venerdì 26 ottobre 2012

Luigi Einaudi: Perché voterò per la Monarchia

Non voterò per la monarchia perché io pensi che il Re possa salvare gli averi di coloro che posseggono. Costoro sono bensì moltitudine in Italia: di soli proprietari di terreni si contano 13 milioni uno ogni tre abitanti e mezzo, più di uno per famiglia. Ma gli averi non si salvano facendo in una forza esteriore. Si salvano solo con il lavoro, coll'iniziativa, col risparmio, rinunciando ad ogni monopolio, ad ogni privilegio dannoso alla collettività. Né voterò per la monarchia perché pensi che il Re possa essere le roi des gueux. 

Non devono più esistere in Italia, come un tempo accadeva, straccioni di cui il Re possa dire di essere il difensore contro la prepotenza dei grandi. Non voterò neppure per la monarchia perché speri che essa ci salvi dal salto nel buio di una repubblica comunista o socialista. Nessuno può salvare gli italiani dal salto nel buio o nell'abisso se non gli italiani stessi.


Se non volessi, assai più che la vittoria della monarchia, la vittoria del bene comune, dovrei augurare alla repubblica di iniziare il suo corso nel travagliato momento odierno: col 20 per cento della ricchezza nazionale distrutta, col reddito nazionale totale, ossia coll'insieme della produzione annua totale di beni e servizi, dalla quale soltanto si ricavano salari, stipendi, interessi, guadagni, imposte, ridotto del 45 per cento in confronto all'anteguerra, colle disponibilità liquide (massa totale dei depositi presso le casse di risparmio e le banche di ogni specie) nominalmente cresciute, ma in realtà ridotte ad un terzo di quelle esistenti nel 1938.
La impossibilità fisica assoluta di mantenere le promesse che a gara i partiti vanno facendo, le prove della dura fatica che tutti, appartenenti a tutte le classi sociali, dovremo sostenere, saranno causa di disillusioni acerbissime, delle quali la colpa sarà fatta risalire da molti, forse dai più, all'istituto che avremo scelto per dar forma allo stato.


Ma non voterò per la Repubblica, perché temo per l'Italia il pericolo dal quale a grande stento si salvò il 5 maggio la Francia, respingendo il progetto di costituzione che la maggioranza social-comunista aveva costruito. Quel progetto soddisfaceva alla logica astratta dei dottrinari. Se si parte dalla premessa che l'unica, la vera fonte del potere sia la volontà del popolo,è chiaro che da essa soltanto debbano provenire tutte le forze politiche esistenti nel paese. Quando i cittadini hanno eletto una assemblea a suffragio universale segreto, a che pro una seconda assemblea e un presidente eletti con metodi diversi, dallo stesso popolo, i quali altro non potrebbero fare, se volessero far qualcosa, se non frastornare o ritardare i deliberata della assemblea popolare?


