sabato 20 ottobre 2018

I poeti inglesi e la guerra


I primi cittadini inglesi che si arruolarono volontari furono operai e disoccupati, attratti dalla buona paga militare; ai soldati semplici, di bassa estrazione sociale, toccò il compito di uccidere, mentre i ceti medi e a quelli superiori, ai quali fu ben presto necessario ricorrere per inquadrarli nel ruolo di ufficiali, cercavano di agire sul campo di battaglia in modo sportivo e cavalleresco. Migliaia di giovani si presentarono agli uffici di reclutamento immaginando la guerra come una prova di coraggio e di virilità. Jessie Pope (1868-1941), scrittrice e giornalista inglese, viene ricordata per la sua poesia patriottica e nazionalista, che fu pubblicata in giornali popolari quali il Daily Mail e il Daily Express con lo scopo di spingere i giovani ad arruolarsi. 
Famosa fu la sua poesia The Call: Who’s for the trench– Who’s for the khaki suit– Ae you, my laddie? Are you, my laddie? Who’ll follow French– Who longs to charge and shoot– Will you, my laddie? Do you, my laddie? Who’s fretting to begin, Who’s keen on getting fi t, Who’s going out to win? Who means to show his grit, And who wants to save his skin– And who’d rather wait a bit– Do you, my laddie? Would you, my laddie? 
La guerra, che gli Stati Maggiori europei avevano immaginato come una “guerra lampo” che si sarebbe conclusa nel giro di poche settimane, si trasformò, in realtà, in una guerra da topi, in una guerra “di miserabile infrattarsi – uomini-pigmei che si imbucano sottoterra pregando di scampare ai colpi del gigante che scuote la terra con cieco furore” (E.F. Graham, in War Letters of Rocheste’s veterans). In sintesi, la prima guerra mondiale, secondo l’analisi fatta dallo storico Eric Leed nel suo libro Terra di nessuno, fu un gigantesco e sanguinoso rito di passaggio. 
La Prima Guerra mondiale rappresentò uno spartiacque tra due epoche anche in campo letterario. Per quanto riguarda la poesia inglese, gli anni immediatamente successivi alla morte di re Edoardo VII e all’ascesa al trono di Giorgio V (1910-1936) videro la nascita della “Georgian poetry”, la poesia georgiana, che prese il nome dal re ma anche dal titolo di un’ antologia in cinque volumi, Georgian Poetry, 1911-12, edita da Edward Marsh e pubblicata tra il 1912 e il 1922. L’ antologia conteneva contributi tra l’altro di Rupert Brooke, Walter De la Mare e John Manefi eld. La loro poesia si rifaceva alla poesia romantica e vittoriana e si inspirava principalmente a specifi ci elementi tipicamente inglesi, quali la vita di campagna dove svolgere escursioni in bicicletta o idilliache scampagnate e tradizionali temi pastorali ma, in questo modo, perdendo il contatto con la realtà contemporanea. La poesia giorgiana perse il suo fascino allo scoppio della WWI. La maggior parte dei giovani poeti della guerra modellarono, quindi, i loro primi versi sulle stesse consolidate tecniche poetiche dei poeti georgiani, utilizzando la lirica breve. Ed ecco che Robert Brooke nei versi iniziali del sonetto intitolato Peace, ringrazia per la sfi da morale offertagli dalla guerra in termini di opportunità di personale purifi cazione e rigenerazione morale: “Now, God be thanked Who has matched us with His hour/ And caught our youth, and wakened us from sleeping/ With hand made sure, clear eye, and sharpened power/ To turn, as swimmers into cleanness leaping/ Glad from a world grown old and cold and weary”. E arriviamo al sonetto V, l’ultimo e più famoso della serie 1914, intitolato The Soldier, in cui Brooke parla in prima persona della sua possibile morte. Il poeta esprime quello che era generalmente percepito dagli Inglesi nell’autunno del 1914, e cioè un senso di patriottismo di fronte al nemico e in difesa del proprio paese e l’idealizzazione di coloro che morivano in battaglia. Ma nella poesia intitolata Fragment, scritta mentre Brooke era in viaggio verso la penisola di Gallipoli con i suoi soldati, il poeta vorrebbe che la loro bellezza e solida vitalità potesse durare per sempre. 
A differenza dei precedenti sonetti, quest’ultimo esprime tristezza e un senso di frustrazione nel vedere la distruzione dei migliori giovani d’Inghilterra: “I would have thought of them [i miei compagni] – Heedless, within a week of battle – in pity/ Pride in their strength and in the weight and fi rmness / And link’d beauty of bodies, and pity that/ This gay machine of splendour’ld soon be broken/ Thought little of, pashed, scattered”. Quell’esercito innocente, quella gioventù defi nita da Owen “Doomed”, spacciata, raggiunse una piena conoscenza del bene e del male il 1° luglio 1916 sulla Somme. Prima dell’azione sulla Somme, nel gennaio 1917, W. Owen scrive alla madre: “essere in Francia suscita sentimenti alti ed eroici e io sono in condizioni di spirito perfette”. Ma sedici giorni dopo tutto è cambiato: “Non vedo nessun motivo di ingannarti circa questi quattro giorni. Ho sofferto mille inferni. Non sono stato al fronte. Sono stato davanti al fronte”. 
