domenica 23 dicembre 2018

Il Piave: limite invalicato


di Michele D'Elia

Dopo Caporetto, Peschiera. Il verbale ignorato



CONVEGNO DI PESCHIERA
giovedì 8 novembre 1917
La fede del Re nei Soldati d’Italia
Alfa e Omega. Vuole il mondo che la guerra degli italiani si concentri in due nomi: Caporetto e Vittorio Veneto. Sempre il mondo vuole che la prima segni una vergognosa disfatta e la seconda, una mezza, casuale vittoria, grazie alle truppe alleate. Nel convegno del 30 novembre 2014 dimostrammo la falsità
delle due tesi. Qualche integrazione non sarà superflua, anche se ben lungi dall’esaurire i due argomenti.
* * *
La Conferenza di Rapallo, 6 e 7 novembre 1917, non ci aveva reso giustizia. Il Re convoca per l’8 novembre a Peschiera i Capi alleati, politici e militari: Lloyd George, Smuts, Painlevé, Bouillon, Orlando, Sonnino, Bissolati, Robertson, Wilson e Foch. Tiene un discorso e pone fine al velenoso chiacchiericcio sul nostro soldato e sull’Italia.
Il verbale della riunione è redatto in inglese; è datato Aix-les- Bains 9 novembre 1917. (1)
Giornalisti, storici, scrittori e politici ignorarono ad arte la svolta che l’incontro impresse al conflitto.
IL VERBALE
Peschiera: Quartier Generale, 8 novembre 1917
Il Re parla chiaro: gli Alleati, dall’inizio della guerra, trascurano il fronte alpino; per questa visione del conflitto, limitata al fronte occidentale, pianure di Francia e Belgio, essi “non [hanno n.d.r.] sfruttato la campagna in Italia per schiacciare la resistenza austriaca … [il Re] ha manifestato profondo rincrescimento che l’Austria – che solo pochi mesi fa era sull’orlo del crollo – sia riuscita,con l’aiuto della Germania, a ribaltare la situazione in Italia”. Lloyd George finge di non capire ed esprime “ rincrescimento” per l’assenza del Re alla Conferenza di Roma del 16 gennaio 1917, “dove aveva sostenuto con
forza la sua posizione in favore di un’azione combinata sul fronte italiano”.
Il Signor Primo Ministro inglese dimentica che il Re non era a Roma perché era al fronte. (2)
Il Re informa: l’Esercito italiano ha già perso 30.000 ufficiali.
I presenti non sanno o fingono di non sapere quanto effettivamente accaduto a Caporetto e che cosa abbiano saputo fare i nostri soldati. Il Re colma le loro lacune. Egli non nega e non sminuisce nulla: ma metodicamente, analizza le ragioni principali del “collasso dell’esercito italiano sotto l’attacco combinato austro-tedesco”.
Per il Sovrano le ragioni principali del nostro cedimento sono:
a) una nebbia molto fitta che gravava il giorno dell’attacco sul fianco settentrionale dell’esercito italiano e che ha reso impossibile l’uso dell’artiglieria.
b) L’assenza di ufficiali professionisti addestrati, che potessero manovrare le truppe in modo adeguato una volta cominciato il ripiegamento”.
A queste ragioni se ne aggiunge un’altra, senza dubbio la più importante e tecnicamente grave, che il Re mette in evidenza senza mezzi termini:
[Il Re] Ha detto che l’esercito italiano aveva perso circa 30.000 ufficiali nel corso della guerra e che quelli più giovani, non adeguatamente addestrati, non erano in grado di gestire i loro uomini nelle difficili condizioni che la ritirata aveva portato alla luce”.
Egli “aveva osservato lo stesso fenomeno nell’esercito austriaco”, infatti: ”quando gli italiani avevano sfondato le linee austriache durante la loro recente avanzata [probabilmente il Re si riferisce alla battaglia delle Bainsizza n.d.r.] i soldati austriaci non adeguatamente addestrati, non avevano saputo ripiegare nel modo dovuto ed erano caduti preda dell’esercito italiano avanzante”
Sul campo: frequentissimi assalti e contrassalti dei due eserciti, malattie e condizioni igieniche inumane riducevano a larve le unità combattenti; non c’era tempo per addestrare adeguatamente i nuovi ufficiali ed i nuovi soldati. Da qui la confusione nell’attuare manovre complesse, come sono in genere
le ritirate.
Disfattismo: questione gonfiata ad arte. Il Re la liquida con fastidio.
[Il Re] “… ritiene sia stata attribuita un’importanza indebita all’entità dei progressi fatti dal movimento pacifista all’interno dell’esercito. Senza dubbio, danni sono stati fatti in un certo numero di casi isolati, dagli appelli del clero e in misura minore dall’influenza dei socialisti, ma nel complesso [il Re] non
pensa che il morale italiano sia stato seriamente scosso da tali influenze. Attribuisce più importanza alla durata della guerra, che ha reso gli uomini stanchi e depressi, e sottolinea come sia stato osservato che chi torna dalla licenza è generalmente depresso e scoraggiato per lo stato in cui ha trovato la sua famiglia e le sue piccole faccende”.
Fede del Re nel Soldato italiano e del soldato nel Re significa lealtà verso le istituzioni. Pure virtù civiche. In un documento, che Cadorna aveva indirizzato al Presidente Boselli l’8 giugno 1917, leggiamo:
Persona che si ha ragione di ritenere di fiducia, addetta al servizio informazioni, riferisce, in data 6 giugno, quanto è trascritto nell’annesso foglio …”. L’Informatore, a noi sconosciuto, scrive: “Roma, 6 giugno 1917. Ho avuto in questi giorni un colloquio con Scalarini, il noto pupazzettista dell’«Avanti»
e l’ho condotto sull’argomento della propaganda socialista pacifista nell’esercito e nel Paese. … I soldati siciliani, sardi ecalabresi – mi ha detto lo Scalarini – sono monarchici per la pelle; essi sparerebbero contro di noi socialisti con la medesima facilità e con la medesima voluttà con la quale sparano agli austriaci, e noi dobbiamo quindi fare fra loro opera di persuasione e di propaganda, cercando di attirarli nella nostra orbita. ….” (3)

