lunedì 10 aprile 2017

Mio Padre, ragazzo del 99 in guerra

Mio padre, Battista Giacomino, si trovava in Calabria per lavoro con mio nonno quando era stato convocato per la visita di leva, ed era perfin stato considerato renitente. In seguito si era presentato il 4 giugno del 1917 alla visita per delegazione a Cosenza, dove era stato dichiarato abile dal Consiglio di leva e arruolato in prima categoria.
Egli, nato il 31 maggio del 1899, aveva appena compiuto 18 anni.
Io non ho notizie sicure, ma penso sia tornato a casa sua, a Sale Castelnuovo (TO), per salutare la madre, i fratelli e le sorelle, prima d’andare al fronte, perché i soldati si radunavano a Ivrea, distretto dove giungevano i giovani da tutto il Canavese. Mio padre era stato assegnato al Quarto Reggimento Alpino, Battaglione Ivrea, il 18 giugno del 1917.
Dopo un primo addestramento per apprendere l’uso delle armi, i soldati venivano portati nel Veneto, verso il fronte in treno e continuavano l’addestramento riservato ai battaglioni per le manovre militari. L’equipaggiamento consisteva in: divisa, armi, comprese bombe a mano, baionetta, munizioni ed anche la maschera per difendersi dai gas velenosi che i nemici buttavano sui nostri campi. Gli ufficiali, usavano un protocollo rigido, cercando di preparare le truppe per poi portarle al combattimento in prima linea. Una propaganda retorica voleva che questi ragazzi, che non avevano nessuna ragione per uccidere un nemico sconosciuto, combattessero per fare più grande il nostro Paese e per un avvenire che tanti non avrebbero poi visto.
Nessuno si rendeva conto che sarebbe stata una guerra lunga, faticosa, diversa da quelle combattute fino a quel momento, che avrebbe annientato civili innocenti e portato tanti morti e feriti in tutto il mondo.
Il 16 settembre mio padre era in territorio di guerra e faceva parte del Settimo Reggimento Alpini, Battaglione Monte Pavione. In questo posto c’erano stati tanti combattimenti; egli, poi a casa, raccontava poco della guerra, ma una volta aveva parlato delle posizioni nemiche in alto, sulle montagne, con fortificazioni e mitragliatrici. Per i nostri soldati era difficile conquistarle, sotto tiro come si trovavano, arrivando dalle vallate.
Anche i nostri soldati avevano bombe a mano, ma mio padre diceva che bisognava fare molta attenzione perché se si gettavano subito, il nemico poteva nuovamente buttarle ai nostri, dato che l’esplosione tardava.
Anche con tutti questi problemi e gli attacchi pesanti, un giorno, i nostri alpini erano riusciti a conquistare una collina vicino al Monte Grappa. Il loro capitano aveva avuto parole di lode e voleva proporli per la medaglia d’oro, per questo aveva scritto tutti i nomi dei valorosi, per poterli poi premiare. Ma una bomba era arrivata vicino a loro e lo scoppio aveva ucciso il capitano facendo perdere il suo corpo e così non era stato possibile, per quei valorosi, alcun premio; fra quei ragazzi coraggiosi c’era anche mio padre.
Penso che questo episodio sia avvenuto l’11 dicembre del 1917, perché in quella data c’era stato un lungo combattimento ed il suo capitano era morto.
Il fronte della guerra, dopo Caporetto, si era spostato dall’Isonzo alla linea del Piave e sul Grappa, i giovani combattevano con coraggio, tanto da meritare l’elogio del nemico che aveva riconosciuto l’ardimento dei soldati italiani.
Le battaglie erano tante e il 13 dicembre un’altra, molto sanguinosa; gli alpini erano andati all’assalto di corsa, e anche mio padre era corso incontro al nemico, senza sapere che da allora non avrebbe mai più potuto correre, dato che in questo combattimento era stato ferito da una bomba al ginocchio sinistro e al costato.
Senza potersi muovere aveva dovuto nascondersi in mezzo ai morti, con i tedeschi che passavano e finivano con un colpo di baionetta o con le mazze i feriti che erano a terra.
Era riuscito a salvarsi, ma era passato tanto tempo prima che qualcuno l’avesse poi soccorso e, caricato su un mulo, portato fino all’ospedale da campo di Crespano.
Lì era stato medicato, ma l’infezione al ginocchio aveva compromesso l’articolazione che era rimasta offesa e inservibile.
Il 9 gennaio del 1918 era stato trasferito all’ospedale militare di Pavia.
L’8 agosto era stato mandato in licenza straordinaria, così era tornato a casa vivo, ma a 19 anni mutilato e senza lavoro, primo di cinque figli, in un paese di montagna dove il mestiere del contadino comportava
tante fatiche e pochi denari perfino a chi era sano, figuriamoci a lui che aveva problemi nei movimenti e
ferite che l’hanno fatto soffrire per tutta la vita!
Mio padre aveva avuto qualche decorazione: la croce al merito di guerra, la medaglia in ricordo della guerra 1915-18 e la medaglia degli alleati.
A casa non si parlava della Prima guerra mondiale che aveva combattuto, egli diceva: “È qualcosa che non si può raccontare!..”. E non poteva guardare i film sulla guerra: “Non sanno ciò che vuol dire essere in guerra!”.
In effetti i governanti avevano portato in rovina un Paese causando povertà e lutti in tante famiglie.
Mio padre, Ragazzo del ‘99, in guerra

