venerdì 26 febbraio 2016

La battaglia della Bainsizza e lo scenario internazionale

Copertina di Tribuna Illustrata settembre 1917
Sul piano operativo, la battaglia della Bainsizza (undicesima battaglia dell'Isonzo, 18 agosto - 12 settembre 1917) costituisce la prosecuzione naturale dell'offensiva voluta dal Comando supremo italiano nella primavera precedente (decima battaglia dell'Isonzo, 12 maggio - 5 giugno) e che - nonostante il dispendio di mezzi e di vite (430 battaglioni e 3.800 pezzi d'artiglieria impiegati; 160.000 vittime fra morti e feriti) - si era conclusa con limitati benefici territoriali. Sul lato dei risultati, la battaglia della Bainsizza porta all'occupazione da parte delle forze della II Armata (generale Capello) dell'altipiano omonimo e del rilievo strategico del Monte Santo. La strenua difesa, da parte dei reparti austro-ungarici, della testa di ponte di Tolmino (nella parte settentrionale del fronte), delle postazioni del San Gabriele (al centro) e di quelle dell'Hermada (a sud) impedisce, tuttavia, che si realizzi il previsto scardinamento della linea del Carso e lo sfondamento strategico in direzione di Trieste da parte della III armata (generale Emanuele Filiberto di Savoia Aosta) che, nelle intenzioni del Comando supremo, avrebbe dovuto condurre a una svolta nel conflitto. Sul piano diplomatico, la battaglia rappresenta, invece, l'esito finale di un complesso intreccio di pressioni iniziate ai primi del 1917 e intensificatesi dopo che la c.d. 'rivoluzione di febbraio' (23-27 febbraio secondo il calendario giuliano; 8-12 marzo secondo quello gregoriano) aveva portato alla fine dell'autocrazia zarista e aperto la strada a un'uscita anticipata della Russia dal conflitto.

Da questo punto di vista, il 1917 assiste, infatti, a uno spostamento dell'attenzione degli alleati verso il fronte italiano, spostamento sancito alla conferenza interalleata di Roma del 5-7 gennaio. Le ragioni di ciò sono molteplici e solo in parte legate alle esigenze del conflitto. La nascita del gabinetto Lloyd George, nel dicembre 1916, porta, infatti, a una rivalutazione, da parte di Londra, di una strategia 'orientalista' vista dai vertici militari come il tentativo del Primo ministro di ridimensionare il loro ruolo nella condotta delle operazioni. La scelta di destinare più risorse (umane e materiali) al fronte dell'Isonzo è contrastata in particolare dal comandante della British Expeditionary Force, generale Haig, e dal Capo dello Stato Maggiore Imperiale, generale Robertson. Gli esiti insoddisfacenti delle offensive del 1916 giustificano in parte l'atteggiamento di Lloyd George. Nello stesso senso si muove il sostegno offerto dal Primo ministro al nuovo Comandante in capo delle forze francesi sul fronte occidentale. generale Nivelle, anche se le promesse di quest'ultimo di conseguire uno sfondamento strategico delle linee tedesche a quarantotto ore dal lancio di una nuova offensiva congiunta  avrebbero portato solo alle pesanti perdite di Arras (da parte britannica 158,000 uomini fra il 9 aprile e il 16 maggio 1917) e dello Chemin des Dames (seconda battaglia dell'Aisne: da parte francese: circa 187.000 uomini fra il 16 aprile e il 9 maggio).