Tradimento. Accusa respinta
Sebbene siano state anche avanzate accuse di tradimento, non un singolo caso è stato provato e [il Re] è convinto che l’esercito italiano non sia stato intaccato con successo dal nemico”.

La ritirata
“Riguardo alla ritirata in sé, ha detto che il ripiegamento della Terza Armata è stato condotto in modo piuttosto soddisfacente e che anche il gran numero di feriti di questa armata è stato evacuato con successo. La Seconda Armata si è in larga misura sbandata durante il ripiegamento, ma centinaia di migliaia di
uomini sono stati raccolti nelle retrovie e saranno riorganizzati in unità regolari appena possibile. Basandosi su quanto osservato personalmente durante il ripiegamento, [il Re] non pensa che morale degli uomini sia stato seriamente intaccato.
Riguardo alle tre divisioni schierate più a nord, in Cadore, una ha ripiegato con successo, ma di due non si hanno notizie da diversi giorni e non si è ancora certi se siano state tagliate fuori dal nemico o se si stiano ritirando con successo in direzione ovest attraverso le colline ai piedi delle Alpi”.
È giusto ricordare che il generale Sagramoso, responsabile delle retroguardie, svolgeva un metodico lavoro di recupero delle unità e dei singoli, che si erano scollegati dal grosso delle truppe.
Il nostro futuro è il Piave
Il Re incardina a quattro ragioni tecniche essenziali la necessità di resistere sul Piave:
1. impiego di 400 cannoni d’assedio e 600 da campagna, già in batteria sulla sponda occidentale del fiume;
2. le trincee scavate lungo gli argini del fiume;
3. cadendo questa linea, “Venezia sarebbe perduta … perdere Venezia significherebbe dovere ritirare la flotta a Brindisi o a Taranto, poiché più a nord non ci sono porti adatti”;
4. ritirare la flotta in Puglia significherebbe lasciare l’Adriatico quale campo libero alle forze navali austro-tedesche, specialmente ai sottomarini.
“Secondo lui occorre quindi fare ogni sforzo per tenere la linea del Piave”.
Vittorio Emanuele, proseguendo nella sua esposizione, non si nasconde i pericoli che incombono su questa scelta, Il verbale registra: “Il vero pericolo di questa linea – secondo lui – è a nord, verso l’alto corso del fiume, dove le forze tedesche, sul lato destro dello schieramento austriaco, si stanno spingendo rapidamente avanti. Se i tedeschi dovessero riuscire ad attraversare il Piave sull’alto corso e a prendere il Monte Grappa fra Asiago e il fiume, le posizioni lungo il Piave potrebbero essere aggirate e sarebbe necessario effettuare un altro ripiegamento, [le truppe italiane] stavano già occupando il Monte Grappa e si stava facendo tutto il necessario per contrastare la rapidità dell’avanzata tedesca, ma non c’erano dubbi che un
grave pericolo stava minacciando quel settore”. Tuttavia noi stiamo, ricorda il Re, occupando il Grappa e rallentando l’avanzata tedesca. Egli, ancora una volta, non ha dubbi sulla resistenza del nostro esercito e vede lontano. Lo
occupiamo [il Grappa n. d. r.] e lo teniamo sino alla vittoria.
La politica
Lloyd George interviene “con molta forza” sullo “ stato dell’Alto Comando italiano”, il che significa la sostituzione del gen. Cadorna. Il provvedimento era già stato attuato. Tuttavia, “il Re d’Italia ha risposto che, anche se non concordava in alcun punto con le critiche mosse al generale Cadorna, pure
pensava che grande attenzione doveva essere porta alle obiezioni fatte … e che il Governo aveva già deciso di rimuovere il generale Cadorna dal comando e di nominare al suo posto il generale Diaz … “, con l’assistenza del gen. Giardino, Ministro della Guerra.