Dunque sia unica l'assemblea, sia da questa eletto il capo dello stato e siano da essa e da essa sola dettate le norme relative al mantenimento della giustizia, alla libertà di religione, di pensiero, di stampa, di insegnamento, di associazione. I francesi ricordarono però che le assemblee, uniche sovrane sono dominate dai partiti, e che questi ubbidiscono, soprattutto in regime di rappresentanza proporzionale, a giunte le quali, impadronitesi della macchina dei partiti, fanno le elezioni; che perciò è sempre imminente la tirannia delle assemblee, non meno dura della tirannia di uno solo.
Ricordarono di aver preferito il tiranno alla strapotenza di una assemblea unica sovrana. Ricordarono la dominazione del primo Napoleone, seguita alla Convenzione ed al Terrore, da cui si poterono liberare soltanto grazie alla ritirata di Mosca, ed alle disfatte militari di Lipsia e di Waterloo; ricordarono la rinnovata tirannide del terzo Napoleone, anch'essa funesta a tutte le libertà politiche, seppure largitrice di tranquillità apparente e di prosperità economica. Anch'essa era finita nella sconfitta di Sedan e negli incendi della Comune. Non dimenticarono anche che il signor Lebrun, ultimo presidente eletto dalle assemblee elettive, firmò l'atto di morte della terza repubblica.
Neanche la elezione del capo dello stato da parte del suffragio universale diretto e segreto col sistema della repubblica presidenziale stabile. è garanzia di libertà. Conosciamo un solo esempio nella storia contemporanea di repubblica presidenziale stabile: ed è quello degli Stati Uniti.
Ma quello è un miracolo dovuto alla coincidenza di molteplici fattori storici, che sarebbe puro caso riprodursi altrove una ultrasecolare preparazione di governo indipendente nei tredici stati riunitisi nel 1787 in federazione; Washington, il ,generale fondatore, sceso volontariamente da presidente alla condizione di gentiluomo di campagna, allo scadere del secondo quadriennio; un grande giudice, il Marshall, che fondò e difese l'autorità della Corte suprema contro gli assalti di parlamentari e di presidenti e creò il vero ultimo presidio delle libertà dei cittadini. Le esperienze uniche nella storia non si ripetono.
Si ripetono invece le esperienze sfortunatamente ordinarie delle repubbliche centro e sudamericane, dove i pronunciamenti militari si succedono e le elezioni sono assalti al potere da parte di capi di fazioni e ove non sono rare le lunghe tirannie dei Rosas e dei Diaz. Accade anche che un presidente eletto dal popolo a tutore della costituzione, secondo i dettami della troppo sapiente carta di Weimar, il maresciallo Hindenburg, consegni il potere al signor Hitler, all'Attila moderno.
No; gli uomini trovano libertà solo in se stessi, nella loro forza d'animo, nella decisa volontà di resister e nelle carceri dello Spielberg all'austriaco dominatore, nei reclusori e nelle isole al nostro tiranno da palcoscenico, nelle carceri alle torture tedesche e neo-fasciste.
Ma perché dobbiamo creare nella carta costituzionale le garanzie della libertà di tutti i cittadini, anche per quelli che, senza essere eroi, servono umilmente la patria compiendo il proprio dovere, dico che, accanto alle due assemblee legislative, accanto ad un capo del governo, che goda la fiducia dell'assemblea popolare, perché la sua elezione è parte della elezione di questa, accanto ad una magistratura autoreclutantesi e indipendente da governi e da assemblee politiche, accanto ai consigli elettivi regionali, provinciali e comunali, forniti, nei limiti dei propri ben definiti e ben ragionati compiti, di piena autonomia dal governo centrale, accanto alle chiese e massimamente alla chiesa cattolica, accanto alle fondazioni ed accanto alla scuola, istituti tutti volti ad opere autonome di bene, deve esistere un capo di stato, il quale tragga ragioni di vita da una fonte diversa dalla elezione.
Questa fonte è una forza storica, costituita da tradizioni da opere compiute in passato attraverso secoli di lotte e che non possono essere distrutte da errori commessi in un tempo recente, che è un attimo nella vita dei popoli.


Noi non possiamo dimenticare che il Piemonte e la Casa Savoia con una lotta secolare avevano respinto, da un lato, sino al Ticino, spagnuoli e tedeschi e dall'altro lato, sino alle Alpi, i francesi, i quali pur vantavano diritti su Casale e su Asti e per lunghi anni avevano dominato la capitale dello stato sabaudo da Carmagnola e da Pinerolo, conquistando all'Italia quei confini naturali sulla cima delle montagne che oggi, per la sventura e la discordia delle due nazioni sorelle, ci sono nuovamente contesi.
Noi non possiamo dimenticare che fu così foggiata quella spada, furono fondati ed agguerriti quei reggimenti senza di cui la idea della unità d'Italia sarebbe rimasta vana aspirazione di pensatori e di poeti. Il patrimonio delle tradizioni e delle glorie avite è patrimonio di tutti, che dobbiamo trasmettere intatto ai figli e ai nipoti. Lo dobbiamo trasmettere cresciuto e rinnovato.


La monarchia, forza storica, potere al di sopra delle parti, deve diventare quell'istituto di cui in Inghilterra si dice che non se ne parla mai. Se ne parlò un giorno, quando nel 1649 la testa di Carlo I cadde nella sala dei banchetti di Wesminster, e di nuovo quando nel 1689 Giacomo II fu costretto a prender la via dell'esilio.


Ma nel 1689 un parlamentare, cappello in testa, lesse a Guglielmo, nipote del re decapitato ed a Maria, figlia del re esiliato, una dichiarazione nella quale era detto che mai più gli inglesi avrebbero tollerato che il loro re esigesse imposte non votate dal parlamento, traesse in arresto cittadini senza il mandato ed il giudizio del magistrato ordinario, sospendesse l'applicazione delle leggi senza il consenso del Parlamento, intralciasse la libertà di voto dei membri delle due camere.
Sono passati 256 anni da quel giorno memorando; e i re inglesi hanno imparato la lezione e sono oggi il simbolo della unità della comunità delle nazioni britanniche, un simbolo di cui non si parla mai e che non si invoca se non quando accade che una Camera dei comuni divisa e discorde in se stessa non riesca a designare chiaramente al capo dello stato colui che dovrà essere il primo ministro. 


