Aspre sono le
guerre. Aspra è la Prima Guerra Mondiale. Questa nasce da un groviglio di
interessi economici e coloniali, di errori diplomatici e di egoismi politici, di
pesi e contrappesi nazionali ed internazionali e di guerre locali. Concetti dei
quali non aveva idea Gravilo Princip, assassino per caso di Francesco
Ferdinando e della sua consorte Sofia Chotek il 28 giugno 1914, dopo il fallito
primo tentativo nella stessa mattinata. L’Attentatore pensava che la morte
dell’Arciduca, peraltro aperto alle richieste degli slavi, avrebbe liberato la
Serbia e gli slavi meridionali dal dominio austriaco. Ne nacque, invece, un
infernale domino, con la seguente scansione temporale:
23 luglio,
ultimatum dell’Austria alla Serbia; 28 luglio, l’Austria dichiara guerra alla
Serbia;
30 luglio, lo
zar Nicola II, protettore degli slavi meridionali, ordina la mobilitazione
generale;
31, Guglielmo II
intima alla Russia e alla Francia di
interrompere la mobilitazione entro12 ore; 1 agosto, dichiara guerra alla
Russia e il 2 invade il Lussemburgo; il 3 dichiara guerra alla Francia; nella notte tra
il 3e il 4 invade il Belgio, il 7 i
tedeschi entrano a Liegi.
Lo stesso 3
agosto, l’Italia dichiara la propria neutralità, in forza dell’art. VII del Trattato
della Triplice Alleanza. 4 agosto, l’Inghilterra dichiara guerra alla Germania;
il 6 anche l’Austria dichiara guerra alla Russia; il 9 e il 13 rispettivamente Francia e Regno Unito
dichiarano guerra all’Impero austro-ungarico. Il 27, il Giappone interviene a
fianco dell’Intesa; il 5 ottobre, la Bulgaria dichiara la propria alleanza con
gli Imperi Centrali; il 31, la Turchia si schiera con l’Austria e la Germania.
Secondo una tesi
propria anche di personalità come il
Premio Nobel Thomas Mann, la Germania aggredisce per non essere
aggredita, come Federico II ai tempi della Grande Coalizione.
L’esercito
tedesco il 20 agosto occupa Bruxelles, il 3 settembre giunge Senlis a 35 Km da
Parigi. Il Governo francese si era già trasferito a Bordeaux.
Anche questa sconosciuta
velocità delle armate tedesche prelude e
simboleggia le profonde trasformazioni
dell’assetto tecnico, geopolitico, sociale ed economico, e soprattutto
mentale, del vecchio continente e delle sue colonie. Infatti, la Grande Guerra sarà anche un conflitto
coloniale; o, secondo Lenin, l’ultima frontiera del capitalismo.
Per tutti i Paesi
europei la dichiarazione di guerra è quasi un automatismo; non così per
l’Italia.
Il giovane Regno, vincolato agli Imperi Centrali
dall’Alleanza firmata nel 1882 e confermata
nel 1902, dovrebbe intervenire, ma non lo fa; motivo ufficiale: il patto è
difensivo e non offensivo.
Nei fatti le
cose stanno diversamente: l’Italia è un Paese di recente costruzione, ancora
geograficamente incompleto, perché privo di alcune sue vaste regioni, sintetizzate,
nella memoria collettiva, nei nomi di Trento e Trieste, perle dell’Impero. Le
popolazioni della Penisola non sono amalgamate; milioni di cittadini,
nonostante l’impegno della Monarchia, non sanno
nemmeno leggere e scrivere. Gli italiani sono cattolici e rifiutano lo
spargimento di sangue, anche se tra i cattolici emergono frange interventiste,
che fanno capo a don Romolo Murri. La diplomazia è delusa dall’altalenare del
Governo Salandra. Questa amarezza è manifesta in molta corrispondenza tra i
vari Ambasciatori; un esempio: l’ambasciatore a Vienna Avarna il 5 ottobre 1914
rispondendo al collega di Berlino, Bollati, che gli aveva scritto il 25
settembre, lamenta che il Corpo Diplomatico “sia tenuto interamente all’oscuro del vero pensiero del Governo” e
preannuncia l’intenzione di voler lasciare l’incarico “… non volendo rendermi complice
dell’atto di slealtà che sta maturando”, ovviamente verso
l’Austria-Ungheria. (Documenti Diplomatici Italiani)
Violente
fibrillazioni scuotono il mondo politico: i socialisti e le Sinistre in
generale pensano prima ad uno sciopero contro la guerra, poi si dividono in
interventisti democratici e tradizionali. Benito Mussolini cambierà
fulmineamente idea e campo: espulso dal P.S.I. fonda
il Popolo d’Italia il 14
novembre 1914 e lancia una specie di
grido di battaglia con l’articolo “Audacia!”.
