sabato 19 novembre 2022

PROFILO DELL’ITALIA NELLA SECONDA GUERRA MONDIALE

 

NUOVE SINTESI

trimestrale di cultura e politica

Direttore Responsabile Michele D’Elia

con la collaborazione dell’Istituto

Zaccaria

 




1940 - 1943

PROFILO DELL’ITALIA

NELLA SECONDA GUERRA

MONDIALE

 

Mercoledì 30 novembre 2022

Istituto Zaccaria, Aula Magna - ore 15.00

Via della Commenda, 5 – Milano, MM 1 - 3

La invitiamo al convegno nazionale di studi storici

organizzato da

 

NUOVE SINTESI

 

trimestrale di cultura e politica

con la collaborazione dell’Istituto Zaccaria

 

 

1940 - 1943

PROFILO DELL’ITALIA

NELLA SECONDA GUERRA

MONDIALE



Il Direttore Responsabile Michele D’Elia​

PER INFORMAZIONI: 02.68.08.13 – 340.57.62.532 –

michele.inhostem@gmail.com

P R O G R A M M A

Presentazione del Convegno

Saluti istituzionali

 

RELAZIONI


Il valore degli Italiani in guerra - 

conosciamo i nostri Soldati

Michele D'Elia,    Direttore R. di Nuove Sintesi, Milano


La seconda guerra mondiale in Africa Orientale - 

La fine dell'Impero

Gianluca Pastori, Università Cattolica, Milano


Attacco alla cultura - il Teatro alla Scala, 

bombardato e ricostruito

Sergio Rizza -  giornalista, METRO, Milano


I corrispondenti di guerra nella seconda guerra mondiale

- scrivono tra combattimenti e censura politica e militare

Giorgio Guaiti, giornalista e scrittore, Milano​


L'arte figurativa in epoca fascista e la sua influenza sui

manifesti e sulle cartoline d'autore del periodo bellico -

cartoline di guerra

Salvatore   Paolo   Genovese, Liceo   Sc.   St.   "Vittorio   Veneto", Milano


Coordinano i lavori

PAOLA MANARA  e  AMEDEO BELLINI

Ingresso libero

 

 

Si ringraziano quanti hanno collaborato

per la buona riuscita del convegno.

martedì 27 aprile 2021

La smobilitazione dell’Esercito Italiano nel primo dopoguerra

 



La questione della smobilitazione dell’Esercito Italiano nel primo dopoguerra fu avvertita dalle autorità politiche e militari sin dal momento della conclusione del conflitto. A indurre verso una rapida smobilitazione c’erano ragioni essenzialmente economiche. Il governo italiano, infatti, era entrato in guerra contando sulla rapidità del conflitto, ben consapevole della scarsa sostenibilità finanziaria di uno sforzo bellico di lunga durata per un paese non ancora completamente industrializzato. L’andamento della guerra rivelò ben presto che le operazioni militari non sarebbero terminate nel breve periodo, determinando una continua e pressante richiesta di aiuti finanziari nei confronti, soprattutto, di Inghilterra e Stati Uniti. Il forte indebitamento italiano, determinato dalla richiesta di tali aiuti finanziari, spiega la motivazione primaria che indusse il ministero del Tesoro a richiedere una pronta smobilitazione sin dalle giornate del novembre 1918.

Tale richiesta fu affrontata, oltre che dal Governo, dal Capo di Stato Maggiore del Regio Esercito, generale Armando Diaz, e dal ministro della Guerra, Vittorio Italico Zupelli, che procedettero al congedamento delle classi più anziane (1874-75-76) ordinato già in data 5 novembre; si trattava, peraltro, di classi la cui consistenza in uomini alle armi era relativamente limitata e il cui impiego prevalente era nel paese. Gli orientamenti erano di proseguire i congedamenti della truppa per classi fino a un ritorno a una situazione d’anteguerra, da conseguirsi gradatamente in relazione alle molteplici esigenze del momento, spesso in contrasto fra loro. Tant’è che entro novembre-dicembre 1918 furono congedati circa 1.400.000 uomini, ossia 1/3 della forza mobilitata fino a pochi mesi prima. A partire da gennaio 1919, però, cominciarono ad emergere altre problematiche che rallentarono il processo di smobilitazione. Infatti, il desiderio di venire incontro alle aspirazioni del Tesoro per una rapida contrazione delle spese e a quelle degli individui per un ritorno alle proprie case trovò un freno sia nelle incertezze della situazione internazionale sia nel timore del Governo di creare una forte disoccupazione, particolarmente nei centri industriali, nei quali questa sarebbe stata innescata anche dall’arresto delle produzioni belliche. Disoccupazione difficile da affrontare vista l’impossibilità di realizzare la necessaria assistenza materiale per i reduci.

È chiaro, però, che la smobilitazione fin lì attuata avrebbe considerevolmente ridotto le capacità operative dell’Esercito Italiano, se non si fosse riorganizzato prontamente. In tal modo, fu avviato il previsto scioglimento di comandi e unità esuberanti, rinsanguando così le unità rimaste in vita. Per quanto si riferisce alle brigate di fanteria, allora pedine fondamentali dell’Esercito mobilitato, il 13 gennaio 1919 fu annunciato lo scioglimento di 19 brigate, che avrebbe dovuto permettere di tenere a numero – per quanto possibile – le restanti destinate per il momento a sopravvivere.

La smobilitazione dell’Esercito mobilitato, ovviamente, pose dei problemi anche per quanto concerne gli ufficiali, in particolare quelli di grado superiore, da colonnello a generale di corpo d’armata, che sovrabbondavano considerevolmente. I primi congedamenti, limitati ai nati anteriormente all’anno 1874, erano disposti il 14 dicembre 1918 a partire dal 22 del mese (circ. 2470); tuttavia, entro la prima metà di gennaio 1919 i congedamenti furono limitati solo fino alla classe 1876. Se ancor oggi è difficile dare conto del numero degli ufficiali congedati in quella prima fase, date le contraddizioni esistenti tra i vari documenti, si può evidenziare come alla data del 10 gennaio 1919 erano stati posti in congedo gli ufficiali delle sole classi anteriori al 1876 la cui consistenza totale era di 6411. Peraltro, di essi ne risultavano effettivamente congedati solo 5400, oltre a 3000 ufficiali di classi più giovani che erano stati posti in congedo perché appartenenti

a particolari categorie.

Sintetizzando, è opportuno mettere in evidenza che la prima fase della smobilitazione portò a un rapido ridimensionamento dell’Esercito mobilitato, quanto lo consentirono le potenzialità del sistema dei trasporti, inizialmente senza remore di carattere politico. A tale rapidità, tuttavia, non corrispose, in egual misura, l’organizzazione della componente burocratica e logistica e un’adeguata assistenza a favore dei militari di truppa, congedati nel momento critico del rientro nella vita civile. Successivamente, la smobilitazione procedette a rilento, non solo a causa dell’oggettiva complessità dell’operazione, ma per considerazioni di carattere politico, attinenti al contesto interno e a quello internazionale. Nel primo caso si voleva evitare che le masse di reduci smobilitati potessero cadere preda della propaganda e dell’attività del Partito socialista italiano che aveva assunto una posizione fortemente contestativa della guerra e ispirata all’esempio di quello che era avvenuto nella Russia zarista. Sono quelli, infatti, i mesi caratterizzati dal cosiddetto “Biennio Rosso” che, prescindendo dal carattere spontaneo o meno della sua organizzazione, diede vita a una serie di scioperi, occupazioni delle terre e delle fabbriche che fece vivere il timore di una possibile rivoluzione di stampo socialista. Nel secondo caso, le crescenti tensioni tra gli alleati che si vennero a dipanare alla Conferenza di pace e che portarono a una forte frizione nel mese di giugno, fecero sì che si mantenesse in piedi l’Esercito mobilitato per far fronte ad eventuali operazioni di carattere militare. Certo è che la successiva occupazione di Fiume del settembre 1919, oltre ad aumentare la tensione tra l’Italia e gli (ex) alleati favorì una riflessione sulla politicizzazione dell’Esercito Italiano. Non è un caso che di lì a qualche mese, nel novembre 1919, dopo un intenso scambio di corrispondenza tra Comando supremo, ministro della Guerra e Governo avvenuto durante l’anno, si arrivò a formulare la prima delle tante riforme dell’Esercito Italiano che furono studiate nel dopoguerra: l’ordinamento Albricci, dal nome del ministro della Guerra dell’epoca.

L’esercito era strutturato su 15 corpi d’armata di due divisioni, ciascuna delle quali su quattro reggimenti di fanteria e uno di artiglieria. Erano costituiti, inoltre, un Gruppo Corazzato, il Corpo Aeronautico, il Corpo Automobilistico e il Corpo del treno militare. In totale 210.000 uomini. La ferma di leva era di 12 mesi riducibili a 8.

Incisive furono le modifiche dei vertici: il Corpo di Stato Maggiore cambiò nome in Servizio di Stato Maggiore, al cui vertice rimaneva un Capo di Stato Maggiore il cui operato era supervisionato dalla nuova figura dell’Ispettore dell’Esercito, affidata al generale Armando Diaz, incaricato di presiedere il neonato Consiglio dell’Esercito, composto da tutti i generali d’armata e destinato a decidere delle questioni più rilevanti da sottoporre all’approvazione del ministro.

A parte la macchinosa struttura di vertice, l’ordinamento Albricci non era un cattivo risultato, ma aveva il difetto di conservare 30 divisioni, molte di più di quante il bilancio potesse sopportarne. Sicché Nitti chiese al nuovo ministro della Guerra Ivanoe Bonomi, entrato nel rimpasto del suo III Ministero nel marzo del 1920, di predisporre un nuovo ordinamento. Questo ordinamento fu realizzato nel corso dell’aprile, quando ormai le sorti del Governo Nitti erano segnate e si profilava il ritorno al potere di Giovanni Giolitti. Il nuovo Governo Giolitti confermò nella carica di ministro della Guerra Ivanoe Bonomi. La struttura organica dell’esercito, prevista nell’aprile 1920, si articolava in 10 corpi d’armata da tre divisioni, e riducendo a quadro, ovvero ai soli ufficiali e sott’ufficiali, il terzo battaglione dei reggimenti. La leva fu ridotta a 8 mesi, restringibili a 3 in casi eccezionali, mentre il corpo ufficiali, fissato in 18.880 unità, fu drasticamente tagliato di 3.900 posti, i cui titolari furono mandati in pensione anticipata. L’esercito risultava ridotto a 175.000 unità. Il Capo di Stato Maggiore era quasi esautorato: gli venivano sottratte la preparazione dei piani operativi, affidata al Consiglio dell’Esercito, e il comando delle operazioni in guerra, affidato all’Ispettore dell’Esercito, col che la carica era svuotata quasi di ogni potere. Unico provvedimento popolare fu sottratta all’esercito e conferita ai carabinieri, il cui organico fu notevolmente ampliato, la tutela dell’ordine pubblico. Le contrarietà suscitate dall’ordinamento Bonomi furono tali che il nuovo Governo, guidato ora da Bonomi, decise un’ulteriore riforma affidata nel luglio 1921 al ministro Luigi Gasparotto. Il nuovo ordinamento manteneva la forza di 175.000 unità, ma rivoluzionava tutto il resto: la ferma era portata a sei mesi, l’esercito era diviso, con concezione abbastanza moderna occorre dire, in due componenti funzionali: un esercito di copertura schierato alle frontiere e composto di 6 divisioni di fanteria, una di cavalleria, una brigata di bersaglieri e una alpina, ed un esercito di mobilitazione di 56 divisioni e 6 brigate alpine articolato in regioni, zone e centri che avrebbero dovuto trasformarsi all’atto della mobilitazione rispettivamente in corpi d’armata, divisioni e reggimenti. Anche l’ordinamento Gasparotto non riuscì a sopravvivere molto, sostituito dall’ordinamento Diaz del gennaio 1923. Ma, a quella data, era iniziata un’altra storia.

 

Andrea Ungari Università Guglielmo Marconi - Roma

lunedì 26 aprile 2021

Pareto e gli inizi del fascismo

 


 Céligny, li 5 gennaio 1922 

Caro signor Aurelio E. Saffi, tosto dopo il corteo fascista a Roma e i conseguenti scioperi, scrissi per la « Ronda » una lunga cronaca… che oggi sarebbe proprio frutto fuori di stagione. Tornerà ad essere opportuna quando si rinnoveranno gli scioperi. Analoga sorte incoglierebbe alla cronaca che ora scrivessi sugli avvenimenti bancari. Occorre trovare altro. Sto maturando il disegno di scrivere lungamente sui presenti problemi detti di ricostruzione dell’Europa, considerati nell’intero quadro storico della guerra. Se il lavoro non è troppo lungo, potrà andare bene per la « Ronda »; altrimenti converrà farne un volume come Trasformazione della democrazia. 