Questa è la monarchia per la quale noi votiamo; una monarchia la quale nei giorni ordinari sia il simbolo rappresentativo dell'unità della patria e della concordia dei cittadini, circondata da una corte austera, i cui membri siano scelti dal Re e dalla Regina sentito il parere conforme del primo ministro, ed adempia all'ufficio di tutrice della costituzione e di organo della volontà del popolo nei momenti supremi della vita della nazione, quando le altre forze politiche si dimostrano incapaci ad esprimere un governo stabile.
A quel re, memori delle parole che un tempo i compagni delle battaglie comuni contro gli arabi indirizzavano in terra di Spagna ai sovrani nuovamente assunti al trono, noi diciamo, cappello in testa: "Noi, ognuno dei quali è uguale a te e che tutti insieme siamo più di te, dichiariamo e vogliamo che tu sia Re per la difesa di tutti contro chiunque di noi si eriga ad oppressore nostro e contro la follia di noi stessi se per avventura ci persuadessimo a rinunciare alla nostra libertà. Se tu sarai Re per difendere noi e le libertà, noi ti saremo fedeli perché saremo, così facendo, fedeli a noi stessi, ai nostri avi ed ai nostri figli. Ma se tu non sarai il Re che noi vogliamo, sappi che non basterà più l'oblio dell'esilio volontario a lavare le tue colpe". Così e non altrimenti ha il dovere di parlare chi si accinga a dare il suo voto per la conservazione della monarchia.

giovedì 11 ottobre 2012

PROGETTO UNITARIO DEI MONARCHICI ITALIANI
ASSEMBLEA COSTITUENTE MONARCHICA
13 OTTOBRE 2012 ORE 9,30 - 19,30
SALA OLIMPO, HOTEL de la MINERVE
PIAZZA DELLA MINERVA N. 69 - ROMA




- Inizia con noi la controrivoluzione tranquilla per abbattere un sistema che ha
istituzionalizzato la corruzione e diffuso l’insicurezza.
- Non è importante cambiare maggioranza: è importante cambiare sistema. Ripensare lo Stato e porre un freno ad una super Europa di tecno-burocrati che fanno gli affari loro e colpiscono i risparmi delle famiglie.
- Per dire basta ai privilegi di una classe politica che non rinuncia a nulla ma non garantisce lavoro e futuro.
- Per dire basta ad un sistema che vede sviluppare la miseria e la povertà, la disoccupazione e i suicidi a causa di un fisco esoso e incontrollato: le tasse debbono colpire i redditi, mai la proprietà in quanto tale.
- Per difendere la nostra identità nazionale e quella delle Comunità locali, contro la globalizzazione e i poteri forti dell’economia mondialista.
- Per porre la famiglia al centro della Società ed attuare una politica di aiuti finanziari a favore di chi si occupa di anziani e bambini in modo sussidiario allo Stato.
- Per pretendere sicurezza nei posti di lavoro: l’Italia, in Europa, ha il numero maggiore di incidenti sul lavoro. I salari più bassi e i contributi più alti.
- Per restituire l’Italia agli Italiani e ricreare un collegamento tra il popolo e la politica: basta alle liste bloccate volute per defraudare il popolo dei propri diritti di scelta.

PER PROPORRE LA MONARCHIA COME PROGETTO POLITICO A “CORONAMENTO” DI UN VASTO PROGRAMMA DI RINNOVAMENTO ISTITUZIONALE, SOCIALE ED ECONOMICO.

Roberto Vittucci Righini, Gian Piero Covelli, Andrea di Gropello, Angelo Novellino, Massimo Mallucci, Antonio Buccioni, Alberto Claut, Franco Ceccarelli, Lorenzo Beato, Ugo D’Atri.

NOI VOGLIAMO SCENDERE IN CAMPO, UNISCITI A NOI!

giovedì 4 ottobre 2012

Costituenete Monarchica a Roma


Roma, Sabato 13 ottobre 2012, dalle ore 9.00 alle ore 19.30 al
Piazza della Minerva, Roma, 69 - 00186 Roma
per informazioni scrivere a costituentemonarchica@yahoo.it

Evento sul Social-network Facebook al presente indirizzo:

lunedì 23 luglio 2012

I funerali di Re Umberto II



La notizia della morte del Nostro Sovrano è giunta inattesa nelle nostre case anche se da tempo sapevamo che questo triste momento si stava avvicinando. Sabato 19 marzo io ed altri giovani universitari ci siamo recati nella sede romana dell'UMI per ritirare i manifesti da affiggere in Toscana. A Roma ci siamo trovati di fronte ad un cordoglio che ha, oscurato tutte le faziosità repubblicane; tutti volevano esprimere il loro dolore e lo hanno fatto nel modo migliore, ricordando cioè il nostro Re come l'ultimo gentiluomo italiano. Nel dolore dunque, a Roma, Firenze, a Torino e dovunque c'è una sede deII'UMI e del FMG (quanta importanza hanno queste sedi che dovrebbero esistere almeno in ogni provincia italiana!) abbiamo ritrovato quella concordia che è sempre mancata ai monarchici italiani; abbiamo capito che una pagina di storia si è chiusa ma che se ne apre ogdi un'altra affidata a tutti i monarchici democratici. La faziosità con cui siamo stati trattati, le menzogne che sono state scritte sono state sconfessate dal popolo italiano e vi assicuro da migliaia di giovani che sono in cerca di valori e che hanno trovato nella Monarchia la soluzione ai problemi e all'angoscia del consumismo.
La nostra fatica fisica è finita ad Hautecombe dove ci siamo recati provenendo da tutta Italia, dopo aver affrontato un viaggio massacrante ma che avremmo fatto anche a piedi; non certo per fanatismo però, ma per amore della giustizia, della verità e per ritrovare un po di Italia vera e vi assicuro che l'abbiamo non ritrovata ma scoperta.

Noi di Firenze siamo partiti per Hautecombe alle 24 di mercoledì 23 marzo, con un pullman organizzato dall'UMI e FMG di Firenze (molti altri vi si sono recati in macchina) ed eravamo 53 di cui 11 studenti universitari. In un clima di grande amicizia abbiamo passato la notte insonni per l'agitazione del momento, ma anche per l'amarezza nei confronti di questa repubblica che non ha voluto trasmettere in diretta la telecronaca del funerale e che dopo 2000 anni ha chiuso il Pantheon di Roma per paura di una manifestazione dei monarchici romani e di quanti volevano partecipare almeno con il pensiero alla morte di un Grande Re.
Giunti ad Hautcombe alle 10,30 abbiamo fatto subito conoscenza con il boicottaggio dei francesi che hanno fatto di tutto per farci perdere tempo e frapporci ostacoli. Un pullman navetta ci ha portato vicino all'Abbazia dove già centinaia di italiani erano raccolti in preghiera ed in devozione. L'Abbazia sulle sponde di un bellissimo lago, raccoglie le salme di Conti e Duchi di Savoia e quella di Re Carlo Felice. Tutta l'Italia piano piano giungeva (soprattutto, per motivi logistici, l'Italia settentrionale, più vicina alla Francia) a rendere omaggio ad un Re, ma anche a riaffermare la fedeltà alla Monarchia, che ogni giorno può vivere per mezzo del nostro comportamento, anche in repubblica. Noi giovani abbiamo atteso dalle 12 alle 16 l'inizio della cerimonia, sventolando la vera  bandiera italiana, e comunicandoci le nostre esperienze cittadine. Il dolore si confondeva coll'euforia, e quando è apparso il feretro di Sua Maestà, preceduto da tutti i monaci dell'Abbazia abbiamo chinato le nostre bandiere davanti a chi ha fatto della sua generosità l'unica bandiera di tutta la vita. Nello stesso momento, però, nel quale sono apparsi S.A.R. Vittorio Emanuele, il Principe Emanuele Filibero, il Duca Amedeo d'Aosta e il Duca delle Puglie Aimone, non ci siamo più contenuti e con tutto il fiato abbiamo gridato W il Re, Savoia, Monarchia; tanto che il piazzale ha risuonato delle nostre grida, mentre migliaia di persone erano nel piazzale antistante e cercavano di capire cosa stava succedendo. Le nostre grida sono state l'ultimo saluto al Re Umberto II, non quelle di un manipolo di nostalgici (come veniamo definiti in maniera offensiva dalla stampa) dato che saremmo stati proprio pazzi per ritrovarci a migliaia, trascurando studio e lavoro, soltanto perché frustrati politicamente. La nostra non è nostalgia perché siamo vissuti in repubblica; la nostra è la fiducia in un ideale e la manifestazione di questo è una attestazione di fedeltà a una famiglia, i Savoia, è l'avvertimento allo stato italiano, che non staremo più chiusi nelle nostre sedi, non ci lasceremo convincere di una nostra inferiorità presupposta, ma difenderemo con ogni mezzo democratico questo spazio che il paese reale vuole che abbiamo. Non ci importa che nessuno abbia parlato di noi, della nostra presenza, ma si sia parlato solo di pochi nostalgici ormai vicini alla morte. Noi amiamo e rispettiamo i nostri anziani, perché sono le nostre guide, rispettiamo le loro idee ma ne abbiamo di proprie, e l'amicizia che cerchiamo fra di noi cementa il nostro rapporto che non è altro che il riflesso della solidarietà che esiste nella Monarchia popolare fra Re e popolo.