Il mondooperaiosi riunirà a Zimmerwald, presso Berna, tra il 5 e l’8 settembre
1915; con un proprio Manifesto, detto
appunto di Zimmerwald, contesterà la
scelta dei socialisti europei di partecipare alla guerra ciascuno per il
proprio Paese, in nome del sacro egoismo nazionale; ma il loro grido:”Proletari di tutti i paesi unitevi!”, cadde
nel vuoto.
I socialisti italiani, in tale consesso, sono
rappresentati da Lazzari, Serrati, nuovo direttore dell’Avanti! e Modigliani. I Futuristi, primo fra tutti Marinetti, ma
anche Papini, Curzio Malaparte, le riviste La
Voce, Lacerba, … i pittori Carrà, Carlo Erba, i matematici come Eugenio Elia Levi, architetti
come Antonia Sant’Elia, scrittori come Serra, che cadranno in battaglia; gli irredenti Battisti
ed i fratelli Filzi, si schierarono per
l’intervento. Quasi superfluo ricordare Giuseppe Ungaretti e l’indigesto
D’Annunzio. Tanti altri ancora come Monelli, Papini, Omodeo, Pertini, Lombardo Radice, Parri, Calamandrei,
Pieri, Cecchi, Rebora, Volpe, l’anziano Bissolati, Amendola … non tutti futuristi e neanche nazionalisti, per dovere
civico o libera scelta, parteciparono al conflitto, con diverse funzioni . Anche
i repubblicani mazziniani sono per la guerra. Ogni nome rappresenta una storia
diversa, ma un ideale comune: quello di Patria, pur diversamente declinato.
A fronte di queste minoranze più che vivaci,
la classe politica liberale, che fa capo a Giovanni Giolitti, tiene un contegno
molle ed incerto, segno di decadenza. Il Re tace. La Camera, contraddicendo un
suo precedente e recente atto, il 20 maggio 1915 vota l’intervento contro l’Austria-Ungheria con 407 sì e 74 no;
ma solo il 28 agosto 1916 dichiareremo guerra all’Impero germanico, segno che
il secolare nemico è uno solo. Antonio Salandra, che si era dimesso il 13,
viene riconfermato Presidente del Consiglio ed ottiene i pieni poteri. Il 22 maggio il Re firma il
decreto di mobilitazione generale, il 23 l’ambasciatore a Vienna Avarna,
consegna la dichiarazione di guerra al ministro Burian. Il 26 il Re, dal
quartier generale Martignacco di Udine, lancia il suo primo Proclama ai soldati.
Vittorio Emanuele III lascerà il fronte solo per risolvere le crisi di governo.
Il giovane Regno
ha un’occasione ed una speranza: accreditarsi tra le potenze continentali ed
intercontinentali anche e proprio perché fu presto chiaro, forse non a tutti, che
l’eurocentrismo stava scomparendo e che il conflitto ne avrebbe accelerato la
fine.
La guerra fu
luogo di scontro e d’incontro, per l’Italia, di uomini di regioni, civiltà,
costumi e lingue diverse. I nostri soldati analfabeti cominciarono ad imparare a leggere e scrivere
in una lingua sino ad allora sconosciuta: l’italiano (De Mauro).
La guerra è una
costante del genere umano: da Socrate a Karl von Clausewitz i conflitti armati
sono la continuazione della politica, quando questa e la diplomazia non hanno
più niente da dire.
Guerra e pace
sono intimamente connesse. Solo
dallo scontro cruento nascono nuove realtà sociopolitiche, anche se a volte
peggiori di quelle soppiantate.
Aree di frizioni
geopolitiche divennero, lentamente e poi sempre più rapidamente, origine di frattura
ideologica e sociale. Ozioso è chiedersi se un conflitto sia giusto o ingiusto,
morale o immorale. Pungente ed equilibrata la tesi di Benedetto Croce in L’Italia dal 1914 al 1918. Pagine sulla guerra
ha scritto: “… quando la guerra
scoppia (e che essa scoppi o no, è tanto poco morale e immorale quanto un
terremoto o altro assestamento tellurico) i componenti dei vari gruppi non
hanno altro dovere morale che di schierarsi alla difesa del proprio gruppo,
alla difesa della Patria … Solo a questo modo l’individuo è giusto, sebbene, a
questo modo, giusto sia anche l’avversario e, per questa via giusto sarà per un
tempo più o meno lungo, l’assetto che si formerà dopo la guerra”.