Tra poco spero di potermi decidere. Abbia pazienza con tutti questi dubbi; essi sono la conseguenza dell’indole dei miei studi. Stia certo che tengo sempre presente la « Ronda ». Mi creda affezionatissimo Vilfredo Pareto (Vilfredo Pareto, Lettres et correspondances. Œuvres complètes: Tome XXX, Droz, Genève, 1989, pag. 748) Pareto (1848-1923), che più volte nel suo epistolario si lamenta del cattivo funzionamento della posta italiana, si riferisce verosimilmente al suo articolo su “Il fascismo”, pubblicato sul numero 1 del gennaio 1922 de La Ronda Letteraria mensile (pp. 39-52), rivista fondata nel 1919 e diretta dal poeta, scrittore e giornalista Vincenzo Cardarelli (1887-1959) e dal conte Aurelio Emilio Saffi (1890-1976), “docente nelle scuole governative”, figlio di Giovanni Emilio, secondogenito del patriota che, con Mazzini ed Armellini, fu membro del triumvirato della Repubblica Romana nel 1849: Aurelio Saffi (1819-1890). Il sociologo italiano aveva già èdito da poco tempo altri due libri: Fatti e teorie, Vallecchi, Firenze, 1920 e Trasformazione della democrazia, Corbaccio, Milano, 1921. In seguito pubblicherà vari testi raccolti qualche anno fa da Francesco Ingravalle in Le configurazioni del fascismo (1922-1923), Edizioni di Ar, Padova, 2012. 

Quando Pareto scrive, agli inizi del 1922, ha ancora in mente i fatti del biennio rosso del 1919-20 con l’occupazione delle fabbriche, nonché le turbolenze bancarie di quel periodo. Il suo pensiero politico in proposito diventa facile motivo per un’appropriazione da parte del fascismo, che ne fa un suo anticipatore e sostenitore, come avviene di fatto con Volt (ovvero Vincenzo Fani Ciotti), che lo definisce il Carlo Marx del fascismo (Volt, “Vilfredo Pareto e il fascismo”, «Gerarchia», 10, 26 ottobre 1922, pp. 597-600). Ma in realtà la posizione di Pareto è più cauta: «Il pericolo dell’uso della forza è di scivolare nell’abuso, ovvero di oltrepassare quei limiti entro i quali risulta essere utile» (Vilfredo Pareto, “Lettera a M. Pantaleoni”, 22 maggio 1921, in De Rosa G., a cura di, Lettere a Maffeo Pantaleoni, 1890-1923, Banca Nazionale del Lavoro, Roma, 1960, vol. III, p. 320). 

La prospettiva paretiana è più equilibrata ed immagina un recupero del proletariato attraverso una politica dirigistica, centralizzata, in grado di superare i conflitti e di favorire le tendenze più conciliative. In effetti alcuni scritti successivi di Pareto sviluppano la medesima linea: “Il fascismo giudicato da Vilfredo Pareto”, «Giornale d’Italia», 31 marzo 1922; “Pareto e il fascismo. Intervista di A. Ponzone”, «La Tribuna», 24 aprile 1923; “Parole di conforto”, «Il Secolo», 17 maggio 1923, ora in Busino G., a cura di, Scritti sociologici minori di Vilfredo Pareto, Utet, Torino, 1980, pp. 1180-1183; “Libertà”, «Gerarchia», luglio 1923, pp. 1059-1063, ora in Busino G., a cura di, Scritti sociologici minori di Vilfredo Pareto, Utet, Torino, 1980, pp. 1191-1197; “Pochi punti di un futuro ordinamento costituzionale”, «La vita italiana», settembre-ottobre 1923, pp. 165-169, ora in Busino G., a cura di, Scritti politici di Vilfredo Pareto, Utet, Torino, 1974, vol. II, pp. 796-800. Nondimeno, il 28 dicembre 1922 Benito Mussolini fa sapere che intende nominare Vilfredo Pareto suo rappresentante nella Commissione della Società delle Nazioni per la riduzione degli armamenti. Pareto accetta, ma, appena qualche mese dopo, la sua vita giunge al termine, il 21 agosto del 1923. Roberto Cipriani Gianpiero Goffi – segue a pag. 12 u Bearzot – segue a pag. 11 u Emerito dell’Università Roma Tre

domenica 28 marzo 2021

La Società delle Nazioni: nascita e sviluppo di un sistema di sicurezza collettiva

 


La firma del trattato di Versailles, oltre a chiudere la guerra fra la Germania e le Potenze alleate e associate, segna anche l’atto di nascita della Società delle nazioni (SdN).

Fortemente voluta dal Presidente statunitense Wilson, essa doveva rappresentare il pilastro del nuovo ordine internazionale. Secondo il ‘Patto fondativo’ (‘Convenant’), suo obiettivo era salvaguardare la pace internazionale favorendo il ricorso all’arbitrato, la sicurezza collettiva e il disarmo. Essa si occupava, inoltre, di questioni che andavano dalla regolamentazione di rapporti di lavoro alla protezione dei prigionieri di guerra, alla promozione della cooperazione e all’avvio dei territori ex coloniali all’indipendenza attraverso il sistema dei c.d. ‘mandati’. Essa favorì, infine, la nascita di nuovi organismi ai sensi dell’art. 23 del Convenant; fra questi: l’Organizzazione internazionale del lavoro, l’Organizzazione economica e finanziaria e l’Organizzazione sanitaria della Società delle nazioni, precursore della attuale Organizzazione mondiale della santità.

Fin da subito, le attese furono molte. La centralità degli Stati Uniti nella conferenza della pace e l’importanza attribuita al progetto dal Presidente Wilson furono le sue principali forze. Accettato dagli alleati il 25 gennaio, il progetto della SdN avrebbe portato alla redazione del Patto da parte di una commissione ad hoc presieduta dallo stesso Wilson e comprendente i rappresentanti di Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Italia, Giappone, Belgio, Cina, Portogallo e Serbia. Il Patto (approvato il 28 aprile) sarebbe poi confluito nei trattati siglati con le Potenze sconfitte. La mancata ratifica del trattato di Versailles da parte degli Stati Uniti (novembre 1919) avrebbe rappresentato una prima battuta d’arresto, sebbene le sue conseguenze non siano da sopravalutare. Se, infatti, il disimpegno di Washington fu uno scacco importante sul piano simbolico e una sconfitta personale per Wilson, esso non arrestò né il processo di istituzionalizzazione della vita internazionale, lo sforzo di dare vita a un credibile sistema di sicurezza collettiva.

Gli anni Venti in particolare sarebbero stati segnati da un’intensa azione nel campo del disarmo. Per Wilson, le clausole imposte alle Potenze sconfitte dovevano essere solo l’anticipo di un processo destinato a coinvolgere anche i vincitori della guerra. Questa idea sarebbe stata ripresa dal suo successore, il repubblicano Warren Harding (in carica: 1921-23), sotto la cui egida si sarebbe svolta, fra il novembre 1921

e il febbraio 1922, la conferenza di Washington che avrebbe portato una prima riduzione delle flotte da guerra degli Stati parte del trattato per la riduzione degli armamenti navali (Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Italia e Giappone). Il tema del disarmo sarebbe stato affrontato anche dalla Società delle nazioni, fra l’altro con la costituzione di una Commissione temporanea mista sugli armamenti (1921-24) e la redazione di varie bozze di trattato (primo fra tutti il trattato di mutua assistenza del 1923), per riaffiorare poi, nella seconda parte del decennio con l’infruttuosa Conferenza mondiale sul disarmo del 1932-37.

Le ragioni della poca efficacia dell’azione societaria sono diverse e si legano da un lato alla farraginosità dei suoi meccanismi, dall’altro alle divergenze esistenti fra i membri. Altro aspetto problematico è il rapporto fra azione collettiva e politiche nazionali, spesso in contrasto l’una con le altre. Da questo punto di vista è significativo che proprio il voto contrario della Gran Bretagna (preoccupata per le ricadute che un voto favorevole avrebbe avuto sulla sicurezza imperiale) blocchi l’approvazione del trattato di mutua assistenza, sostenuto, fra gli altri, da Lord Robert Cecil, già principale fautore della SdN nel gabinetto Lloyd George e influente membro della commissione per la redazione del Convenant. Questo scollamento si sarebbe accentuato negli anni portando, fra l’altro, alla ‘fuga in avanti’ rappresentata dalla firma del patto Briand-Kellogg (27 agosto 1928), ambizioso tentativo di risposta franco-statunitense allo stallo cui erano giunti – a livello societario – i lavori della commissione preparatoria della conferenza sul disarmo.

In questo senso, la freddezza franco-britannica verso la SdN rappresenta forse più del disimpegno statunitense la ragione della sua debolezza. Né Parigi né Londra trovavano, infatti, nell’organizzazione uno strumento adatto al conseguimento dei rispettivi interessi: per la prima, una garanzia ‘forte’ contro un possibile risorgere della minaccia tedesca; per la seconda, un foro di dialogo con Washington per l’esercizio di una sorta di egemonia condivisa. La volontà di entrambe di non ‘legarsi le mani’, subordinando l’autonomia delle politiche nazionali alle necessità della sicurezza collettiva, fa il resto. Si tratta di elementi destinati a emergere soprattutto alla fine degli anni Venti e con più forza nel decennio successivo, di fronte all’incapacità dell’organizzazione di gestire le crisi che punteggiano il periodo (crisi mancese, 1931-32; guerra del Chaco, 1932-35; guerra italo-etiopica, 1935-36) e alle defezioni che, iniziate con quella del Brasile nel 1926, culminano con quelle del Giappone, della Germania e dell’Italia nel 1933-37.

Nei primi anni Venti, tuttavia, predomina ancora la fiducia, che accompagna la crescita del ruolo dell’organizzazione. Ciò emerge con chiarezza nel rapporto che si instaura fra la SdN e gli Stati che non ne fanno parte, come la Germania (che presenta domanda di ammissione nel 1924 ed è ammessa due anni dopo), gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, che pur essendo ammessa al Consiglio della Società solo nel settembre 1934 (ne sarebbe stata espulsa cinque anni dopo, in seguito all’invasione della Finlandia), negli anni precedenti collabora attivamente all’attività societaria. È questo anche il periodo in cui la partecipazione di Francia e Gran Bretagna alle attività della SdN è più attiva. La presenza, in Gran Bretagna, di un movimento pacifista e filo-societario tradizionalmente forte concorre in parte a spiegare questo atteggiamento che, tuttavia, riflette anche la necessità sentita da una parte della classe politica di individuare modi alternativi di gestione dei problemi in una fase di rapida trasformazione del sistema degli Stati.

Gianluca Pastori

Università Cattolica, Milano

sabato 20 marzo 2021

Croce dal ministero all’opposizione

 