La porta dell'Abbazia di Hautcombe si è chiusa per la celebrazione dell'ufficio religioso e le prime gocce di una pioggia incessante sono cominciate a cadere. Noi abbiamo cercato di assistere alla cerimonia riparandoci dall'acqua, mentre decine di pullman continuavano a portare persone che avevano affrontato viaggi stressanti per essere fermati a molti chilometri di distanza dall'abbazia dai gendarmi francesi, chiaramente amici del governo italiano, l'unico che non ha mandato una rappresentanza ufficiale al funerale. Questo è dunque ciò che si merita chi vive servendo umilmente la Patria, e rispettando leggi che hanno cancellato quelle della propria Famiglia che ha unificato l'Italia. La giornata è finita con il nostro omaggio alla famiglia Reale, che ci ha ricevuti vicino all'altare e alla Salma, e per tutti ci sono state parole di incoraggiamento, ringraziamento e commozione. Infine siamo ripartiti a piedi, sotto la pioggia, compiendo chilometri di marcia per raggiungere i nostri pullman; da lontano si vedeva una fila interminabile di esuli, per un solo giorno, vecchi, bambini, e giovani felici per aver capito che solo l'esilio ha vinto la meschina battaglia di deputati e sottosegretari. Il nostro paese ufficiale ci ha derisi o ignorati ma il popolo non ci ha dimenticati, e questo è ciò che più conta. L'ultimo avvertimento per chi non ha voluto ascoltare un appello umanitario e non ha rispettato la volontà di un popolo è venuto quando la porta dell'Abbazia si è chiusa per accogliere per sempre la salma di un uomo ma ne ha lasciati fuori migliaia, e molti di più in Italia, che da ora in poi sono pronti la lavorare seriamente per l'avvenire di una istituzione che ha innegabilmente le radici nell'animo dell'uomo. La nostra volontà non accetterà più promesse o interessi elettoralistici. Qualcuno in passato voleva fare del Parlamento italiano un accampamento per i suoi soldati, noi vogliamo renderlo un luogo più sano, umano e pluralista.
I monarchici ricominciano.
E' morto il Re, viva il Re.

Francesco CARPANELLI
aprile 1983


Quale avvenire per i monarchici italiani

La morte del Re Umberto II viene sicuramente a chiudere una fase politica per il movimento monarchico italiano nella sua multiforme articolazione in gruppi e gruppuscoli.

Si arresta una curva lunghissima, sviluppatasi con alti e bassi per quasi 3 7 anni: più di una generazione.

Nel giugno del '46 con la caduta della Monarchia e la conseguente partenza del Re per l'esilio portoghese, sera chiusa un'epoca dal punto di vista istituzionale, ma anche politico. La neonata repubblica, espellendo il suo naturale antagonista dal territorio nazionale, aveva spinto i monarchici italiani a darsi una organizzazione definita e palese, perché, come scrisse Cesare Degli Occhi, non tutto si poteva dimenticare ed era necessario sottolineare con vigore alla pubblica opinione l'ingiustizia storica del 2 giugno nelle sue lontane premesse e nei più recenti esiti del confuso epilogo dello scontro elettorale. I monarchici, insomma, organizzandosi a repubblica incertamente proclamata, dovevano testimoniare la vitalità di dieci milioni e mezzo di voti, che rivendicavano la superiorità dell'istituto monarchico sulla forma repubblicana dello stato, al di là delle vicende contingenti della dinastia.

Nel giro di pochi mesi, all'indomani del 2 giugno '46, il movimento monarchico italiano venne a raggrupparsi attorno a due poli principali: un'associazione superpartitica, l'Unione Monarchica Italiana, col compito di organizzare i monarchici di tutti i partiti, non presente di conseguenza nelle istituzioni e il Partito Nazionale Monarchico, erede del Blocco Nazionale della Libertà. con una sua precisa collocazione nel nascente schieramento politico italiano, quindi impegnato in prima persona nelle consultazioni elettorali, che ben presto si sarebbero susseguite a ritmo sostenuto nella giovane repubblica.

La lunga curva di cui si parlava all'inizio prende così avvio con un cammino aspro e tormentoso, di successi e di insuccessi, di battaglie duramente combattute, di errori lattici e di strategia, di insidie tese in continuazione dagli avversari.

Dopo un avvio in sordina (neanche un milione di voti nel '48), il PNM prende quota nelle elezioni politiche del 1953 mandando in parlamento più di cinquanta suoi eletti grazie a un milione e ottocentomila voti.