Tra questa tesi
e quella di von Clausewitz si dispiega una serie quasi infinita di livelli e di
interpretazioni polemologiche. Sta di fatto che la Grande Guerra è il displuvio
tra il nuovo e l’antico, processo di trasformazione al quale l’Italia non
poteva sottrarsi.
I belligeranti respinsero con fastidio
l’appello di Benedetto XV, dell’uno agosto 1917, concordato con l’imperatore
Carlo, per porre fine all’inutile strage,
tanto si erano identificati nei propri interessi e nelle proprie ragioni, e
pure, proprio in agosto a Torino era scoppiata la sanguinosa ‘rivolta del pane’.
Caporetto e
Vittorio Veneto sono due metafore che rappresentano
l’Italia, sempre caricate di significati estranei alla loro natura di fatti
bellici. Mercoledì 24 ottobre 1917 alle ore 2 del mattino gli austro-tedeschi
investono, con i gas, gli avamposti della conca tra Plezzo a Tolmino.
Hanno in mente
un’operazione di ordine tattico, condotta su tre colonne che attaccano
contemporaneamente sulla destra e sulla sinistra dell’Isonzo. Il progetto divenne via
via strategico, quando il nemico si
rese conto che i nostri Comandi al più alto livello nelle prime ore non
riuscivano ad organizzare alcun contrasto in profondità, poiché la loro
filosofia era sempre stata solo di attacco e non anche di difesa in profondità. La 14ª Armata austro-tedesca, 15 divisioni,
investì tre nostre divisioni prive di riserve. In sintesi, il nemico avanzò
lungo la linea Isonzo-Tagliamento-Udine- Belluno- Piave nel vuoto, per tutta la
prima giornata. Il piano di contrasto fu preparato da Cadorna tra il 28 e il 30 ottobre. I reparti in linea,
nel frattempo, si ritiravano combattendo. Pochi esempi: il 24 stesso alle ore
14 nel comune di Idersko si combatte casa per casa e solo alle 16 i battaglioni
slesiani occuperanno Caporetto.
il 25 ottobre: “… ufficiali della brigata Napoli, 75°
reggimento, che si trovavano verso Monte Piatto videro al mattino del 25 i
battaglioni della brigata Firenze, che salivano a plotoni affiancati l’erta
ripida verso la cima del Podklabuk … L’artiglieria nemica rivolse il tiro
contro di essi. Si videro i plotoni colpiti scomporsi, ricomporsi subito e
ritentare la salita; ed i fanti della brigata Firenze salivano sempre più in
alto, mentre vuoti continui si osservavano nelle loro file”. Così Guido
Sironi, I vinti di Caporetto.
Il Diario
del LI Corpo d’Armata tedesco conferma: “Gli italiani difesero lo Jeza con
straordinario valore”.
Il 27 ottobre il
Bollettino austriaco afferma: “ Gli
italiani hanno difeso la Bainsizza a passo a passo”.
E ancora: “Le intercettazioni telefoniche ci facevano
conoscere le maledizioni alla nostra artiglieria, il numero dei morti e dei
feriti, le proteste degli ufficiali perché fosse data un’altra sistemazione
alle loro truppe”. Generale Enrico Caviglia in La dodicesima battaglia – Caporetto pag 93.
La travolgente
avanzata dopo le prime 24 ore andò gradatamente rallentando sino a spegnersi
del tutto sulle rive del Piave il 9 novembre; tra il 10 e l’11 dicembre 1917,
si spensero anche le ultime spallate di Conrad.
L’arretramento
sulla linea del Piave era previsto sin dai tempi di Odoacre, di Napoleone e del
generale Cosenz. Cadorna il 27 ottobre giunge a Treviso e predispone il rischieramento dell’esercito
sulla riva destra del Piave; il 30 il nuovo progetto è pronto. Sarà attuato da
Diaz. Purtroppo, alle ore 13 del 28 il Generalissimo aveva emanato l’infelice
Bollettino n.° 887, che accusava di viltà la II Armata. Cadorna avrebbe
spiegato la sua accusa nel volume Pagine
polemiche Garzanti 1951. (D. D. I.) Un po’ tardi!
Sul fronte
politico il Re, tornato a Roma il 26, risolve la crisi di governo
sostituendo Boselli con Orlando e
nominando, poi, il generale Diaz al
posto di Cadorna. Il 5 e il 6 novembre si svolse a Rapallo la riunione
preparatoria del convegno dell’8 a Peschiera. Qui Vittorio Emanuele III sostenne
le ragioni del soldato italiano e la sua capacità di resistenza. Non sbagliò. Il
Piave, quindi, fu un disegno netto e meditato, che riduceva la linea del fronte
da 650 a 300 km, e ci consentiva un rafforzamento fondamentale nell’immediato e
nella prospettiva.