“Questo filosofo ha molto buon senso”, disse di lui Giovanni Giolitti, famoso per il suo pragmatismo, che gli aveva affidato nel suo quinto, breve e ultimo governo – durato dal giugno 1920 al luglio 1921 – il ministero della Pubblica istruzione, nel clima convulso del primo dopoguerra. Una lode che “suonò gratissima” a Benedetto Croce, il quale, nella sua Storia d’Italia dal 1871 al 1915, uscita nel 1929, ricambierà l’apprezzamento allo statista piemontese: “Uomo di grande accortezza e di grande sapienza parlamentare…Ma non meno di seria devozione alla patria, di vigoroso sentimento dello Stato…di concetti semplici, o, meglio, ridotti nella sua mente alla loro semplice e sostanziale espressione, la quale vinceva le opposizioni con l’evidenza del buon senso”. Che fra i due ci fosse stata qualche sintonia, al di là delle profonde differenze di indole, formazione e motivazioni, era stato evidente già nell’anno della neutralità italiana (1914-15) che entrambi, da liberali non sonniniani, avrebbero voluto proseguisse. Salvo poi inchinarsi, nel maggio 1915, al senso del dovere comune. Ma ciò non aveva impedito le critiche del filosofo all’uomo politico, di cui non amava la troppa propensione ai compromessi e ai tatticismi parlamentari, soprattutto quando, nell’estate 1917, l’anno di Caporetto, lo ritenne ispiratore occulto dei tumulti popolari di Torino, causati dalla penuria di pane e sfociati in un aperta contestazione, incoraggiata dai socialisti, della partecipazione alla Grande Guerra. La piena comprensione della statura politica di Giolitti da parte di Croce viene fatta risalire dagli storici, in particolare da Giuseppe Galasso, agli anni finali del conflitto. Il quinto governo Giolitti fu un governo di coalizione che comprendeva, oltre ai liberali anche socialisti riformisti come Ivanoe Bonomi e Arturo Labriola e popolari cattolici come Filippo Meda. Il nome del senatore Croce, scriverà il suo fedele discepolo Vittorio Enzo Alfieri nel volumetto Pedagogia crociana (edizioni Morano, Napoli, 1967), era stato suggerito a Giolitti, che “certamente non aveva letto neppure un rigo” dello studioso napoletano, dal deputato liberale Giulio Alessio. Giolitti, al quale premeva l’appoggio dei popolari, si consultò anche con don Luigi Sturzo, ricevendone un ‘nulla osta’ sia pure condizionato. Il Filosofo venne poi convinto ad accettare dalla moglie torinese, Adele Rossi, e già nel corso del primo colloquio, Giolitti lo informò che era atteso dal Re per il giuramento. Croce obiettò di non avere con sé l’abito nero richiesto dall’etichetta di corte, ma il presidente del Consiglio lo rassicurò che Vittorio Emanuele III non avrebbe fatto caso a tali formalità. Nel famoso discorso di Dronero alla vigilia delle elezioni del 1919 (le prime con sistema proporzionale) Giolitti aveva indicato nella scuola, da riorganizzare in ogni ordine e grado, il banco di prova della ricostruzione liberale dopo la prova della guerra, riconoscendo all’istruzione pubblica un alto compito nella formazione dei cittadini. Croce, nei suoi scritti, non si era mai occupato nello specifico di pedagogia, ma avvertiva profondamente l’importanza dell’educazione umana e della maturazione della personalità dei giovani nel rapporto fra la loro anima e quella degli insegnanti. Un procedimento maieutico attraverso il quale il docente avrebbe favorito negli studenti lo sviluppo e il pieno riconoscimento di se stessi (si pensi all’etimologia del verbo educare). Egli nutriva invece, ricambiato, una certa antipatia per il mondo accademico, come ricorderà, non senza ironia, Gaetano Salvemini in occasione del primo discorso di Croce, da ministro, a Montecitorio (6 luglio 1920) e saprà resistere alle richieste di istituire cattedre universitarie di linguistica o di stilistica, che riteneva superflue. Presentandosi alla Camera come “né pessimista né utopista” sulle condizioni e il destino della scuola in Italia, Croce rese però un sincero omaggio agli “insegnanti valorosi e coscienziosi che, quali che siano gli ostacoli dei cattivi ordinamenti, non possono non fare quotidianamente opera efficace di educazione”. Nella sua breve ma densa permanenza alla Minerva (sede, allora del ministero), che coincise fra l’altro con le celebrazioni del sesto centenario della morte di Dante, Croce dovette occuparsi di varie questioni, anche minime, ma riuscì solo a delineare risposte, avvedute, a quelle principali, che saranno poi oggetto, fra elementi di continuità e diversità di concezione dello Stato, della riforma di Giovanni Gentile (1923): la riqualificazione del sistema formativo con l’estensione dell’istruzione obbligatoria, gli esami di Stato, la cui istituzione comportava una certa integrazione delle scuole non statali nel sistema pubblico e il controllo dello svolgimento dei programmi ministeriali, il ritorno dell’insegnamento della religione cattolica nelle scuole elementari di fatto soppresso dal 1888, che però Croce, a differenza di Gentile, pensava facoltativo e affidato, per coerenza, non al maestro ma a sacerdoti. In particolare, il suo disegno di legge sull’esame di Stato, propedeutico all’ammissione dei liceali all’Università, prevedeva la presenza quali commissari di docenti esterni alla scuola. Un altro significativo disegno di legge del ministro, peraltro respinto, fu quello relativo alla riduzione delle classi aggiunte, affidate a supplenti negli istituti superiori. Il compito di Croce venne anche reso difficile, oltre che dalle ristrettezze del bilancio a disposizione, da agitazioni degli studenti universitari, da opposizioni dei docenti e da diversi scioperi del personale ministeriale con autoriduzioni arbitrarie dell’orario di lavoro, alle quali egli reagì con fermezza. Sarà Croce a stendere l’indirizzo di saluto e di ringraziamento dei ministri al presidente Giolitti. La loro avversione al governo di Benito Mussolini non fu immediata, quanto quella di altri, per la verità pochi, liberali, come Amendola, Ruffini, in parte Soleri, o l’intransigente Piero Gobetti, liberale ‘sui generis’. Se nell’atteggiamento crociano di ‘benevola attesa’ si potrebbero ipotizzare ragioni filosofiche, in Giolitti fece premio ancora una volta un certo ‘realismo’: la presa d’atto che per le pregiudiziali poste sul suo nome dai popolari e su un ingresso in coalizione dai socialisti, non era possibile, nell’ottobre 1922, dare vita a un ministero diverso. Ma pure Croce avvertiva preoccupazione per l’instabilità dei governi di fronte ad un’Italia scossa, nel primo dopoguerra, dalle offese ai reduci e dalle violenze degli opposti estremismi, nonché dai tentativi di importare anche in Italia (nel cosiddetto “biennio rosso”) la rivoluzione bolscevica che aveva da poco trionfato in Russia. Croce e Giolitti, come gran parte della classe politica di allora, e come lo stesso Sovrano, credettero che il movimento fascista avrebbe potuto essere più o meno rapidamente assorbito nell’alveo statutario. La ‘svolta’, cioè il passaggio all’opposizione avvenne, per entrambi, solo dopo il delitto Matteotti del 1924. Giolitti scorse, in quello stesso anno, il segnale della dittatura negli interventi censori sulla stampa, prodromo della legge illiberale del 31 dicembre 1925. Croce supererà ogni ambiguità di fronte al discorso mussoliniano del 3 gennaio 1925 che avrebbe sancito il passaggio dal governo al regime fascista e, con esso, la definitiva disillusione dei liberali e dei moderati italiani che non vollero esserne complici.

Gianpiero Goffi Giornalista - Cremona

sabato 19 dicembre 2020

Vittorio Emanuele III si oppone al fascismo




“La rivoluzione fascista si fermò davanti a un trono”

B. Mussolini

 


1918

L’Italia è compiuta

20 novembre 1918. Ore 14. Camera dei Deputati. Vittorio Emanuele Orlando, presidente della Camera: “Onorevoli colleghi! L’Italia è compiuta… Le nostre istituzioni, essenzialmente democratiche, consentono ogni sviluppo e ogni trasformazione. L’Italia, che si fece pari a sé stessa nella guerra, saprà sorpassare sé stessa nella pace”(1)

Riprende la vita parlamentare, ma il Direttore del Corriere della Sera, Luigi Albertini, senatore e membro del Fascio parlamentare di difesa nazionale, raggruppamento patriottico di partiti durante la guerra, il 21 novembre scrive: “I fasci devono ora rappresentare la fine dei vecchi partiti”.

1919

23 marzo. Milano, Piazza San Sepolcro 9. Mussolini convoca il Fascio Milanese di combattimento.

24 marzo. Viene organizzata l’“adunata” nella quale Mussolini getta le basi dell’attacco allo Stato liberale.

19 giugno. La Camera mette in minoranza il Governo con 259 voti contrari e 78 favorevoli. Orlando si dimette.

Il Re. Vittorio Emanuele III, incaricando Nitti, sventa il tentativo di risolvere in modo extraparlamentare la crisi di governo. Documenta Roberto Vivarelli: Sul fermo atteggiamento del Re, deciso allora a difendere i diritti del parlamento, v. sia la lettera di Colosimo a Orlando, il 9 giugno (sulla quale giustamente ha richiamato l’attenzione A.C. Jemolo, «No» di Vittorio Emanuele sulla Conciliazione nel 1919, in «La Stampa», 10 gennaio 1967), ove si legge: «Egli [il Re] ha dichiarato che bisogna difendere il parlamento, e che i propositi attribuiti a Giardino sarebbero intesi alla menomazione dei diritti e della funzione del parlamento. È pronto a prendere il fucile per difendere le prerogative parlamentari». Sia le testimonianze di Caviglia, op cit. p.64, al quale in quei mesi il Re ebbe a dire che per difendere il parlamento era disposto a «scendere in piazza col fucile in mano»; di G. Giurati, Con D’Annunzio e Millo in difesa dell’Adriatico, Firenze, Sansoni, 1954, p. 3, che invano nei giorni della crisi tentò di farsi ricevere dal Re per combattere la candidatura di Nitti”.(2) (Vivarelli, nota 19, p.497)

9 agosto. Nitti propone il sistema elettorale proporzionale. La Camera approva: 231 favorevoli, 83 contrari; Senato: 70 sì, 9 no.(3) (G. Candeloro, p. 284)

Fine del clientelismo.

9 ottobre. Firenze. Primo Congresso nazionale fascista.

16 novembre. Elezioni politiche. La lista fascista totalizza 4.064 voti. Nessun eletto, nemmeno Mussolini. (Storia del Fascismo, pag. 94)

 

 

 

Il parlamento presidio di ogni libertà

1 dicembre 1919. Discorso della Corona Il Re chiude l’anno traendo, dagli avvenimenti, una sintesi della vita sociale dell’immediato dopoguerra. Questi i passaggi più significativi: “La XXV Legislatura ha dinanzi a sé un vasto compito, quale forse niuna altra ebbe fino ad ora. Il Parlamento, presidio di ogni libertà, difesa e garanzia di tutte le istituzioni democratiche, deve essere oggi più che mai circondato dalla fiducia del Paese. Espressione libera di volontà popolare, nell’arduo lavoro cui si accinge, il Parlamento deve mantenere le sue alte e nobili tradizioni e contare sulla simpatia di tutta la Nazione, sulla collaborazione di tutte le energie popolari …. Il nostro Paese raggiunge con la guerra quei confini che la natura gli diede. … Politica estera e politica interna non furono mai sino ad oggi in così stretta connessione: l’Italia desidera considerare con la più viva simpatia l’ascensione delle classi popolari. Mentre questo movimento dovrà determinare all’interno un intenso programma di produzione e di lavoro e un senso più profondo di cooperazione sociale, dovrà determinare all’estero un’azione sempre più democratica di cooperazione fra i popoli. …”. (4)

1920 Anno degli scioperi

Rincrudisce la crisi economica, si moltiplicano i tumulti per il pane.

11 maggio. Nitti è battuto. Posta nuovamente la fiducia, ottiene 193 voti contrari e 112 favorevoli. Presenta al Re le dimissioni. (G. Candeloro, p. 314)

13 maggio, giovedì. Colloquio informale tra Vittorio Emanuele III e Filippo Meda, cospicuo esponente del Partito Popolare Italiano.

14 maggio, venerdì, ore 9,30. Il primo rifiuto. Il Re non perde la speranza e, questa volta, in maniera netta, invita Filippo Meda a costituire il nuovo ministero. Scrive Meda in un appunto: “Colloquio di venti minuti, molto cordiale. Il Re mi disse che poiché quasi tutti i consultati gli hanno espresso l’avviso che la crisi, essendo stata determinata dal gruppo popolare, a questo doveva spettare la precedenza nel risolverla, egli mi offriva l’incarico di comporre il Gabinetto … Risposi che … a parte l’esattezza del giudizio sulle responsabilità del PPI nella crisi, questo non credeva di dover accettare di comporre un governo con a capo uno dei suoi …”(5) (De Rosa, vol. II, p. 98) Non basta. Dopo il primo colloquio con il Re, Meda aveva scritto alla moglie: “Io non accetterò. Ho delle buone ragioni. E cioè: io non ho voluto la crisi (e non votai infatti) io sono ancora iscritto al Partito popolare italiano, e questo ha deciso di non assumere il governo, ma soltanto di collaborarvi …” (De Rosa, cit. p. 99)

21 maggio. Il Re incarica Nitti per la terza volta.

9 giugno. Nitti ritira il decreto che cancella il prezzo politico del pane e si dimette. 11 giugno. Quinto governo Giolitti.

15 giugno. Il nuovo governo entra in carica.

9 luglio. Giolitti ottiene la fiducia: Camera 265 sì, 146 no; Senato 169 sì, ovvero unanimità. (G. Candeloro, cit. pag. 323) 1921 I Congressi 15 gennaio 1921. Livorno, Teatro Goldoni. Congresso del Partito Socialista Italiano. È il più importante dei congressi, ne nasce il Partito Comunista d’Italia, sezione dell’Internazionale comunista.

Monarchia o Repubblica?

7 aprile. Giolitti scioglie la Camera.

15 maggio. Elezioni politiche. Viene eletto Mussolini con altri 34 esponenti fascisti.