Il partito di Stella e Corona diventa così l'ago della bilancia dello schieramento politico italiano: la Democrazia Cristiana, uscita ridimensionata soprattutto grazie al suo successo, ne deve chiedere spesso l'appoggio o la benevola astensione per poter governare il Paese. Ma nel 1958, dopo una sciagurata scissione interna che quattro anni prima aveva portato alla nascita di un secondo partito monarchico, capeggialo da Achille Lauro col nome di Partito Monarchico Popolare, inizia per entrambe le formazioni un declino inarrestabile: alle elezioni politiche solo 1.400.000 voti fra tutti e

due, per giungere alla vera e propria catastrofe nel 1963 quando il PDIUM frutto dell'unificazione tra PNM e PMP, superò a malapena i cinquecentomila voti con dieci eletti, contro i cinquanta e più di dieci anni prima. Il partito vivrà stentatamente ancora per meno di un decennio fino alla scomparsa avvenuta nel 1972.

L'Unione Monarchica Italiana non ha sofferto i traumi del partito anche per la sua intrinseca struttura di organismo al di sopra dei movimenti politici a struttura partitica, che ne ha sempre attutito l'impatto con la realtà politica diretta. Ha tuttavia avuto momenti di fulgore per il prestigio, se non per il numero dei suoi aderenti. Ma è anche vero che questo prestigio non ha mai saputo incanalare infeconda azione per mantenere viva e rilasciare quando necessario l'immagine della Monarchia.

Quindi, se tu curva di andamento del partito nella sua più che ventennale parabola ha avuto nelle scadenze elettorali i suoi momenti di chiara verifica dalla validità o meno dell'organismo, fino a giungere all'estinzione per anemia di consensi, quella dell'UMI non ha mai temuto verifiche di alcun tipo sulla propria forza per cui continua ancora oggi la sua vita, non so fino a che punto al di sopra di un vegetare stentato. La battaglia per il ritorno delle salme di Vittorio Emanuele III e della Regina Elena al Pantheon, poteva essere un terreno per un ampio confronto politico con i partiti repubblicani, dove si sarebbe potuta saggiare la genuina disponibilità monarchica dei numerosi parlamentari dei vari partiti che l'UMI dice di avere nelle sue file. Ma che cosa si fatto al di là delle sterili prese di posizione verbali o al più di proposte legislative lasciate ammuffire negli uffici del parlamento? E per la questione ancora più grave dell'esilio dei discendenti maschi del ramo principale della dinastia? Al di là di qualche comunicato o raccolta di firme il nulla. Un po'poco dunque per rispondere alle attese dei monarchici italiani, la cui spontanea mobilitazione proprio in occasione della malattia e della morte del sovrano dimostra ancora numerosi. Quest'ultimo evento apre adesso una fase del tutto nuova per l'avvenire del movimento monarchico italiano: il simbolo caro, nel ricordo di una grande massa di italiani, non è più; chi è stato chiamato alla successione nella guida della dinastia non ha il carisma del padre e ciò, sia chiaro, a, prescindere dalle vicende personali, ma per ragioni di ingiustizia storica: l'iniquo dettato dalla costituzione repubblicana che lo tiene lontano dall'Italia dalla prima infanzia non gli consente di farsi conoscere, per cui fatalmente è destinato a diventare un simbolo incerto, se una organizzata battaglia politica non farà conoscere lui e non rivitalizzerà l'immagine dell'istituzione che rappresenta, ancora ricca di potenzialità aggreganti a giudicare dagli ultimi avvenimenti.

Una rifondazione dunque delle direttive dell'azione politica dei monarchici italiani deve inaugurare la nuova fase storica. Al centro ci dovrà essere il massimo dell'aggregazione e dello sforzo di elaborazione politica. Le linee concrete verranno via via esposte da questo giornale, la cui nascita proprio in questi momento vuole essere testimonianza della nostra vitalità, ma anche dire qualcosa di nuovo rispetto al passato a giustificazione della validità della Monarchia nel XX secolo.

Ivanoe RIBOLI,




Articolo dell'Aprile 1983

venerdì 20 luglio 2012

MONARCHICI E ANTICONFORMISTI: NUOVE SINTESI APPRODA ALLA RETE



Nell’aprile del 1983 un gruppo di  giovani monarchici, arcistufo delle solite commemorazioni, piagnistei e messe da morto, volle riprendere con più vigore la strada dell’impegno politico e civile nella Repubblica.
Per farlo fondò questo periodico: NUOVE SINTESI.
Questo giornale fu e rimane uno scatto d’orgoglio e consapevolezza del proprio valore.
Dall’aprile 1983 il giornale esce regolarmente, senza interruzioni.