Rita Giacomino, Torino

lunedì 3 aprile 2017

Quando la guerra si fa più cinica e spietata

C’è chi può credere che la prima guerra mondiale differisse in modo meno peggiore dalla seconda. Si pensa che dal 1914 gli eserciti si combattessero con un senso più marcato dell’onore e con un rispetto maggiore del nemico. Ciò in quanto tra gli antagonisti non vi erano ancora i nazionalsocialisti e i bolscevichi sovietici.
Certamente le due dittature recitarono ruoli che arrivavano dalla follia delle rispettive ideologie e dall’umore dei capi che detenevano le leve del comando.
Non per nulla la seconda guerra mondiale nasce dalla reazione dell’Inghilterra e della Francia contro la Germania, nonostante l’accordo di questa con l’Unione Sovietica per invadere e spartirsi la Polonia.
Evidentemente inglesi e francesi ritennero eccessivo il loro sforzo bellico qualora diretto anche contro il colosso russo e malgrado i due invasori apparissero gareggiare su chi commetteva i delitti e i genocidi più infami.
Ma torniamo alla prima guerra mondiale e, senza soffermarci sull’uso dei gas asfissianti, apprendiamo che il padre di Rita Giacomino, vedi la testimonianza che segue, Battista, ferito nell’assalto degli alpini il 19 dicembre 1917, era rimasto ben immobile in mezzo ai morti perché i tedeschi, ritenendolo vivo, non lo finissero con le baionette o a colpi di mazza.
Battista poi, rimasto invalido al ginocchio, a casa non raccontava mai di quei momenti terribili e neppure assisteva ai film di guerra, sostenendo che chiunque
non vi avesse partecipato non avrebbe potuto capire tanta tragedia.
Per fortuna non sempre è stato così e nostro padre avviatosi nel giugno del 1940, nei primi giorni di partecipazione al conflitto dell’Italia, alla ricerca sul fronte occidentale di soldati della sua compagnia, non rientrati, ferito dal fuoco francese, era stato soccorso dal nemico e, trasportato in un loro ospedale, operato, salvato e in seguito trasferito all’ospedale militare di Torino. Pure lui entrava a far parte della schiera degli invalidi, ma non ci avrebbe quasi mai parlato neanche della prima guerra mondiale, alla quale aveva preso parte da giovanissimo.
La guerra rimane in ogni caso un evento orribile e da noi, in famiglia, si è sempre condivisa la tesi giolittiana di un tentativo ostinato di accordo con l’Austria sulle terre irredente, che ci avrebbe evitato quella che la saggezza di Benedetto XV definì un’«inutile strage».

Vincenzo Pich
Unione delle Ass.ni piemontesi nel mondo, Torino