 21 maggio. Il Giornale d’Italia, prima pagina. Mussolini dichiara: «Il Fascismo non ha pregiudiziali monarchiche o repubblicane ma è tendenzialmente repubblicano, in ciò differendosi nettamente dai nazionalisti che sono pregiudizialmente e semplicemente monarchici. Il gruppo fascista si asterrà ufficialmente dal prendere parte alla seduta reale [n.d.r. seduta inaugurale della legislatura dell’11 giugno, con un discorso del Re]». (6) (G.A. Chiurco, p. 299) Chiurco è il più attendibile storico di parte fascista.

 

11 GIUGNO 1921 SEDUTA REALE

Discorso della Corona Secondo la prassi costituzionale, il Re inaugura la nuova legislatura con un discorso che sintetizza la vita della Nazione. Punto nodale: “… perché quest’opera di riassestamento proceda nella concordia delle classi sociali, occorrerà che il Parlamento rivolga l’attività propria all’ordinato ascendere delle classi lavoratrici così delle officine come dei campi. Non vi può essere democrazia nello Stato se non vi è altrettanta democrazia nella vita economica del Paese. Sarà vanto di questa Assemblea, che trae la sua origine e la sua autorità dal suffragio universale, rafforzare gli istituti cooperativi per suscitare nuove forme di lavoro associato, consentire alle classi operaie di abilitarsi gradualmente al difficile governo dell’attività economica, rinsaldare il sentimento della previdenza e gli enti che la amministrano, disciplinare le rappresentanze delle classi per chiamarle ad indicare la soluzione dei grandi problemi del lavoro, e tutto ciò con uno spirito di perfetta uguaglianza rispetto a tutte le organizzazioni e a tutte le loro tendenze. L’ingresso di nuovi elementi nella vita politica ed economica della Nazione non può scompagnarsi da una più diffusa e più alta coltura. L’educazione intellettuale e morale del popolo è la virtù che preserva le democrazie dal cadere negli errori delle demagogie. Giova quindi che la scuola abbia le cure assidue, armoniose, infaticabili del Governo e del Parlamento, e giova altresì che, in questo campo della coltura, lo Stato, pur con le cautele necessarie, consenta la maggiore libertà a tutte le iniziative volonterose interpreti di tutte le correnti della coscienza nazionale…”(7)

27 giugno. Il quinto governo Giolitti cade. Aveva chiesto i pieni poteri per riformare la burocrazia. 30 giugno. Il governo Giolitti si dimette. 1 luglio. Il governo tiene la sua ultima seduta.(8) Durata della seduta 15 minuti. (Giolitti, Memorie …, p. 615) Vittorio Emanuele III Il governo Bonomi. Chi dopo Giolitti? Secondo Vittorio Emanuele III, Giolitti stesso, ma questi rifiuta. È il secondo dei gran rifiuti che condurranno Mussolini al governo. Giolitti consiglia al Re due nomi; Enrico De Nicola, appena rieletto Presidente della Camera con 348 voti su 479 e Ivanoe Bonomi, Ministro della Guerra con Nitti e del Tesoro con Giolitti, interventista democratico nella Grande Guerra. (G. Candeloro, cit. p. 371) 4 luglio. Il Sovrano incarica Bonomi, che accetta.

20-25 ottobre. Venezia. Terzo congresso del Partito Popolare Italiano.

7-11 novembre. Roma. Teatro Augusteo, Terzo congresso del Movimento Fascista. 9 novembre. Per votazione, a maggioranza, il movimento diventa il Partito Nazionale Fascista. Ancora Monarchia o Repubblica. Nel suo discorso Mussolini, dichiara: “Oggi un movimento repubblicano sarebbe destinato a un insuccesso” (Mussolini, Scritti e discorsi, pag. 203) 1922 Mussolini: “Il Monarca non aveva simpatia per noi”(9) La crisi del governo Bonomi scaturisce da interessi economici e finanziari. La liquidazione della Banca Italiana di Sconto - B.I.S. scontentò tutti: nazionalisti, parte della Destra e democratici. (Per la B.I.S cfr. anche De Rosa, p. 189-190. Per la scomparsa del Pontefice vedi Storia del Fascismo, p. 194)(10) La lunga e non ponderata crisi extraparlamentare.

1 febbraio. Sessanta deputati democratici, su 150, indicono un’assemblea, si riuniscono e votano la sfiducia al Governo: 55 sì, 3 contrari e 2 astenuti. Bonomi potrebbe non dimettersi perché la sfiducia non è del Parlamento, ma l’affare interno di una parte politica; vale a dire un semplice parere. (G. Candeloro, cit. p. 384) Bonomi però non aveva margini di manovra per ricostruire una maggioranza: non sul P.S.I., non sul poco convinto appoggio dei giolittiani, non sul P.P.I., che aveva deciso, nel recente congresso, di Venezia di non entrare al Governo con la Destra. (cfr. De Rosa, cit. p. 187 e segg.)

2 febbraio. Bonomi si dimette. Ecco il tormentato evolversi della crisi. Nuovi rifiuti al Re: reiterati e irresponsabili I fatti Il Re incarica De Nicola. Il gruppo parlamentare della Democrazia rifiuta di sostenere De Nicola, per non approvare il disegno di legge Corbino, (De Rosa, p. 198) che accoglieva la proposta del P.P.I. di istituire commissioni d’esame statali anche negli Istituti privati, nella quasi totalità cattolici, allora come oggi. Non solo, ma i Democratici non vollero che i Popolari mantenessero uno o due dei ministeri: Giustizia, Agricoltura, Lavori Pubblici, Istruzione. (*cfr. anche Corriere della Sera, 8 febbraio 1922; cit. in De Rosa, p. 198) Il Re incarica Orlando. Questi pretende mano libera nella scelta dei ministri sul programma e sull’inclusione dei fascisti in un nuovo Ministero di coalizione. Assurdo.

5-17 febbraio. Il Re invita Bonomi a sollecitare la Camera ad un confronto. Dopo tre giorni di dibattito la sfiducia è confermata: 127 sì, nittiani, popolari e socialriformisti; 295 no, vale a dire tutti gli altri gruppi. (* G. Candeloro, cit. p. 387 e De Rosa, cit. p. 199) Il Re chiama Giolitti. Questi propone a Orlando e De Nicola di formare un Ministero, una specie di triumvirato, del quale Egli sarebbe il primus inter partes. Rifiutano. I Popolari contrari. Stando all’interpretazione dello storico G. Candeloro, l’eventuale governo, secondo Giolitti, avrebbe dovuto sciogliere le Camere e tornare al voto con il sistema uninominale, invece di quello proporzionale, approvato nel 1919 da una Camera “in prorogatio” e che quindi non aveva il potere di cambiare la legge elettorale. (G. Candeloro, p. 387. Questa notizia è data anche da Marcello Soleri, Memorie, Einaudi, Torino 1949, p. 129, Nota 47. p. 487) De Nicola e Orlando tentano una seconda volta, ma falliscono anche questa volta per l’opposizione dei giolittiani. Un dispetto? (* De Rosa, p. 199; G. Candeloro, p. 388) Il Re chiama Filippo Meda. Questi rifiuta. “… Perché non volle formare un governo che avrebbe assunto un carattere spiccatamente antigiolittiano: l’autorevole popolare lombardo non condivideva infatti l’ostilità per Giolitti di Sturzo e di altri uomini del suo partito”. (G. Candeloro, p. 387) 25 febbraio. Il Re incarica Luigi Facta, giolittiano di poca fama e minore autonomia. Questi accetta per l’accordo raggiunto tra popolari e democratici. Sturzo rimane contrario. (G. Candeloro, p. 388). Scrive De Rosa: “Certo la peggiore situazione – scrisse Sturzo – fu quella di Facta, imposta dal rifiuto di De Nicola e di Orlando, e caldeggiata come ripiego dai giolittiani, e accettata per stanchezza da Cavazzoni e De Gasperi, pur con il dissenso di altri dirigenti del partito, che anche questa volta (e forse fu un errore) non vollero aprire il conflitto tra gruppo parlamentare e direzione del partito”. (* De Rosa, p. 200 e Nota n. 20, Luigi Sturzo, Popolarismo e Fascismo, p. 50-51) Penetrante Missiroli su ciò che aveva preceduto l’incarico a Facta: “Indubbiamente l’on. Giolitti non poteva in alcun modo contare su di una maggioranza parlamentare … L’incarico all’on. Facta, luogotenente di Giolitti, fu un accorto ripiego, che valse a rimpicciolire al minimo la vera portata della lotta, a ricondurla in fretta e furia ai suoi termini incidentali: al duello tra Giolitti e don Sturzo. Il quale, tenuti fermi i suoi tre punti, indicò tre ministri giolittiani: Fu ironico e cavalleresco …” (Missiroli, La disfatta di Giolitti, Articolo del 28 febbraio 1922, in Una battaglia perduta, Ed. Corbaccio della Società Editrice Dall’Oglio & Banfo, Milano 1924, pp. 233-234) Mussolini: “La rivoluzione fascista si fermò davanti a un trono” (* B. Mussolini, Il tempo del bastone e della carota-Storia di un anno, ottobre ’42-settembre ’43, Suppl. del Corriere della Sera n. 190, del 9-8-1944- XXII. p. 42) Facta inizia subito le consultazioni. Durano quasi un mese. Nella rabberciata situazione politica furono determinanti i rancori e le gelosie tra uomini politici, che, pur di gran nome, dimostrarono grettezza politica.

18 marzo. Il Presidente incaricato presenta alla Camera il nuovo governo. La Camera approva: 275 favorevoli e 89 contrari, comunisti e socialisti: favorevoli anche i fascisti. Tra i ministri lo stesso Facta (presidenza e interno); Carlo Schanzer (esteri); Giovanni Amendola (colonie) …” (G. Candeloro, p. 389)

 

Il Re aveva visto lontano.

Il Sovrano non solo aveva difeso le prerogative del Parlamento, ma presenta l’Italia con un governo legittimo alla Conferenza Internazionale della Pace: Genova, 10 aprile -18 maggio. Considerazione. Mussolini ha capito: i veti incrociati, le gelosie, le meschinità, le clientele che paralizzano il Parlamento gli apriranno la strada del potere. Infatti, già durante l‘estremo tentativo di Bonomi, ovvero del Re, di formare un nuovo governo Mussolini aveva minacciato: “Combinate o non combinate il Ministero, fatelo o non fatelo di sinistra; questo, però, sia chiaro, ad evitare un pericoloso salto nel buio: che non si va contro il fascismo e che non si schiaccia il fascismo”. (cfr. De Rosa, cit. p. 199) Vale a dire: inscenate il vostro teatrino, io punto sull’azione, sulla violenza. I maggiorenti della politica finsero di non capire. L’ostacolo vero da rimuovere è uno solo: il Re, ovvero la Monarchia. Infatti, anni dopo, Mussolini scriverà amaramente: “La rivoluzione fascista si fermò davanti a un trono”. Solo nella Corona il popolo si riconosceva. Vittorio Emanuele III in silenzio aveva impresso alla crisi la linea che l’avrebbe risolta. Tumulti: scioperi e crumiri. Mentre a Palazzo si perdevano quasi due mesi preziosi, nel Paese riprendevano i conflitti. Piero Gobetti

28 maggio. GOBETTI, uomo liberale e libero “Io non riesco ad immaginarmi Mussolini altrimenti che sotto le spoglie del più audace e torbido condottiero di compagnie di ventura; o talora meglio come il capo primitivo di una selvaggia banda posseduta da un dogmatico terrore che non consente riflessioni. La sua più caratteristica figura si riassume in un anacronismo. Gli manca il senso squisitamente moderno dell’ironia, non arriva alla comprensione della storia se non per miti, gli sfugge la finezza critica dell’attività creativa che è dote centrale del grande politico”.(11) (P. Gobetti, p. 56)

Luglio-Agosto. L’ultimo sciopero. I Capi socialisti di maggior spicco come Turati, Treves, Nenni e Modigliani non tendevano alla rivoluzione, ma al riformismo. I bolscevichi assesteranno un forte colpo al moderatismo. Risultato: la paralisi del movimento socialista e le incertezze del P.S.I. alla Camera. Chabod: “Così agendo non si fa una vera rivoluzione e, al tempo stesso non si va al governo. I socialisti non si risolvono a conquistare il potere con la forza e non vogliono nemmeno dividerlo con i «borghesi»”. (F. Chabod, cit. p.47-48) 2 agosto. Mussolini scrive su Il Popolo d’Italia: “… È bestiale. È cretino. È idiota, superlativamente idiota. Lo sciopero odierno non ha senso …” (in Storia del Fascismo, cit. p. 201)

3 agosto. Milano. I fascisti occupano il Municipio.