Giornate di studio, come quella del 26 novembre 2011, a Milano, sulla figura di Re Vittorio Emanuele II, dibattiti con altre forze politiche, presenza sul territorio, numeri speciali, lo rendono saldo punto di riferimento culturale, anche per chi monarchico non è.
Siamo una libera palestra di pensiero e azione,  per chiunque rifiuti il bavaglio del conformismo e del misero tornaconto quotidiano.
Come la lince guardiamo lontano.

Monarchia e scienza politica camminano di pari passo. Entrambe indicano la strada da seguire a quei cittadini, che si sentono abbandonati dalle Istituzioni e che, da Carlo Alberto in poi, garantiscono le libertà civili, nessuna esclusa. La società, che si spezza sotto i nostri occhi, ha bisogno di una difesa. Questa difesa è la Monarchia amministrativa e parlamentare, soprattutto ora che l'Italia viene svenduta a pezzi.
Diciamolo alla gente.

Milano, 19 Luglio 2012                                          
                                                                                                                                                                            Michele D’Elia
                                                                                                                                                                 Direttore di Nuove Sintesi   

domenica 1 luglio 2012

Per un Re




Certi giornali di regime, che non potevano ignorare la morte di Umberto di Savoia, per l'ondata di interesse spontaneo, che si è levata dal popolo, hanno scritto tutto su di lui, a patto che fossero considerazioni meschine, e negative: dalla frivolezza galante al sospetto di omosessualità artificiosamente propalata dai repubblicani di Salò ed al suo essere "straniero”. Gli uomini politici, sempre di regime, salvo le poche e sincere eccezioni liberali, hanno recitato la parte contrita di chi si e si arrendere alle lungaggini procedurali e burocratiche sulla questione del rientro in Italia; mentre proprio essi, con volute diatribe sono i responsabili del ritardo inammissibile. E, comunque, per pensarci avevano avuto trentasette anni d'esilio. La Repubblica ha così perso un'altra occasione per dimostrare la sua pretesa superiorità.

Non conobbi di persona Re Umberto. Tuttavia, egli fu presente direttamente nella mia vita due volte: come mio testimone di nozze per delega all'avv. Sodano e quando mi fece cavaliere della corona, su proposta di un comune amico, militante socialista. Ma la sua vera dimensione mi sfuggiva: non volendo intrupparmi nei numerosi gruppi di Italiani che andavano a trovarlo in Portogallo, nè potendo permettermi di andarci da solo, per i soliti motivi economici, rimandai sempre quel viaggio che avrebbe dovuto avere un significato politico e non di semplice visita di saluto. Ora che il Re è morto e ha donato allo Stato repubblicano tutto quanto poteva, ed alla Chiesa la Sacra Sindone, intuisco la sua dimensione storica e giustifico i giornalisti che nelle pieghe della sua vita hanno voluto trovare solo appigli per dirne male: il suo distacco dalla polemica e dalla miseria che investe tutti i giorni gli uomini era tale da non consentire altro che parlarne male. E più semplice e non si rischia di passare per servi di corte. Inoltre è meno faticoso, perché non ci sono ricerche storiche da fare sul personaggio.

Si affollano, allora, nella mente di un monarchico giovane i pensieri più disparati e all'apparenza insignificanti. dalla cartolina del Re alle polemiche nell'UMI, alle cariche della polizia durante le nostre manifestazioni, di anni ormai lontani, in cui in piazza sventolavamo la Bianca Croce.

Non ci sono libri che insegnino a fare il Re, come non ce ne sono che insegnino, più modestamente, a fare il dirigente statale, o il capo di un'azienda o il capo di partito, ma il principio dev'essere lo stesso: il continuo sacrificio del proprio io e dei propri sentimenti perché gli altri che dal capo aspettano qualcosa stiano sempre meglio. Ma, se nella gerarchia comune è concesso a tutti di rivolgersi a chi sta più in alto e su questi far ricadere anche colpe non sue, il Re non può e non deve parlare con nessuno, Egli si carica delle colpe di tutti. Ai Savoia . a si può rimproverare tutto; meno che non abbiano saputo fare il Re, quando è stato necessario. Per questo Umberto non fece mai distinzioni tra monarchici e repubblicani: quelli con cui parlava erano italiani e basta, e la scelta del partito era affare loro. Non così per i Presidenti di Repubblica che proprio dai partiti traggono i voti per l'elezione e quindi non hanno in sé il fondamento della suprema magistratura dello Stato.

Umberto fu vicino ai giovani sin da quando, Luogotenente del Re, aprì il Quirinale ai piccoli mutilati di guerra, agli sfollati ed ai reduci dal fronte e mi raccontano che anche nei suoi incontri di Cascais preferiva far aspettare i dignitari e gli anziani piuttosto che i ragazzi.