Il Re trova la soluzione al problema posto dagli Alleati e, nello stesso tempo, ne segna i limiti: vi accontentiamo, ma a casa nostra comandiamo noi.
Il verbale riporta anche alcune peregrine osservazioni dei consiglieri militari alleati che “ … non erano certi fosse stato fatto l’uso migliore delle quattro divisioni francesi spostandole a ovest del lago di Garda …”. La decisione del nostro Comando comunque rimane, non solo, ma il Governo britannico e
quello francese decidono di lasciare completa libertà ai generali Wilson e Foch “ per spostare le sei divisioni alleate attualmente presenti in Italia nei settori del fronte dove pensavano potesse esserne fatto l’uso migliore”.
I due alti ufficiali partono per Padova dove si consulteranno con il nuovo Capo di Stato Maggiore gen. Armando Diaz, circa il trasferimento delle Divisioni di cui sopra. Conclude la conferenza un Re “apparso gioviale”, che si impegna a fare “il suo meglio” per la vittoria. Sottile e dura, come nello stile
dell’Uomo, la vera conclusione del convegno, verbalizzata: “[il Re] crede che per la campagna in Italia sarebbe stato possibile fare di più e ora più che mai pensa sia importante che nell’immediato futuro tale campagna assuma proporzioni maggiori e maggiore importanza”.
Per Lloyd George il Re ha parlato con il “ fervore di Mazzini e [la] chiaroveggenza di Cavour”. (cfr. L’Esercito Italiano …, op. cit., vol. V, Tomo 1°, Narrazione, pag. 13)
Tutto il convegno significa una cosa sola: fede nel popolo.
Da questa scaturisce, il 10 novembre, il proclama alla Nazione, che, riportiamo integralmente in ultima pagina e che si conclude con questa perorazione: Italiani! Cittadini e soldati siate un esercito solo …”.
L’Ufficio Storico dell’Esercito, sintetizza: “L’8 novembre, a Peschiera, presenti Lloyd George, Painlevé, Orlando, Sonnino, Bissolati, Robertson, Wilson, Smuts e Foch, il Re d’Italia intervenne vigorosamente a dirimere dubbi e a dissipare perplessità.
In una minuziosa analisi delle cause del nostro insuccesso militare, il Sovrano scagionò l’Esercito da qualsiasi accusa di scarsa saldezza morale, dimostrando sulla base di mille episodi eloquenti che lo spirito delle nostre truppe se aveva subito una scossa non era affatto compromesso. Affermò che l’Esercito non era stato vinto e che, già in fase di riorganizzazione, aveva in sé la capacità di resistere al Piave, il cui abbandono avrebbe peraltro determinato conseguenze strategiche gravissime per gli stessi Alleati. Dichiarò che la nostra difesa del Piave concorreva alla vittoria della causa alleata ed espresse il suo convincimento profetico che le operazioni alla fronte italiana avrebbero potuto avere, in seguito, caratteri e funzioni risolutive di tutta la guerra.
Era un bagno di spiritualità che il fervoroso proclama alla Nazione del 10 novembre diffondeva nel Paese, con immenso benefico effetto, le cui prove non tardavano a manifestarsi dando l’esatta misura non tanto di una frettolosa corsa a ripari occasionali, quanto di un’etica che solo una plurisecolare civiltà è capace di esprimere.
A malgrado, però, del senso di riacquistata fiducia, gli Alleati continuarono ad irrigidirsi nel loro atteggiamento di voler preservare ad ogni costo le proprie unità.
Ne negarono, infatti, l’impiego immediato sulla linea del Piave, richiesto – su suggerimento dello stesso Presidente del Consiglio – anche dal nuovo Capo di Stato Maggiore italiano, generale Diaz, nel primo colloquio che egli ebbe con essi l’11 novembre”. (L’Esercito Italiano …, vol. IV, Tomo 3°, Narrazione,
pagg. 623-624)