4 agosto. È data alle fiamme la sede de l’Avanti! (su entrambi i gravi fatti si leggano, in Storia del Fascismo, cit., Chiurco, pag 206; Nenni, p 210) Facta inetto 19 luglio. Il deputato del P.P.I., Longinotti, presenta la mozione di sfiducia al Governo. La Camera approva: 288 sì: popolari, socialisti, comunisti, repubblicani, nittiani, demoliberali, demosocialisti e fascisti; 103 no: nazionalisti, liberali di destra, agrari e giolittiani.(G. Candeloro, p. 392)

Lo stesso giorno Mussolini pronuncia un significativo discorso:“… In questa Camera di equivoci, a mio avviso ce ne sono quattro: l’equivoco collaborazionista, l’equivoco popolare, l’equivoco Facta e l’equivoco fascista … Io scommetto che il primo ad essere sorpreso di diventare Presidente del Consiglio, siete stato precisamente voi”. [Rivolto a Facta] Avviandosi alla conclusione afferma: “Ma, se per avventura, da questa crisi che è ormai in atto, dovesse uscire un Governo di violenta reazione antifascista, prendete atto onorevoli colleghi, che noi reagiremo con la massima energia e con la massima inflessibilità. Noi alla reazione risponderemo insorgendo”. (Mussolini, Scritti e Discorsi …, pp. 300- 304)

20 luglio. Facta si dimette. Finisce così il primo esperimento Facta. Vittorio Emanuele III incarica Orlando, che accetta. Propone un Ministero di unità nazionale, dalle destre ai socialisti; favorevole Mussolini, ma il P.P.I. rifiuta di governare con le ali estreme del Parlamento. Orlando ritenta: un governo dai social riformisti ai liberali di Salandra: costoro rifiutano “per non separarsi dai fascisti”. (Catalano p. 394), mentre don Sturzo respinge la Destra. Irresponsabili. 24 luglio. Orlando rinuncia.

24 luglio. Il Re non si rassegna. Su indicazione di Orlando, richiama Bonomi che tenta un governo di centrosinistra con Turati favorevole, ma non riesce, complice anche Giolitti. Le resistenze ossificate dei socialisti alla collaborazione con i moderati, erano ancora troppo forti ed andavano in direzione opposta a quella del Re.

Il Re 25 luglio, sera. A nome del Re, il Prefetto di Milano invita l’on. Filippo Meda al Quirinale. Il Sovrano non si arrende nemmeno a quest’ultimo insuccesso, pur di non sciogliere le Camere.

26 luglio. Giolitti da Vichy. Fa pubblicare al quotidiano La Tribuna, diretto da Olindo Malagodi, una lettera nella quale afferma tra l’altro: “Stamane Facta e Soleri mi annunziarono per telegrafo le dimissioni del Ministero, chiedendomi se venivo a Roma. Ho risposto di no …” (G. Candeloro, op cit. p. 394)

27 luglio. Il Re riceve Meda: gli propone di formare il Ministero. Così lo stesso Uomo politico descrive l’incontro ed il proprio rifiuto: “Il re, molto cordiale mi dice che egli avrebbe dovuto chiamarmi per il primo, come esponente del numero più numeroso costituzionale. Ma ebbe la designazione di Orlando, unanime. Poi, Orlando, rinunciando, designò Bonomi. Ora si rivolge a me offrendomi l’incarico. Risposta: cha a prescindere dalle ragioni politiche, esiste per me la pregiudiziale di non assumere pubblici uffici incompatibili con l’esercizio della professione. Il re disse non solo di capirla e di apprezzarla, ma di considerarla onorifica per me. Poi la conversazione si è svolta cordialmente sulla situazione sugli uomini, sui gruppi: ho trovato il re consenziente su tutti i punti toccati, compresa la collaborazione socialista e sul carattere personalistico e localistico della deputazione dei gruppi meridionali, che sono il vero ostacolo al funzionamento del regime parlamentare. Dissi che, se non ci fosse stata ostilità fascista, crederei l’ora di Nitti. Espressi il voto che si incarichi De Nava e l’augurio che riesca. Il re dichiarò di essere lieto che il nome fosse indicato anche da me”. (De Rosa, cit. pp. 266-267) Questa iniziativa del Sovrano è di grande rilevanza politica, perché smentisce ogni supposta chiusura del Capo dello Stato verso le forze cattoliche, peraltro osteggiate miopemente ed egoisticamente da Giolitti. A questo passo del Re gli storici non danno risalto: Meda rifiuta, adducendo motivi professionali; ma suggerisce De Nava, capo della Democrazia liberale, sonniniano.

27-28 luglio. De Nava riesce a convincere i popolari a votare – pur a malincuore – un governo di destra, aspramente giudicato da De Gasperi. (De Rosa, p. 267-268 e Nota 56) A questo punto De Nava corre a Fiuggi e chiede aiuto ad Orlando, che torna a Roma per tentare egli stesso di ricostituire il Governo. Turati al Quirinale 29 luglio. Colpo di scena. Il Re riceve Turati al Quirinale; è la decisione del Re più dirompente della chiamata di Meda. Spiazza tutti. Il Re offre ai socialisti, su un piatto d’argento, l’irripetibile occasione di isolare i fascisti e Mussolini: il pregiudizio ideologico vince ancora. Nuovo rifiuto. (cfr. G. Candeloro, pp. 395-397)

Domenica 30 luglio. Sera. Vittorio Emanuele risolve: reincarica Facta su consiglio di De Nicola. (G. Candeloro, p. 395) Il Sovrano rompe gli indugi: il Paese non può più aspettare i veri e propri comodi dei politici. (De Rosa p. 274) 31 luglio. Facta accetta e inizia le consultazioni; opera questo rimpasto: Taddei è Ministro degli Interni, al posto di Facta che conserva solo la Presidenza, Giuseppe Paratore al Tesoro al posto di Peano, Marcello Soleri alla Guerra al posto di Lanza di Scalea, Giulio Alessio alla Giustizia al posto di Luigi Rossi, Vito Luciani alle Terre Liberate al posto di Maggiorino Ferraris; lasciò tutti gli altri ministri ai loro posti. (cfr. G. Candeloro, p. 395-396) La Camera approva e chiude per le ferie estive. Quale presidio delle libertà non riaprirà più; ne diventerà il simulacro. Mario Missiroli coglie le potenzialità del gesto reale: “Meglio tardi che mai. Con l’andata di Turati al Quirinale e con la votazione dell’ordine del giorno Modigliani il partito socialista entra definitivamente nella legalità e assume i caratteri di un vero e proprio partito di governo. … Che cosa avranno detto il Re e Turati? Da Turati, che ho incontrato mentre usciva dal Quirinale, non ho potuto sapere nulla; ma so che il Sovrano, poche ore dopo il colloquio, si è espresso in termini molto cordiali con chi gli chiedeva le sue impressioni su il leader socialista: «Che galantuomo! Finalmente un uomo che, quando parla guarda negli occhi!» In realtà Turati ha fatto sempre una politica monarchica e il Re una politica riformista. Perché non avrebbero dovuto capirsi? Io immagino che la novità fu nel vedersi, non nel parlarsi”.(12) (M. Missiroli, cit. pp.285-291)) “San Giolitti” venerato da Turati e da Bissolati, in una caricatura apparsa nel 1911 sul “Due di coppe”. Anche De Rosa riconosce la grande importanza della decisione del Re: “Il re non attese nemmeno che Orlando terminasse il suo mandato, che sperimentasse tutte le vie per formare il Ministero di pacificazione.

Il 30 luglio chiamò l’on. Facta a Villa Savoia e il giorno dopo il «Nutro fiducia …, l’uomo dell’equidistanza tra aggredito e aggressore» … (De Rosa, cit. pp. 274-275) L’Alleanza del Lavoro il 29 aveva deliberato lo “sciopero legalitario” con inizio l’1 agosto, ma ‘Il Lavoro’ di Genova, forse per errore ne diede notizia il 30 luglio. (G. Candeloro, p. 395) È il momento peggiore per esercitare il diritto di sciopero. 5 agosto. Genova. Scontri tra i ‘camali’ ed i fascisti al porto. 10 agosto. (* Il 9 secondo Salvatorelli e Mira, I volume, p. 227; il 10 secondo G. Candeloro, p. 399) Facta si ripresenta alla Camera. Il dibattito non è brillante. L’on. demoliberale Cocco-Ortu presenta – come prassi – l’ordine del giorno di fiducia alla Camera. È approvato.

10 agosto. Il secondo governo Facta. Nasce questo Governo nella convinzione della provvisorietà. Unico punto di riferimento sicuro è il Re, cioè la Monarchia. Mussolini sa che questo è il vero scoglio che non può superare; tenterà di aggirarlo giocando la carta del Duca d’Aosta e della Regina Madre. Infatti, come riferisce Federico Chabod, Mussolini dichiara in più occasioni: “Se il re non vuole aiutarci, continueremo benissimo senza di lui e con la monarchia; estrometteremo Vittorio Emanuele III dal Quirinale e metteremo al suo posto il duca d’Aosta”(13) (Chabod, p. 73) Fallirà. (cfr. anche Salvatorelli-Mira, p. 231) 11 agosto. Mussolini può annunciare un grande “concentramento” a Napoli. Volpe insiste: “esiste già e volteggia per l’aria una parola: «marcia su Roma»”.(14) (G.Volpe, Enciclopedia Italiana …, p. 864). Avvoltoi della democrazia. Sono gli unici? 13 agosto. La Camera chiude, non così il P.N.F. Infatti, nello stesso giorno a Milano si riunisce il Consiglio Nazionale del P.N.F. e decide di chiedere lo scioglimento della Camera. Vale la pena considerare che “Il senatore Albertini, direttore del “Corriere della Sera”, parlando in Senato il 15 agosto, si era dichiarato favorevole alla partecipazione dei fascisti al governo …” (Salvatorelli-Mira, op cit. pp. 229 e 230) Sintesi e cronaca Fallito, a luglio, il tentativo di costituire un governo antifascista (G. Candeloro, p. 396) i partiti sono confusi. 24 agosto. Si impone il problema della Monarchia. Missiroli scrive, in questa stessa data, un importante articolo cogliendo l’occasione datagli da un gruppo di ufficiali che aveva scritto una lettera al‘Giornale d’Italia’: “Noi … siamo simpatizzanti per i fascisti … [ma aggiungono] il nostro giuramento di fedeltà non può essere intaccato. Se i fascisti fossero e si mettessero contro la Corona il nostro comando sarebbe fuoco fermo …”. (Missiroli, Una battaglia perduta, pp. 307-308) Mussolini, monarchico fraudolento 20 settembre. Discorso di Udine. Mussolini gioca la carta della fedeltà alla Monarchia. Riportiamo alcuni passaggi del discorso: “… Il nostro programma è semplice: vogliamo governare l’Italia. Ci si dice: «Programmi?». Ma di programmi ce ne sono anche troppi …” (p. 315) “… Quella famosa tendenzialità repubblicana doveva essere una specie di tentativo di riparazione di molti elementi che erano venuti a noi soltanto perché avevamo vinto. Questi elementi non ci piacciono. Questa gente che segue sempre il carro del trionfatore e che è disposta a mutare bandiera se muta la fortuna, è gente che il Fascismo deve tenere in grande sospetto e sotto la più severa sorveglianza. È possibile – ecco il quesito – una profonda trasformazione del nostro regime politico senza toccare l’Istituto monarchico? È possibile, cioè, di rinnovare l’Italia non mettendo in giuoco la monarchia? … Ora io penso che si possa rinnovare profondamente il regime, lasciando da parte la istituzione monarchica. … Bisogna avere il coraggio di essere monarchici. Perché noi siamo repubblicani? In certo senso perché vediamo un monarca non sufficientemente monarca. La monarchia rappresenterebbe, dunque, la comunità storica della Nazione. Un compito bellissimo, un compito di una importanza storica incalcolabile…”.(15) (Scritti e Discorsi di Benito Mussolini, pp. 317-320) Mussolini si chiede: “Perché noi siamo repubblicani? In certo senso perché vediamo un monarca non sufficientemente monarca”. Voleva un sovrano col manganello?

