 1874 (41 anni), ma gli uomini di età superiore ai 34 anni venivano destinati alla Milizia Territoriale o a servizi di terza linea. In pratica ciò significa che tutti i coetanei degli inviati al fronte (fatta eccezione per il personale dell’Esercito Permanente) erano tranquillamente a casa propria o, al massimo, destinati a servizi di retrovia.
Loro invece, con maggiore o minore coraggio, maggiore o minore capacità, seguivano la guerra dal 1914: prima da rappresentanti di un Paese neutrale, spediti un po’ su tutti i fronti. Poi, dal fatidico 24 maggio, a raccontare le vicende dei soldati italiani. Per loro è definita una sorta di inquadramento nei ranghi dell’esercito: vestono in divisa, col grado di capitano, ma senza mostrine, hanno a disposizione un autiere che però deve essere pagato dal gior-nale, così come la benzina per le macchine. Fanno capo a un ufficiale di collegamento, si devono attenere alle disposizioni del Comando e, soprattutto, della censura che spesso interviene direttamente sui giornali, facendo  letteralmente scalpellare dalle matrici i pezzi considerati non pubblicabili. Quando il Comando Supremo lo ritiene opportuno, come dopo Caporetto, vengono allontanati dal fronte, spostati e sorvegliati, dapprima a Udine e poi concentrati all’Hotel del Corso di Padova, dove non arrivano notizie se non i bollettini ufficiali del Comando. Una zona buia dell’informazione, che lascia poi il posto a nuove cronache, anche se in una prima fase la censura impone di non trasmettere dispacci di oltre 500 parole.
Tutti, da Barzini a Fraccaroli, da Civinini a Morandotti, a Gino Piva (straordinaria la sua cronaca della battaglia dell’Ortigara),) sono chiamati a raccontare l’impegno, la fatica e il dolore dei soldati in situazioni drammatiche, da riportare con realismo, ma facendo sempre attenzione alle direttive della censura: vietato parlare di morti, feriti, prigionieri. Inutile dunque cercare sui giornali traccia di episodi di diserzione o di ammutinamento, né delle decimazioni che ne furono la conseguenza. Ne parleranno i libri di storia.
La guerra, dunque, viene raccontata dal fronte, ma nelle pagine dei giornali ci sono anche cronache politiche, notizie sportive, programmi di teatri e cinema che continuano a disegnare una quotidianità lontana dai combattimenti. I piccoli fatti di cronaca, i resoconti dai Consigli comunali, le polemiche politiche, ma anche le pubblicità e gli annunci personali (con galanti inviti ad una risposta o a un incontro) disegnano l’immagine di un Paese, che, lontano dal fronte, riesce tutto sommato a condurre una vita normale, nonostante l’ansia per i tanti ragazzi in divisa e per le vicende belliche. E sono, ovviamente, altri giornalisti che raccontano questa altra faccia della nazione. Qualche volta però anche a loro, rimasti nelle redazioni, capita di dover fare i contri con la guerra. Succede quando la guerra si sposta sulle città con i primi bombardamenti aerei.
In Italia l’obiettivo maggiormente colpito dall’Aeronautica austriaca fu Padova, con 129 morti e 104 feriti nei diversi raid succedutisi fra il 1915 e il ’18. Altri episodi di attacchi aerei furono registrati nelle città del litorale adriatico, come Pescara e Ravenna (15 morti) e nelle zone industriali lombarde. Fra questi ultimi si inserisce l'attacco aereo del 14 febbraio 1916 che colpisce Milano, Monza, Treviglio e Bergamo.
La notizia fa il giro del mondo: 12 morti a Milano (saliranno a 18 nei giorni successivi), due a Monza, decine di feriti a Bergamo e a Treviglio. Le cronache milanesi precisano che verso le 7 e 30 “venivano segnalati dai posti di osservazione due apparecchi nemici. Un Albatros e un Taube che si dirigevano sulla città . Le bombe cadono a Porta Volta, Porta Romana e Porta Venezia. Secondo altre fonti i tre aerei (due su Milano, uno su Monza) erano aerei Aviatik versione Taube. Il Taube, in tedesco “colomba”, era un monoplano dotato  i motore Mercedes, velocità massima 100 km l’ora,  quando la gran parte degli aerei erano biplani e triplani, con le ali (14 metri di apertura) realizzate secondo un disegno aereodinamico che le faceva assomigliare alle ali di un uccello. Da qui il nome, anche se l’idea di una colomba non sembra la più azzeccata per un aereo da guerra. Uno dei tre apparecchi, inseguiti dagli aerei (Breda) alzatisi in volo da Taliedo, fu abbattuto dall’artiglieria italiana in Val di Chiese, poco prima di raggiungere l’Austria.
Le bombe sui centri urbani non erano comunque una
novità assoluta ed è logico supporre che azioni analoghe vennero compiute anche dai nostri aerei, ma sui giornali dell’epoca è difficilissimo trovarne traccia. Sicuramente all’indomani dell’attacco su Milano, il 18 febbraio, nostri velivoli raggiunsero e bombardarono Lubiana. Secondo il bollettino ufficiale furono colpiti obiettivi militari e strategici, ma i giornali sloveni parlarono di vittime civili, comprese donne e bambini. Dell’operazione si occupò anche la Domenica del Corriere, ma solo per dedicare il tradizionale disegno di copertina all’eroico rientro del capitano Oreste Salomone, che, ferito e con l’apparecchio danneggiato, riuscì comunque ad atterrare in territorio italiano. La censura funzionava anche così.
Giorgio Guaiti

Giornalista e scrittore, Milano