L’altra metafora
è Vittorio Veneto. Per taluni è modesta
battaglia enfatizzata dalla propaganda governativa. Falso. Le tre
battaglie del Piave, che a Vittorio Veneto si conclusero il 31 ottobre, ci
costarono 36.000 perdite, delle quali 7.000 morti accertati. Vero è, invece, che
l’implosione dell’Impero asburgico non aveva intaccato la capacità di resistenza e offesa dell’ esercito,
fedele all’Imperatore.
Non possiamo
descrivere l’andamento degli scontri sul Piave e sul Grappa, dove già il 24 eravamo partiti all’attacco e
dove i combattimenti saranno più sanguinosi che sulle rive del Piave e sugli Altipiani,
ma la montagna non ebbe un Cantore; diremo soltanto che il nemico organizzò la propria manovra su tre momenti:
a. superare il Piave; b. prendere
Venezia; c. dilagare nella Pianura Padana.
La massima
penetrazione del nemico si ferma sull’ansa tra Zenson e la Grave di Papadopoli.
Lo storico londinese Erbert A. L. Fisher
nella sua Storia d’Europa, a pag 401, aveva scritto:“Che, dopo simile disfacimento del morale
militare,[Caporetto ndr] il fronte
italiano fosse solidamente ricostruito, dimostra la grande abilità di Cadorna e
l’enorme forza di reazione italiana. Il Piave fu tenuto e fu salvata Venezia.
Ma al sopraggiungere dell’inverno era ancora incerto se l’esercito italiano,
benché sotto il nuovo comandante Diaz e rafforzato da divisioni francesi e
inglesi, sarebbe stato in grado di respingere vittoriosamente il nuovo
attacco”. Purtroppo l’illustre storico dimentica che prima della battaglia
di Caporetto gli Alleati avevano ritirato dal fronte alpino ben 99 medi calibri
ed avevano sospeso l’invio, già iniziato, di altri 102 bocche di fuoco, il 19
settembre 1917, non credendo all’imminente attacco degli Imperiali. Non solo, ma le divisioni promesse non saranno 11
e le poche arrivate si attesteranno oltre il Mincio. Gli Stati Uniti entrati un
guerra il 6 aprile del 1917, ci manderanno
un solo reggimento. Astuti!
Epitome della
guerra italiana è il passaggio del Piave. Sera del 26 ottobre 1918: “Appena fu notte, cominciarono le operazioni
sulla fronte delle armate schierate lungo il fiume, fra Pederobba e Le Grave.
La 12ª e l’8ª armata potevano agire per sorpresa; la 10ª, avendo già sfruttato
la sorpresa, doveva passare di viva forza. Verso le ore 21 le truppe erano
raccolte ai posti prestabiliti; ed i pontieri erano pronti. Cominciò subito il
traghetto con le barche. Gli Austriaci tacevano, ed il rumore delle barche sul
terreno e dei carri era soffocato da quello della turbinosa piena del fiume.
Essa ci rendeva un buon servizio, pur essendo in quel momento la nostra
principale avversaria. La 12ª armata, dopo vari tentativi di gittamento del
ponte, era riuscita a far passare al di là il 107° fanteria francese, i
battaglioni alpini Bassano e Verona, nonché due compagnie mitragliatrici e due
compagnie della brigata Messina (XII corpo d’armata – Di Giorgio). Ma tutti i
lavori per gittare un ponte e tre passerelle furono distrutti dalla piena e
dalla reazione nemica. Al mattino del 27 le truppe passate erano isolate al di
là del fiume”. Le tre battaglie
del Piave (pagg. 174-175) Così il Generale Enrico Caviglia, comandante
l’VIII Armata, che condusse la manovra.
Da questo
momento le truppe italiane proseguiranno in profondità riprendendo uno per uno
tutti i centri occupati dal nemico. Il 3 novembre alle 15,15, i nostri primi
reparti entrano a Trento. Alle 16,30 dal
caccia “Audace”, i bersaglieri sbarcano a Trieste. Sempre il 3 novembre, alle
18,20, i generali Badoglio e Webenau, a Villa Giusti, firmano l’armistizio.
Questo atto stroncò la nostra avanzata verso Vienna. Nessuno, amici ed alleati,
voleva che l’Italia andasse oltre.
Tuttavia, l’esperienza
bellica modifica le coscienze e testimonia l’esaltazione della storia di un popolo, ignaro, sino a quel momento, di
quanto sapesse fare e sconosciuto a se stesso. I nostri giovani chiusero
un’epoca e ne iniziarono un’altra. Diedero prova di virtù civiche prima ancora
che militari. Si identificarono nello Stato Nazionale. Cianciare di “generazione perduta” significa negare noi
stessi.
Michele D’Elia