Amendola 1 ottobre. Sala Consilina. Discorso. Una voce si leva chiara a difesa del Mezzogiorno, della Monarchia e della Democrazia. Dell’impegnativo discorso possiamo riportare, per brevità un passaggio: “… Ora l’anima del Mezzogiorno, che è, come dicevo, istintivamente ed entusiasticamente unitaria, si esprime attraverso un credo politico che consta di due articoli fondamentali: Monarchia e Democrazia. Monarchia: nella quale si riassume la salda tradizione statale delle terre meridionali, … Monarchia senza condizioni: … Democrazia: è cioè fede profonda ed insopprimibile nel popolo e nella sua capacità creatrice, risanatrice ed elevatrice;…”. (G. Amendola, In difesa dell’Italia liberale, Ed. speciale per il Corriere della Sera 2011, pp.51-52) 1-4 ottobre. Congresso socialista. Un’altra occasione persa. Questa volta il socialismo italiano perde l’ultima occasione per contrastare validamente il fascismo. Sintesi: il P.S.I dopo il XIX congresso di Roma si divide in due tronconi con conseguenze gravissime per lo scenario politico del momento. Nasce il Partito socialista unitario italiano (P.S.U.I.), segretario, Giacomo Matteotti. Vi aderiscono 61 deputati tra i quali Claudio Treves, dirige ‘La Giustizia’, organo del loro partito che aderì all’Unione Socialista Internazionale di Vienna. (cfr. G. Candeloro, cit. p. 401) 4 ottobre. Milano. Re troppo democratico. Ancora? Mussolini tiene un discorso al gruppo “Sciesa”, egli incalza i politici: “… Alla Nazione deve darsi lo Stato. E lo Stato non c’è. …” (Musssolini, Scritti e Discorsi, p. 329) “… I cittadini si domandano: «Quale Stato finirà per dettare la sua legge agli italiani?» Noi non abbiamo nessun dubbio a rispondere: «Lo Stato fascista!» (Mussolini, cit. p. 331) Segue l’attacco al Re: “Dal Re, troppo democratico, all’ultimo funzionario, noi abbiamo subìto le conseguenze di questa concezione falsa della vita …”. (Mussolini, cit. p. 335)

5 ottobre. Sul quotidiano La Provincia di Como. Prezzolini indica tre incognite del fascismo: – il sindacalismo, che porta un grave colpo al socialismo; – il comportamento che terrà verso la Monarchia; – quale sarà la politica estera di Mussolini. “… La seconda incognita è quella che riguarda la Monarchia. Dalla netta formula della tendenzialità repubblicana, si è passati, nel discorso di Udine di Mussolini, alla Monarchia purché fascista. Molti conservatori pensano che la Monarchia è una di quelle istituzioni che si può accettare o non accettare, ma con la quale non è possibile fare le cose a mezzo. Anche in una concezione moderna della Monarchia, essa comporta un minimo di lealismo e di misticismo monarchico, che non può andare d’accordo con un qualsiasi condizionamento, fosse anche il meglio intenzionato a favore e per il bene della Monarchia. Inoltre la richiesta di una Monarchia più monarchica, cioè più imperiosa e fastosa (niente Re in grigio verde alle cerimonie) non sembra andare troppo d’accordo con il sentimento del nostro popolo che ama la semplicità e la maniera democratica del nostro Sovrano. Non so se sia un saggio consiglio al Monarca quello di imitare un pochetto Guglielmo”. (G. Prezzolini, Sul fascismo, Pan Editrice, Milano 1976, cit. p. 39)

6 ottobre. La Confederazione (C.G.d.L.) denuncia l’alleanza con il P.S.I. (G. Candeloro, p. 401). Un regalo per Mussolini. 8-10 ottobre. Bologna. Congresso Liberale. Fallimento. 8 ottobre. Amendola scrive su Il Mondo: “… I fascisti vogliono le elezioni a dicembre. «O a dicembre le farà il Governo, o le farà il fascismo» …”. (Amendola, In difesa dell’Italia liberale, cit. pp. 60-61) Per difendersi da eventuali assalti dei rivoluzionari i delegati si riuniscono protetti dalle Camicie Nere e azzurre; i nazionalisti e, nuove di zecca, dalle Camicie Kaki. Chi sono? Più che un congresso sembra una sfilata di moda maschile. (cfr. Salvatorelli-Mira, op cit. p. 591 e Nota n. 230) Si scontrano la destra salandriana e la sinistra giolittiana. Non viene messo in votazione l’ordine del giorno dell’on. Egidio Fazio, giolittiano: «Il congresso delle forze liberali democratiche, riunito a Bologna, delibera la formazione del partito liberale democratico, intendendo con questa denominazione un partito nazionale unitario sulle linee storiche dell’idea liberale a larghe concezioni moderne, ferme restando le sane tendenze democratiche che formano la base di grande parte delle organizzazioni locali». (Salvatorelli-Mira, cit. vol. I, Nota 230, p. 591) È una tautologia, perché l’idea e il concetto di democrazia sono insiti nel liberalismo. Passa, invece, l’o.d.g. Alberto Giovannini: “Il Congresso riafferma l’unione delle forze liberali e democratiche sui principi enunciati dal proemio programmatico e dichiara costituito il partito liberale”. (Salvatorelli-Mira, Storia dell’Italia nel …, vol. I, Nota 230, p. 591) Sarà … Oltre non si va. Giolitti non partecipa e non si espone. Aspetta sornione. Lusignoli, Mussolini, Giolitti e le elezioni Il Prefetto, Senatore Lusignoli è l’emissario di Giolitti. (v. Salvatorelli-Mira, pp. 230-232). Nelle pagine da 286 a 291 il De Rosa, nella sua citata opera, raccoglie osservazioni sue proprie e la corrispondenza tra Lusignoli e Facta, nelle quali il tema dichiarato è il passaggio dal secondo ministero Facta ad un ministero Giolitti, che comprenda anche Mussolini ed alcuni ministri fascisti. Particolarmente significativa è la breve lettera che Lusignoli scrive a Camillo Corradini, fedelissimo di Giolitti, già sottosegretario agli Interni e direttore dell’Istruzione primaria e popolare nella quale si distinse per lungimiranza. 3 ottobre. Il Prefetto Lusignoli scrive Corradini, segretario di Giolitti: “Mio carissimo Corradini – egli scrive – credo bene informarti di un altro colloquio che ho avuto con l’ing. Omodeo, il quale ha anche parlato con Carnazza. L’Omodeo che è perfettamente del nostro avviso, influirà su Turati nel senso che il nuovo Ministero non potrà prescindere dai fascisti, ed i socialisti dovranno fiancheggiarlo, accentuando la loro differenza dai massimalisti. Venerdì scorso sono andato a Cavour e ho lungamente parlato con Giolitti, che senza dirmelo (naturalmente!) mi ha fatto l’impressione di essere prontissimo. Molti sono stati gli argomenti toccati, relativi ai fascisti, ed ha anche a me espresso l’opinione che tu mi manifesti”. (De Rosa, p. 286) I funamboli della politica giocano sulle teste di Facta e del Sovrano, per ritagliarsi un posto nel futuro governo, come che sia.

7 ottobre. Facta invia il seguente telegramma a Vittorio Emanuele, a Racconigi: “Consiglio Ministri durato fino a tarda ora ieri rinviato seduta stamattina. Conclusione lunga discussione fu che è da escludersi crisi extra parlamentare secondo sentimenti da me manifestati Vostra Maestà. Situazione quindi continuerà salvo vedere quali provvedimenti potranno manifestarsi opportuni. Conferito con loro eccellenze Diaz e Badoglio che assicurano che esercito malgrado innegabili simpatie verso fascisti faranno loro dovere difendere Roma. Intanto fascisti hanno rinunziato loro intenzione fare concentramento fascista Roma giorno ventidue. Per riunione Napoli giorno ventiquattro prenderemo tutte precauzioni. Come riassunto confermo che si allestisce con ogni diligenza difesa contro possibili sorprese ma parmi che situazione si presenti meno preoccupante. Ossequi devotissimi”.(16) (Giulia Albanese, La marcia su Roma, p. 77) - ACS, TUC, 1922, Partenze, 6-18 ottobre, telegramma del presidente del Consiglio a Vittorio Emanuele III, 7 ottobre 1922, h. 18. (G. Albanese, op cit., Nota n. 74, p. 234) Della Marcia su Roma: “Opera buffa” Salvemini definisce “Opera buffa” la marcia su Roma: “Non si può definire «rivoluzione», la marcia su Roma, senza assolvere dalle loro responsabilità i militari e lo stesso Re per la «mancata fedeltà» allo Statuto; conferendo a Mussolini una corona di «conquistatore rivoluzionario».”(17) (Salvemini, in Giovanni Artieri, Cronaca del Regno d’Italia, p. 283)

13-14 agosto. Milano. Comitato Centrale del P.N.F. Dalla riunione era nata l’idea di contrastare la grande manifestazione patriottica, prevista da Facta, per celebrare la Vittoria; per questo motivo il Comitato decide di anticipare l’azione. Osserva Giulia Albanese: “… Non stupisce quindi che Mussolini scegliesse di non aspettare il 4 novembre per far marciare le squadre …”. (cfr. Albanese, op cit. pp. 65-66 più Nota 29 a p. 229) 16 ottobre. Milano. [secondo Volpe il 18 ottobre, p.866 – Secondo Salvatorelli-Mira, il 16 ottobre, p. 233] Mussolini in via San Marco a Milano riunisce Balbo, Bianchi, De Bono, De Vecchi e altri, che definiscono la marcia uno strumento per costringere Facta a dimettersi. Si sceglie Perugia come sede dei Quadrunviri, prima e durante la marcia su Roma; ciò è confermato nel successivo incontro del 18 ottobre a Bordighera. (cfr. G. Candeloro, cit. p. 407) Intanto: “Consensi e invocazioni continuavano ad affluire a Giolitti, che non dimostrava impazienza ma piuttosto una certa passività e quasi noncuranza”. (* Salvatorelli-Mira, cit. p. 234) Socialisti unitari e sturziani, invitano Giolitti a Roma, ma questi non si muove da Cavour, dove festeggiava i suoi 80 anni. (vedi Salvatorelli-Mira, vol. I, pag. 234)

23 ottobre. Roma. Colloquio Salandra-Mussolini; quest’ultimo dichiarava di non voler entrare in tale governo, (cfr. G. Candeloro, cit. p. 407) 24 ottobre sera. Napoli. Sala Maddaloni. Il Consiglio Nazionale del Partito si tenne dopo una grande manifestazione e sfilata. Si decide il piano. (G. Candeloro, p. 407)

24 ottobre. Mussolini nel Discorso di Napoli ricorda che, dopo aver chiesto al Governo: “Lo scioglimento di questa Camera, la riforma elettorale, le elezioni a breve scadenza … Abbiamo chiesto precisamente il Ministero degli Esteri, quello della Guerra, quello della Marina, quello del Lavoro e quello dei Lavori Pubblici … Noi fascisti, non intendiamo andare al potere per la porta di servizio”. (Mussolini, Scritti e Discorsi … cit. pp. 342-343) Situazione: penosa e periclitante Mezzanotte tra il 26 e 27 ottobre. Il Quadrunvirato - Balbo, De Vecchi, Bianchi, De Bono - assume i pieni poteri. A Napoli Bianchi incita: “Fascisti, a Napoli piove, che ci state a fare?” (Volpe, cit. p. 866 e segg. Anche Salvatorelli-Mira riporta l’esortazione a p. 235 dell’opera citata) Ancora Volpe circa la mancata reazione del Regio Esercito: “Ma questi ordini perentori raramente ci furono. Il senso della tragedia attanagliava gli animi …”. (* Volpe, cit. p. 866) Retorica. Italo Balbo smentisce il grande successo; nel suo Diario 1922, p. 199, scrive: “Il congresso resta semideserto”. In Angelo Tasca, Nascita e avvento del fascismo, vol. II, Ed. Universale Laterza, Bari marzo 1965, p. 448-479.

25 ottobre. Tornato a Milano, Mussolini fa proporre a Facta di costituire egli stesso un nuovo Ministero; in tal caso avrebbe chiesto meno portafogli. (Salvatorelli-Mira, p. 235) Per forza! Facta non era certo un pericolo per i fascisti! 26 ottobre. Facta telegrafa al Re: “Allo scopo di non dare appiglio a qualche decisione precipitata … risposi che questa era cosa da esaminarsi insieme”. (Salvatorelli-Mira, p. 235) Il Re risponde che la proposta poteva “costituire una opportuna soluzione”. (Salvatorelli-Mira, p. 235) Il Re temporeggia. Facta non si dimette. Tuttavia, non coglie l’espediente mussoliniano, teso a logorare il Governo. Il Sovrano, la sera stessa del 26, inviò a Facta un telegramma che diceva: “Mi sembra che non convenga abbandonare il contatto con l’on. Mussolini la cui proposta può costituire una opportuna soluzione delle presenti difficoltà, poiché il solo efficace mezzo di evitare scosse pericolose è quello di associare il fascismo al governo nelle vie legali”. (G. Candeloro, cit. p. 409) C’era altro da fare?