Ai dolori familiari si aggiunsero per lunghi anni-quelli causati dai monarchici, che proprio quando la Nazione li premiava con milioni di voti, si divisero e chiesero al Re un'investitura che egli rifiutò di concedere perché assurda. Vennero con la scissione di Lauro e Covelli e la nascita di gruppetti e personaggi sempre più squalificati politicamente, che del nome dei Savoia si servono senza servirlo.

Accusato ora di non aver contrastato il verdetto del due giugno, ora di aver lanciato al Paese un messaggio troppo polemico, Umberto troncò la rissa partendo per l'esilio e rendendo all'Italia ed alla stessa Repubblica un servigio di cui non si è ancora capita la profondità e la grandezza e di cui si tace opportunamente dovunque, poiché a nessuno conviene dire che questa seconda “fuga” evitò la guerra civile. E’ questo, appunto, un altro aspetto della regale dimensione, che anche alle analisi più obiettive e approfondite.

Noi monarchici democratici crediamo che egli abbia fatto bene a partire per l'esilio anche in presenza di risultati elettorali quanto mai incerti e discutibili, se non per le manipolazioni difficili da smentire, quanto per il momento in cui fu chiesto al popolo di pronunciarsi, come riconosce lo stesso Romita, nel suo libro Dalla Monarchia alla Repubblica. La vittoria risicata della Repubblica è una macchia per questa, non per la Monarchia.

Umberto ha consegnato agli Italiani un capitale di onestà e lealtà al quale essi potranno sempre ispirarsi nelle loro azioni solenni, come in quelle quotidiane.

Oggi è certo un fatto: la statura morale del Re, cui forse non fu dato di spiegarsi completamente negli anni della luogotenenza e nel solo mese di regno, si è rivelata nella sua completezza durante trentasette anni di esilio, nei quali egli fu Custode dello Statuto e Sovrano al servizio dei suo popolo, che lo ha ricambiato con un attaccamento tale da superare le menzogne e la propaganda di regime, ciò che anche i più arrabbiati nemici della Monarchia hanno dovuto riconoscere.

Il comunista Trombadori ha così commentato la morte di Umberto : «Pace alla anima sua: adesso siamo sollevati dal problema». Ecco: la Repubblica ha regalato all'Italia, culla del diritto e della civiltà, una di quelle frasi e di quelle azioni che in un attimo cancellano tremila anni di storia, invidiata da tutto il mondo. Noi crediamo che i più sinceri repubblicani se ne dolgano quanto noi, che senza mezzi ci batteremo sino a quanto tutti i Savoia non saranno tornati in Italia con la pienezza dei loro diritti civili, che non si negano nemmeno agli assassini pentiti. Ma il Re non può pentirsi di essere Re, perché dovrebbe anche pentirsi di essere Uomo.

Il principe non fa le rivoluzioni, ma se ne mette a capo quando queste, in atto, aprano al popolo nuovi orizzonti di democrazia e progresso. Umberto lo capì e negli anni più duri della guerra e del referendum seguì con attenzione quelle forze politiche che al nuovo si ispiravano; ma non rinnegò la tradizione, che lungi dall'essere qualcosa di pietrificato e stucchevole, come vorrebbero certe mummie monarchiche è la linfa che innerva di sé il futuro.

Chi accusò ieri come oggi il figlio di non essersi ribellato al padre e di avre con lui preso la strada di Pescara, non vuole capire che "la lunga teoria di berline nere portava con sa la continuità dello Stato” come ha riconosciuto lealmente il Ragioniere, storico marxista, nella Storia d'Italia di Einaudì. Il resto sono sciocchezze di cui la storia farà giustizia.


E' stato scritto da chi monarchico non è: « Nessuna dinastia, neanche quella Hoenzollern, ha avuto un epigono che all'impegno di onorarne il nome e il ricordo abbia saputo fare tanto sacrificio della propria vita, e con piena coscienza della sua assoluta inutilità». Speriamo che almeno i monarchici sappiano trarne insegnamento. Non possiamo dire che Re sarebbe stato Umberto, ma da come è vissuto e da come è morto possiamo immaginarlo. Il sette dicembre 1943, un piccolo e disarmato aereo da ricognizione volò senza scorta sulle posizioni tedesche di Montelungo, riportandone preziosi dati per gli imminenti attacchi delle nostre truppe, che da li a poco avrebbero conquistata la posizione, lo pilotava Umberto con un coraggio e una umiltà barattati per paura. Negli anni della pace, Egli inviava sempre un messaggio ai superstiti di quella battaglia. Ma il suo pensiero andava ai Caduti. Adesso li ha raggiunti e con loro starà molto meglio che con i vivi. Come il padre, che amò più di ogni altro abito la dimessa uniforme dei fanti.