Di fronte al sostanziale fallimento dell'offensiva di Nivelle, un'azione sul fronte italiano avrebbe consentito da un lato di dare fiato alle forze anglo-francesi: dall'altro di sostenere quelle russe, scosse dagli eventi politici dei mesi precedenti e dalle conseguenze che questi avevano avuto sulla loro organizzazione e la loro operatività. Alla luce dell'avvio, di lì a poco, di quella che sarebbe stata la fallimentare 'offensiva Kerenskij' (“offensiva di luglio” o “offensiva della Galizia”; 1 - 19 luglio), l'azione italiana acquisiva, inoltre, un importante valore diversivo, contribuendo a immobilizzare lungo l'Isonzo importanti aliquote dell'esercito austro-ungarico (210 battaglioni e 1.400 pezzi d'artiglieria durante la decima battaglia dell'Isonzo e 250 battaglioni e 2.200 pezzi d'artiglieria durante l'undicesima). Il crollo delle truppe russe di fronte alla controffensiva della Sudarmee austro-tedesca e della 3° e 7° armata austro-ungariche (18 luglio) e l'avanzata di queste fino alla linea del fiume Zbruc (nell'attuale Ucraina), al confine fra la Galizia austro-ungarica e i territori dell'ex impero zarista, aggiunse ai preparativi per l'ennesima “spallata” di Cadorna un ulteriore senso d'urgenza. Questo senso d'urgenza è ampiamente enfatizzato, fra l'altro, nelle due conferenze interalleate di Parigi (25 luglio) e di Londra (7-8 agosto).

Sul piano concreto, la collaborazione fra i belligeranti rimase comunque limitata. Le richieste del Comando supremo italiano rimasero. di fatto, inevase. L'inizio della campagna britannica di Passchendacle, con il suo ambizioso obiettivo o di dare agli alleati il controllo completo delle Fiandre, pose, la parola “fine” a un dibattito destinato a riaprirsi dopo lo sfondamento di Caporetto. Alla vigilia dell'undicesima battaglia dell'Isonzo, la presenza alleata in Italia era, quindi, limitata - oltre che ai reparti della Croce Rossa - a dieci batterie di obici da 152 mm della Royal Garrison Artillery (schierate nella primavera precedente fra la zona del Vipacco e il vallone di Gorizia, a supporto dell’azione della III Armata da una parte verso  il Carso settentrionale, dall'altra verso l'Hermada e alle unità francesi ottenute da Cadorna. In seguito all'incontro del 25 giugno con il generale Foch a San Giovanni di Moriana: sei batterie da 155 mm e dieci batterie pesanti, oltre a dieci batterie di mortai pesanti britanniche. Tuttavia  essendo la fornitura di tali unità vincolata  al loro impiego in funzione offensiva, la postura di difesa a oltranza assunta dalle forze italiane dopo il 18 settembre portò alla richiesta, sia da parte francese, sia britannica, che esse fossero nuovamente – e immediatamente trasferite - sul fronte occidentale.

Questa richiesta avanzata alla vigilia dello sfondamento di Caporetio e nonostante i segnali che forze dell'Intesa stessero riposizionandosi in vista di una manovra offensiva sul fronte italiano - lasciò dietro di sé una scia di polemiche e risentimenti, soprattutto fra Cadorna e Robertson. che avrebbero finito per coinvolgere anche le rispettive Cancellerie. Dietro queste riposava, comunque, un'incomprensione di fondo. Agli occhi degli alleati, nonostante l'usura subita (circa 400.000 uomini fra morti e feriti dalla metà di maggio alla fine di settembre a fronte di 230/240.000 austro-ungarici), il Regio Esercito rimaneva, infatti, quello meno provato in termini umani e materiali. Questa convinzione, unita a quella (condivisa dell'Alto comando tedesco) che lo scontro decisivo sarebbe stato combattuto sul fronte occidentale, concorre a spiegare una scelta la cui conseguenze appaiono, in ogni caso, marginali rispetto alle evoluzioni successive. Più in generale, il coordinamento dello sforzo bellico appare il vero punto critico delle relazioni interalleate. Un punto critico che non sarà superato nemmeno con la costituzione del Comando supremo di guerra voluto da Lloyd George dopo Caporetto (conferenza di Rapallo. novembre) e che, al contrario, sarà reso più scottante dalla entrata in linea delle forze statunitensi, fra l'inverno 1917 e la primavera del 1918. Non a caso Washington, per rimarcare anche in questo campo il proprio status di Potenza associata, non avrebbe partecipato all'attività 'politica' del Comando e avrebbe limitato il proprio ruolo a un lasco coordinamento dell'azione militare.


Gianluca Pastori
Università Cattolica

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