26 ottobre. Mattina. De Vecchi e Ciano si recano da Salandra perché convinca il Re, che era a San Rossore, a premere su Facta perché si dimetta. (Salvatorelli-Mira, p. 235) Salandra precisa di “non poter comunicare in cifra col Re”, (p. 236) si reca da Facta e gli riferisce la richiesta; quest’ultimo s’impegna a chiedere al Re di tornare a Roma subito e non il 6 o 7 novembre, come previsto. Salandra, prima che con il Re, parla con Lusignoli, per i contatti con Mussolini a Milano. 26. Pomeriggio. Facta convoca i ministri e propone le dimissioni dell’intero Gabinetto; costoro prima si oppongono, proprio per resistere “alla minaccia fascista”, (G. Candeloro, cit. p. 410) ma, alla fine della discussione, i presenti: Alessi, anche a nome di Taddei, assente, Bertone, Fulci e Soleri rimettono i rispettivi portafogli: volendo, un rimpasto sarebbe possibile. 26. Sera. Soleri, Ministro della Guerra, avverte i Comandi militari di tutta Italia di stare in allerta per i ‘pieni poteri’. (G. Candeloro, cit. p. 411)

26 ottobre. La situazione generale adombra una sorta di avvicinamento tra Giolitti e Sturzo, così registrata da Nino Valeri: “Il 26 ottobre, Corradini telegrafa a Giolitti – tramite il prefetto di Torino – nell’atto di prevedere una «catastrofe irreparabile»: «Vidi ieri Senato Santucci e Vicentini. Mi affermarono necessità tu prenda immediatamente governo. Oggi stessa dichiarazione è venuto farmi Sturzo» … Sturzo si tiene costantemente fermo alla versione esposta, fin dal 1926, nel suo ricordato libro Italy and Fascismo, dove così riassumeva il senso del decisivo colloquio, avuto con Corradini, messo di Giolitti, nei primi giorni dell’ottobre 1922: – È Giolitti disposto a formare il Gabinetto con i fascisti? – io gli domandai. – Sì – egli disse. – E senza i fascisti? – Io penso che ciò sia improbabile. – E contro i fascisti? – Ah no! Ciò è impossibile. – Questa fu la sua risposta. – Allora – io conclusi – Giolitti non formerà il Ministero». (Valeri, cit. pp. 135-136) 27 ottobre. Ore 0,10. Facta telegrafa al Re: “A parer mio credo che presenza di V.M. Roma avrebbe grande pregio di tranquillizzare perché saprebbesi che qualunque possibile crisi avrebbe subito possibilità di essere avviata soluzione e questo può avvenire da un momento all’altro”. (G. Candeloro, cit. p. 410) Opportuno notare che il Presidente, nel telegramma, attenua la gravità della situazione. (cfr. G. Candeloro, p. 410) Questo comportamento fornisce al Re una visione distorta dei fatti.

Einaudi 27 ottobre. Corriere della Sera. Einaudi: La crisi aperta. Tagliente il suo giudizio sul ministero Facta: “Il ministero Facta è finito. Non vi sono le dimissioni, perché i ministri hanno creduto di salvar le apparenze limitandosi a mettere i loro portafogli a disposizione del capo del Governo e a dar così l’illusione ch’egli abbia piena libertà d’azione per la condotta da tenere; ma il Ministero è praticamente finito. Di questa obbligata libertà l’on Facta non può usare che presentando al Re le dimissioni del Ministero. …” (Corriere della Sera 1919-1943, Antologia a cura di Piero Melograni, vol. I, Ed. Cappelli, Rocca San Casciano maggio 1965, p. 152) Le colonne fasciste cominciano a dirigersi su Roma. Soleri ordina al gen. Pugliese, comandante la divisione di Roma, di fermare le colonne e i treni carichi di fascisti. Ciò avviene.: “Le ferrovie intorno a Roma vennero interrotte e le colonne avanzanti bloccate”.(18) (Domenico Bartoli, La fine della Monarchia, p. 158) Rinnovata fedeltà al Re e all’Italia. Oscillazioni Ore 19,00. Il Re arriva a Roma. (Salvatorelli-Mira, p. 238) Ore 20,00. Il Re arriva a Roma. (G. Candeloro, p. 411) Il Re alle 12,15 aveva avvertito Facta della partenza e l’aveva invitato a convocare i politici da consultare. Il Re, secondo Soleri, dichiara: “La Corona doveva poter deliberare in piena libertà, e non sotto la pressione dei moschetti fascisti”. (* M. Soleri, Memorie, p. 150 in G. Candeloro, p. 411)

27. Sera. A Villa Savoia il Re e Facta concordano la proclamazione dello stato d’assedio. (Salvatorelli-Mira, cit. p. 238) Lusignoli comunica a Facta che le trattative con Mussolini sono fallite. Non l’avevano ancora capita? Sulla questione dello stato d’assedio, dopo cento anni, non sono emersi documenti definitivi e, secondo G. Candeloro, lo stesso Facta presenta le dimissioni, forse respinte, né si decide definitivamente sullo stato d’assedio. Facta se ne va a dormire. (G. Candeloro, p. 412)

Ore 23.00. I sottosegretari Giuseppe Beneduce e Aldo Rossini lo svegliano. Hanno saputo che De Vecchi e Grandi stanno raggiungendo Perugia e da qui avrebbero guidato la marcia. (G. Candeloro, p. 412) Notte tra il 27 e il 28 ottobre. Il Re riceve Diaz a Villa Savoia per chiedere l’intervento dell’esercito. Diaz risponde: “L’esercito farà il suo dovere, ma è meglio non metterlo alla prova”. (G. Artieri, Cronaca del Regno …, cit. p. 272; cfr. anche Salvatorelli-Mira, cit. p. 593 e Nota n. 240)

28 ottobre.

Ore 5,00. Facta convoca i ministri, alla riunione partecipano Taddei, Soleri e il gen. Pugliese. Intanto, il ministro Rossi e l’on. Bevione preparano la bozza del proclama di stato d’assedio da sottoporre al Re. (G. Candeloro, p. 412)

Ore 5,30. Inizia la riunione del Consiglio dei Ministri. Rossini e l’on. Bevione predispongono la bozza del proclama di “stato d’assedio” Ore 6,00. Il Consiglio dei Ministri delibera lo stato d’assedio. (* il verbale è in Soleri e Repaci, v. nota n.74 in G. Candeloro, p. 412) Ore 7,50. Prefetti e Comandi militari sono preinformati. Ore 8,00. Facta lascia il Consiglio e va dal Re per la firma del decreto. Il Re rifiuta di firmare. (Salvatorelli-Mira, op cit. a p. 238 presenta un’oscillazione di 30 minuti) Ore 8,30. Comincia l’affissione del decreto, a Roma, firmato solo dai Ministri. E il Re?

Ore 9,00. Facta ripresenta al Re il decreto. Nuovo rifiuto. (G. Candeloro, p. 413) Il Re scongiura la guerra civile Molti autori convengono su questo: che il Re abbia evitato all’Italia spargimenti di sangue. Ad esempio, Franco Catalano scrive: “Il re rifiutò di firmare lo stato d’assedio e, certo, in quel momento, venuta a mancare ogni difesa del vecchio Stato liberale, non avrebbe potuto fare altrimenti. …”(19) (F. Catalano, L’Italia dalla dittatura alla democrazia 1919-1948, p. 79) Lo Storico, in nota n. 1 nella stessa pagina, asserisce: “… Il Federzoni ha negato questi contatti con il sovrano, ma una cosa è certa che, come risulta dall’intercettazione di una sua conversazione telefonica, egli comunicò al Mussolini, prima che il Facta avesse il colloquio in cui il re gli si mostrò di parere contrario allo stato d’assedio, che Vittorio Emanuele III non voleva «versamento di sangue»”. (F. Catalano, cit. p. 79) Il Re rifiutò di firmare perché il Ministero si era dimesso il giorno prima. “Investe Facta: «Ella che ha studiato diritto costituzionale dimentica che un governo dimissionario non ha l’autorità morale per assumere un provvedimento così grave». Il re non tiene conto che in una simile situazione sarebbe più di buon gusto non accennare al rispetto della costituzione: proprio nel momento, cioè, sta tradendo lo statuto e barattando le istituzioni con il piatto di lenticchie della supposta salvezza dinastica. Ma tant’è, Vittorio Emanuele gioca la sua carta e non ha tempo da perdere. L’ordine di stato d’assedio va revocato al più presto possibile e deve essere proprio Facta ad inghiottire il rospo. Lui può sempre dire di non averlo mai firmato”. (* Silvio Bertoldi, Vittorio Emanuele III, op cit. pp. 303-304). Libera interpretazione del giornalista? “Un atto imbecille e criminoso” “Il 26 gennaio 1941, parlando con il suo aiutante maggiore, generale Paolo Puntoni, Vittorio Emanuele confiderà: «Nei momenti difficili tutti sono capaci di criticare o di soffiare sul fuoco. Pochi o nessuno sono quelli che osano prendere decisioni nette e assumersi gravi responsabilità. Nel ’22 ho dovuto chiamare al governo quella gente perché tutti gli altri, chi in un modo chi in un altro, mi hanno abbandonato. Per 48 ore io in persona ho dovuto dare ordini direttamente al questore e al comandante del corpo d’armata, perché gli italiani non si ammazzassero tra loro». (S. Bertoldi, op cit. pp. 305 e segg. – cfr. anche Paolo Puntoni, Parla Vittorio Emanuele III, Ed. Il Mulini, Bologna 1993, p. 37) Sullo stesso punto così il Cognasso: “Il re, dopo aver chiuso anche questa crisi di governo come tante ne aveva chiuse nei vent’anni diceva al Solaro del Borgo che gli pareva di essere uscito da un lungo incubo. Con soddisfazione constatava che tutti gli uomini politici eminenti – Salandra, Orlando, Giolitti – e gli uomini migliori della nazione erano lieti. Migliaia di telegrammi da tutta l’Italia gli erano giunti per protestare la loro approvazione. «Ho molto pensato, ma anche il mio avo avrebbe fatto così. Io ho rifiutato due volte di sancire quell’atto imbecille e criminoso dello stato d’assedio, steso solo per salvare appena dieci poltrone governative». Con la soluzione Mussolini il re pensava di essere rimasto nel quadro costituzionale: niente demagogia, niente dittatura. «Ho inghiottito tutto, capisce Schanzer, in quello sciaguratissimo tempo [Nitti-Facta], sempre per non venire alla sciabola. Io per primo non ci credo: i generali sono un salto nel buio»”. (20) (Francesco Cognasso, I Savoia, Ed. Dall’Oglio,Varese 18 ottobre 1971, p. 938) Il ministro Soleri ricorda così l’episodio della revoca dello stato d’assedio: “Immediata e precisa mia impressione, dovuta anche all’imbarazzo di Facta, fu che fosse stato egli stesso a mostrarsi esitante nell’opportunità di quel provvedimento, e a sconsigliare il re dall’adottarlo; altrimenti il sovrano l’avrebbe sicuramente firmato, perché conforme alle sue disposizioni d’animo manifestate poco prima. L’on. Facta, oltre ad avere la preoccupazione di evitare un cruento conflitto armato, conservava la speranza di una soluzione di compromesso e di un rimpasto di un suo ministero coll’inclusione dei fascisti”. (Valeri, cit. p. 130) Si noti pure che lo stesso 28 ottobre Giolitti venne invitato dal Re a presentarsi a Roma, ma l’Uomo di Dronero non si mosse da Cavour; ufficialmente per “interruzione delle linee ferroviarie per Roma”. (Valeri, cit. p. 130) Telegramma del Re a Giolitti: TELEGRAMMA DI FACTA Mittente: Facta, Roma Destinatario: S. E. Cav. Giolitti, Cavour (Piemonte) Data: 28-10-1922 Testo: Sua Maestà il Re mi ha dato l’incarico di pregarti venire subito a Roma desiderando conferire. Stop Saluti Facta Ore 11,30. Facta torna dal Re e ripropone il provvedimento. Secondo rifiuto. Facta replica: “«Maestà sono d’accordo con tutti i ministri, abbiamo impartito l’ordine per la promulgazione». E il Re: «Hanno fatto molto male … Quest’approvazione non la do». Facta: «Ma come faccio a ritirare il decreto?» A questo punto, secondo Gatti, Vittorio Emanuele III non si tenne dal cedere al suo ben noto gusto dell’aneddotica: e disse al Facta: «Farà come il il segretario comunale di Monasterolo che è un paese vicino a Racconigi. Un anno, aveva ricevuto i manifesti di mobilitazione che i comuni debbono tenere in serbo nel caso di una chiamata alle armi. Per ignoranza, quando arrivarono li fece affiggere e a Monasterolo fu dichiarata la guerra. Corsero a Racconigi, al Castello, da tutte le parti; erano state chiamate dieci classi, la gente ritornando in fretta dalla campagna era tutta sconvolta. Bisognò acchiappare il segretario e obbligarlo a staccare, subito, personalmente, tutti i manifesti. Così farà lei col suo decreto» E ripose il foglio nel cassetto”,(21) (Giovanni Artieri, Cronaca del Regno d’Italia, p. 266) Anche Bertoldi riferisce lo stesso episodio a p. 304 dell’op.cit. Fonte di entrambi gli scrittori è Angelo Gatti, storico militare e accademico d’Italia. Chabod riferisce che lo stesso Facta non era troppo convinto. (v. F. Chabod, p. 71)

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28 ottobre. Mattina. Il Partito Liberale. Dobbiamo registrare con amarezza che la Segreteria politica del Partito Liberale Italiano proprio il 28 mattina si riunisce ed approva il seguente ordine del giorno:

«La Segreteria politica del Partito Liberale Italiano ricorda alle Sezioni che l’avvenuta restaurazione dello Stato e dei valori nazionali si compie col consentimento e con l’opera di quanti liberali trassero dalla degenerazione dei costumi parlamentari la volontà di un rinnovamento che restituisse la lotta politica e le istituzioni fondamentali dello Stato alle migliori tradizioni nazionali. Tale consentimento il Partito Liberale rinnova anche oggi partecipando alle celebrazioni dell’avvenimento storico della ferma fiducia che l’opera dei partiti nazionali assicurerà la maggior potenza della Patria». (Valeri, op cit. p. 178) 28 ottobre. Dimessosi Facta, Vittorio Emanuele III si consulta con Salandra per formare il Governo (G. Candeloro, p.415) e indica Orlando, ma De Vecchi propone Salandra a Mussolini, eventualmente Ministro dell’Interno, rifiuta. (G. Candeloro, p. 415) Ha capito che può spezzare la corda.

