sabato 27 aprile 2019

I letterati italiani e la Prima guerra mondiale


Negli anni immediatamente successivi alla Prima guerra mondiale si guardò con nostalgia e rimpianto all’epoca precedente, quella compresa tra l’ultimo ventennio dell’Ottocento e il primo decennio del Novecento; epoca considerata bella, chiamata appunto la Belle époque. Durante essa i progressi della scienza e della tecnica erano stati sbalorditivi (illuminazione elettrica, radio, automobile, transatlantici, scale mobili, tram elettrici, sviluppo prorompente delle reti ferroviarie, aeroplano, ecc.); si era realizzata la globalizzazione (quella che stiamo vivendo oggi è la seconda); grazie all’affermarsi del taylorismo, la produzione era enormemente aumentata; i consumi erano sensibilmente cresciuti; la buona società delle città frequentava i caffè, dove avvenivano amabili e colte discussioni, e assisteva a piacevoli spettacoli di can-can, oppure alla rappresentazione di operette. 
Un mondo, la Belle époque, che grondava di ottimismo, perché tutto sembrava possibile, nell’ottica di fondare il migliore dei mondi possibili. In realtà, non era oro tutto ciò che luccicava; anzi, le contraddizioni erano tante. La ricchezza di alcuni Stati (Francia, Granbretagna, Usa, Germania, Giappone, su tutti) si fondava anche sullo sfruttamento di milioni di uomini che vivevano in territori che erano stati con la forza conquistati (imperialismo); un’oligarchia di banchieri e industriali aveva acquisito il controllo della produzione e dei mercati; s’era verificato un capovolgimento etico, per cui l’uomo era asservito agli interessi dell’industria e della finanza; dei ceti emarginati, soprattutto dei contadini, nessuno s’occupava e quindi, tra il 1850 e il 1910, cinquanta milioni di europei, quindici dei quali italiani, furono costretti ad emigrare nelle colonie, oppure nel continente americano. In questo contesto, cioè in un mondo in ebollizione, guerre scoppiarono in ogni angolo della terra (guerra ispano-americana, g. in Cina, g. russo-giapponese, g. italo-turca, guerre balcaniche, ecc.) e fecero da preludio allo scoppio della Prima guerra mondiale. 
Numerosi letterati italiani, come figli del loro tempo, si illusero di poter trovare nell’interventismo il palcoscenico ideale sul quale rappresentare - ciascuno a modo suo, perché c’erano nazionalisti, sindacalisti rivoluzionari, futuristi, antisocialisti, patrioti alla ricerca di un’Unità nazionale ancora da realizzare, coscienze naufragate - il loro mondo ideale e trovare la soluzione ai diversi problemi, quasi riassunti dal cesenate Renato Serra nell’Esame di coscienza di un letterato quando scrisse che la guerra gli aveva consentito di ritrovare il contatto con altri numerosi uomini, di mettersi finalmente in marcia con essi; tutti insieme, con le loro esigenze e bisogni da soddisfare. 
Morì sul Podgora il 20 luglio 1915. Personalità diverse e modi diversi di narrare il conflitto. Sopra la righe e di pessimo gusto fu l’esaltazione che ne fece Papini, la cui penna scrisse di “bella innaffiatura di sangue per l’arsura di agosto”, “rossa svinatura per le vendemmie di settembre”, madri che dovevano giustamente piangere la morte dei figli per pagare il piacere che provarono quando furono ingravidate. 
D’Annunzio la cantò da esteta. La guerra diveniva la grande occasione per il “bel gesto”, come furono i suoi voli su Vienna, la beffa di Buccari, il continuo rischio eroico della vita. 
L’economista Pareto giudicò la guerra atta a sconfiggere il socialismo e a salvare la borghesia per almeno un cinquantennio. Il triestino Scipio Slataper l’esaltò come il campo ideale per l’azione dei patrioti animati da alto senso morale; fu volontario nei granatieri, ferito a Monfalcone; appena guarito, ritornò al fronte e trovò la morte il 3 dicembre sul Podgora. Pietro Jahier vi vide l’occasione storica e il mezzo per rendere protagoniste le masse contadine. 
Ungaretti (partecipò alla campagna interventista e tra il 1915 e il 1918 combatté sul Carso e sull’Isonzo) vi trovò l’occasione, non importa se illusoria, perché gli uomini prendessero coscienza del sentimento di fraternità (“fratelli/...involontaria rivolta/dell’uomo presente alla sua/fragilità”) e di eternità (“Chiuso fra cose mortali.../perché bramo Dio?”; “Ti basta un’illusione/per farti coraggio”) e dimostrazione, non importa se irrazionale, dell’attaccamento dell’uomo alla vita (“La morte/si sconta/vivendo”). 
Marinetti esaltò, contro la borghesia pacifista (e per questo giudicata pavida), la guerra come “igiene del mondo”. 
Vi partecipò e rimase ferito nel 1917 a Zagora. Interventisti furono Giuseppe Prezzolini e Ardengo Soffici, che, coerentemente, parteciparono come ufficiali al conflitto. Pirandello accettò la guerra (mandò a combattere i suoi figli Stefano e Fausto), anche se fu convinto che si trattasse di un qualcosa di effimero, come tutti i fatti, e che la vita degli uomini sarebbe rimasta, nel dopoguerra, esattamente come prima, coi suoi bisogni, con le sue passioni e i suoi istinti. Il triestino Carlo Stuparich, irredentista, passò, nel giro di un anno, dall’entusiasmo iniziale (si arruolò volontario) alla disillusione, che lo condusse a sperare di morire, non sentendosi capace di una vita piena. Negli anni immediatamente successivi alla guerra i disillusi furono numerosissimi, di fronte allo spettacolo di un mondo che si chiudeva viepiù negli spazi ristretti del nazionalismo e che sostituiva alla ragione il mito (di Roma, della giovinezza, del superuomo, della razza); e non rimase ad essi che il rimpianto e la nostalgia per un’epoca, la Belle époque, che la guerra aveva spazzato via.

 Francesco Piazza già Docente di Italiano e Storia negli Istituti Tecnici Statali - Treviso

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