Morire sventrati da una granata, oppure avvelenati da un’esalazione di gas, non aveva nulla di memorabile o di dignitoso. “Here dead we lie/ because we did not choose/ To live and shame the land/ From which we sprung./ Life, to be sure, is nothing much to lose/ But young men think it is/ And we were young.” Questa poesia Here Dead we lie del poeta A. E. Housman esprime tutto il rimpianto dei giovani soldati caduti in battaglia. La visione idealistica della guerra dei primi poeti lascia, quindi, il posto alla letteratura del disincanto. Signifi cative, a questo proposito, sono le parole che W. Owen scrive nella prefazione al suo volume di poesie: “Questo libro non parla d’eroi... Né vi si parla di gesta, di nazioni, di ciò che concerne la gloria, l’onore, la forza, la maestà, il dominio, il potere, se si eccettua la Guerra. 
Soprattutto non mi interessa la Poesia. Il mio tema è la Guerra, e la pietà della Guerra. La poesia è nella pietà... Oggi un poeta non può che ammonire. Perciò i veri Poeti debbono essere veritieri”. Così come Herbert Read in The Happy Warrior descrive, con amara ironia, un momento terribile della guerra di trincea, quando un soldato inglese colpisce più volte con la baionetta un soldato tedesco: “His wild heart beats with painful sobs,/ His strain’d hands clench an ice-cold rifl e,/ His aching jaws grip a hot parch’d tongue,/ His wide eyes search unconsciously./ He cannot shriek./ Bloody saliva/ Dribbles down his shapeless jacket./ I saw him stab/ And stab again/ A well-killed Boche./ This is the happy warrior./ This is he......” Il mitico guerriero del titolo è paradossalmente descritto con attributi animaleschi, è pazzo di terrore come se la guerra avesse annullato in lui qualsiasi dignità umana. O in Futility, dove W. Owen esplora il senso di desolazione e insensatezza che suscita in lui la morte di un compagno. Ecco come Edgell Rickword, in, Winter Warfare, personifica l’inverno e il gelo “Colonel Cold strode up the Line/ (tabs of rime and spurs of ice); stiffened all that met his glare:/ horses, men and lice”. Nella poesia Breakfast Wilfred Gibson si riferisce ai soldati che “facevano colazione sdraiati sulla schiena perché le bombe fischiavano sulle loro teste”. Anche in Break of the Day in the Trenches (Albeggiare nelle trincee), Isaac Rosenberg richiama un tema caro alla tradizione dell’elegia pastorale inglese, l’alba che, però, non è quella idilliaca di tante poesie georgiane, ma quella tetra della trincea: “The darkness crumbles away./ It is the same old druid Time as ever,/ Only a live thing leaps my hand,/ A queer sardonic rat,/ As I pull the parapet’s poppy / To stick behind my ear.” E poi arrivavano gli attacchi, i colpi di mortaio, le bombe al gas! “Il Gas! Il Gas! Svelti, ragazzi! 
Freneticamente annaspavano infilandosi appena in tempo i goffi elmetti; ma uno ancora gridava e inciampava e si agitava come fosse in mezzo al fuoco o nella calce viva..... Confusamente, attraverso i vetri appannati e la densa luce verdastra, come in un mare verde, lo vidi annegare”. (W. Owen Dulce et Decorum est). Il passaggio dall’entusiasmo iniziale alla disperazione e all’angoscia provate poi effettivamente sul campo è ben sintetizzato nella poesia Glory of Women di Siegfried Sassoon che, si trasformò nel rigoroso moralista del 1917 che alternava oltraggio a sdegno per quanto vedeva tanto da pubblicare il 31 luglio 1917 la lettera aperta al giornale The Times A Soldier’s Declaration. In essa Sassoon affermava: “Rendo pubbliche le mie opinioni come un atto di sfi - da alle autorità militari, perché credo che la guerra venga volutamente prolungata da coloro che hanno il potere di porvi fi ne. Io sono un soldato, convinto di agire per il bene dei soldati. Credo che l’attuale guerra, nella quale sono entrato credendola guerra di difesa e di liberazione, sia ora divenuta una guerra di aggressione e di conquista... 
Per fortuna, un suo amico, il noto scrittore Robert Graves, riuscì a persuadere la commissione giudicatrice che Sassoon soffrisse di shell shock, un trauma psichico dovuto alla guerra. Fu confinato per un certo periodo nell’ospedale militare di Craiglockhart in Scozia come malato di mente. 
Tornando al sonetto Glory of Women, esso rappresenta una dura condanna di quel patriottismo che si prova in patria ma che non ha riscontri nella realtà sui campi di battaglia e nelle trincee: “You love us when we’re heroes, home on leave,/ or wounded in a mentionable place./ You worship decorations; you believe/ That chivarly redeems the war’s disgrace.” Al nono verso il poeta mostra al lettore il vero volto della guerra: “You can’t believe that British troops “retire”/ When hell’s last horror breaks them, and they run,/ Trampling the terrible corpses- blind with blood.” La “German mother dreaming by the fi re,/ While she is knitting socks to send her son” non ha nessuna idea che “His face is trodden deeper in the mud.” Ma questa madre è “tedesca”; perché il poeta ha voluto sottolineare che anche le madri tedesche non hanno la percezione delle sofferenze che i loro figli devono sopportare? Perché la perdita di giovani vite è l’unico vero fattore unificante per le donne e per le nazioni; la morte è l’unica fondamentale ineludibile realtà, che però solo il soldato al fronte, che sia inglese o tedesco, riesce a vedere. Infine, l’Inghilterra preguerra descritta da P. Larkin nelle prime tre strofe della poesia MCMXIV, è svanita per sempre insieme a quella moltitudine di uomini morti combattendo per il loro Paese: “Never such innocence again”, ovvero mai più una tale innocenza! Signifi cativo è il fatto che Larking abbia scritto questa poesia all’inizio degli anni 60, a sottolineare l’enorme impatto che la guerra ebbe nella storia dell’umanità.

Daniela Savini