29 ottobre. Salandra la mattina cerca ancora di convincere Mussolini: ma è no. Il Re convoca Mussolini. (cfr. anche Cognasso p. 936 cap. Monarchia e demagogia) 29 ottobre. La C.G.d L. non proclama lo sciopero.

Il fatto è politicamente grave poiché conferiva una sorprendente patente di democraticità ai fascisti. Scrive G. Candeloro: “… il 29 ottobre la Confederazione aveva pubblicato un manifesto, nel quale respingeva l’invito del partito comunista a proclamare lo sciopero generale nazionale e raccomandava agli operai di mantenersi calmi senza compromettere i sindacati in azioni sollecitate dai partiti verso l’azione fascista”. (G. Candeloro, p. 415)

Altro che aperture del Re ai fascisti!

Il Direttorio del P.P.I. decide di partecipare al Governo, assente Sturzo. (De Rosa, p. 303-305) 30 mattina. Mussolini arriva a Roma. (G. Candeloro, p. 415) 30 ottobre, ore 10,30. Mussolini arriva a Roma. Al Quirinale così saluta il Re: “Chiedo perdono a Vostra Maestà se sono costretto a presentarmi ancora in camicia nera, reduce dalla battaglia, fortunatamente incruenta, che si è dovuta impegnare. Porto a Vostra Maestà l’Italia di Vittorio Veneto, e sono il fedele servo di Vostra Maestà”. Mentiva. (Salvatorelli-Mira, p. 241) (* Secondo alcuni storici questa frase non fu mai pronunciata; per es. Cognasso, cit. p. 937”Ma il re poi assicurava che non gli aveva detto nulla del genere …”)

30 ottobre, ore 12,00. Mussolini si reca dal Re e riceve l’incarico di formare il governo. Accetta e sottopone al Re la lista dei ministri che aveva in tasca.

31 ottobre. Mattina. Il Ministero Mussolini è formalmente costituito. I Ministri sono:

– cinque fascisti: Mussolini (presidenza, interno ed esteri), Alberto De Stefani (finanze), Aldo Oviglio (giustizia), Cesare Maria De Vecchi (assistenza e pensioni), Giovanni Giuriati (terre liberate);

– tre indipendenti filofascisti: Armando Diaz (guerra), Paolo Thaon di Revel (marina), Giovanni Gentile (istruzione);

– un nazionalista: Luigi Federzoni (colonie);

– due popolari: Vincenzo Tangorra (tesoro), Stefano Gavazzoni (lavoro e previdenza sociale);

– due demo sociali: Gabriele Carnazza (lavori pubblici), Giovanni Colonna di Cesarò (poste);

– un liberale di destra: Giuseppe De Capitani D’Arzago (agricoltura);

– un demo liberale: Teofilo Rossi di Montelera (industria), l’unico che conservò il suo posto tra i membri del secondo ministero Facta.

I sottosegretari furono sette fascisti, tre popolari, due demosociali, un liberale, un demo liberale, un nazionalista. (G. Candeloro, p. 416) (* per la cronaca di questa giornata si legga anche il Corriere della Sera del 31 ottobre 1922) Circa i contorcimenti dei partiti e le carriere fatte dai politici dell’epoca e durante il fascismo, nonché con l’avvento della Repubblica, si legga Ruggero Zangrandi, Il lungo viaggio attraverso il fascismo, Ed. Feltrinelli, Milano 5 aprile 1963, Appendici: 1°. Le responsabilità della classe dirigente prefascista (1919-1926), p. 315 e segg.; 2° Le responsabilità della classe dirigente italiana nel consolidamento del regime (1926-1935), pp. 347 e segg.

Sintetizza Raimondo Luraghi, su ‘La Gazzetta del Popolo’ del 2 febbraio 1964: “Tutti furono colpevoli dai partiti della destra e del centro che si illudevano di vedere il fascismo dare ‘una buona lezione’ ai socialisti ed alle classi lavoratrici; ai socialisti che pur nel momento una coalizione democratica sola avrebbe potuto salvare la libertà, insistettero nel non volere a nessun costo ‘andare al governo con i borghesi’; ai comunisti che andavano dicendo che fascismo e democrazia borghese erano ‘lo stesso’ e attaccavano i socialisti con virulenza settaria ed esagerata. (* Storia del Fascismo”, op cit. pp. 226-228)

11 novembre. Giolitti pro Mussolini. Ancora! Nell’imminenza del primo discorso di Mussolini, neo capo del Governo, Nino Valeri riferisce l’aperto sostegno di Giolitti al governo Mussolini: “L’equivoca esperienza valse solo a rinvigorire la comune illusione che il fascismo fosse un episodio nei binari costituzionali.

E fra i liberali Giolitti partecipò decisamente a questa convinzione, … L’11 novembre 1922, confermava a Carnazza che quel ministero, presieduto da Mussolini era il «solo che poteva stabilire la pace sociale». «Il Paese – scriveva a Malagodi, direttore della Tribuna – ha la necessità di un governo forte che non pensi solamente a vivacchiare e la vita politica italiana ha bisogno di sangue nuovo, di nuove forze». E anche dopo aver ascoltato il famoso discorso del 16 novembre 1922 (Potevo fare di quest’aula sorda e grigia un bivacco …») persisté nella sua linea di condotta, …”.(22) (Valeri, Da Giolitti a Mussolini, pp. 179-181) Fra i giudizi positivi sulla soluzione della crisi ministeriale spicca quello di Anna Kuliscioff: “Ciò che deve premerci come Partito e come cittadini italiani è precisamente il ritorno graduale alla vita normale cioè, l’assorbimento del fascismo nella normalità della convivenza sociale. Ora, nessuno può negare che, se vi sia, fosse pure una istantanea possibilità di poter ottenere la pacificazione, nessuno avrebbe potuta raggiungerla se non Mussolini …”(23) (F. Turati – A. Kuliscioff, Carteggio V: Dopoguerra e fascismo, p. 600)

 

Primo Governo Mussolini. Primo discorso.

Prima seduta della Camera

Giovedì 16 novembre 1922, ore 15,00.

Benito Mussolini ha fagocitato i vecchi partiti, invece di esserne inglobato. Il Neopresidente entra subito nella parte. Si presenta alla Camera: “… Ora è accaduto per la seconda volta, nel breve volgere di un decennio, che il popolo italiano – nella sua parte migliore – ha scavalcato un Ministero e si è dato un Governo al di fuori, al di sopra e contro ogni designazione del Parlamento. … Lascio ai melanconici zelatori del supercostituzionalismo, il compito di dissertare più o meno lamentosamente su ciò. Io affermo che la rivoluzione ha i suoi diritti. … Mi sono rifiutato di stravincere, e potevo stravincere. Mi sono imposto dei limiti. … Potevo fare di questa Aula sorda e grigia un bivacco di manipoli.

MODIGLIANI. Viva il Parlamento! Viva il Parlamento!

MUSSOLINI. Presidente del Consiglio dei ministri, ministro dell’interno e ad interim degli affari esteri … potevo sprangare il Parlamento e costituire un Governo esclusivamente di fascisti. Potevo, ma non ho, almeno in questo primo temo, voluto. … Chiediamo i pieni poteri perché vogliamo assumere le piene responsabilità …”(24)

Un lusso.

 

Michele D’Elia

 

Bibliografia essenziale

(1) Atti Parlamentari – Legislatura XXIV, Prima Sessione, Tornata del 20

novembre 1918, p. 17239

(2) Roberto Vivarelli, Storia delle origini del fascismo, vol. I, Ed. Il Mulino, Bologna 1991, nota 19, p. 497

(3) Giorgio Candeloro, Storia dell’Italia moderna, Ed. Feltrinelli, Milano

2016, p. 284

(4) Atti parlamentari - Inaugurazione de1la 1ª sessione della XXV Legislatura, pp. IX-XIII.

(5) Gabriele De Rosa, Il Partito Popolare Italiano, vol. II, Ed. Laterza,

Bari 1966, p. 98.

(6) Giorgio Alberto Chiurco, Storia della rivoluzione fascista, vol. 1, Ed. Il

Borghese, Milano 1972, p. 299

(7) Atti Parlamentari. Inaugurazione della 1ª sessione della XXVI Legislatura, pp. IX-XIII.

(8) Giovanni Giolitti, Memorie della mia vita, prefazione di O. Malagodi,

Ed. Garzanti, Seconda Edizione, Milano 25 maggio 1944, p. 615.

(9) Yvon De Begnac, Taccuini mussoliniani, Ed Il Mulino, Bologna 1990,

p.193.

(10) Storia del Fascismo, a cura di Enzo Biagi, vol. I, SADEA-Della Volpe

Editori, Firenze 1964, p. 194.

(11) Piero Gobetti, Uomini e idee, «La Rivoluzione Liberale» anno I, n. 15,

28 maggio 1922, p. 56, in Scritti politici, vol. I, Ed. Einaudi, Torino

1997, p. 359)

(12) Mario Missiroli, Turati al Quirinale, Articolo del 30 luglio1922, in Una

battaglia perduta, cit. pp. 285-291)

(13) Federico Chabod, L’Italia contemporanea, Ed Einaudi, Torino 9 giugno 1965, p. 73)

(14) Gioacchino Volpe, Enciclopedia Italiana di Scienze Lettere ed Arte,

Fascismo, Ed. Treves-Treccani-Tuminelli, MCMXXXII-X, Rizzoli,

Milano, p.864

(15) Scritti e Discorsi di Benito Mussolini, Edizione Definitiva II. La rivoluzione fascista, 23 marzo 1919-28 ottobre 1922, Hoepli Editore, Milano

1934-XII

(16) Giulia Albanese, La marcia su Roma, Ed. Laterza, Bari febbraio 2006,

p. 77

(17) Salvemini in Giovanni Artieri, Cronaca del Regno d’Italia, Ed. A.

Mondadori, Milano 1978, p. 283

(18) Domenico Bartoli, La fine della Monarchia, Ed. A. Mondadori, Milano

maggio 1966, p. 158)

(19) Franco Catalano, L’Italia dalla dittatura alla democrazia 1919-1948,

Lerici editori, Milano 1962, p. 79

(20) Francesco Cognasso, I Savoia, Ed. Dall’Oglio,Varese 18 ottobre 1971,

p. 938

(21) Giovanni Artieri, Cronaca del Regno d’Italia, Ed. A. Mondadori, Milano marzo 1978, p.266

(22) Nino Valeri, Da Giolitti a Mussolini, Seconda Edizione, Parenti Editore, Firenze settembre 1956,cit. pp. 179-181

(23) F. Turati-A. Kuliscioff, Carteggio V°: Dopoguerra e fascismo (1919-

1922), a cura di A. Schiavi, Torino 1953, p. 600

(24) Atti parlamentari, Camera dei Deputati, Legislatura XXVI, 1° sessione,

tornata del 16 novembre 1922, pp. 83-89 e segg.

(*) Luigi Salvatorelli-Giovanni Mira, Storia d’Italia nel periodo fascista,

2 voll., Ed. A. Mondadori, Milano, 1972