I primi cittadini inglesi che si arruolarono volontari furono operai e
disoccupati, attratti dalla buona paga militare; ai soldati semplici, di bassa
estrazione sociale, toccò il compito di uccidere, mentre i ceti medi e a quelli
superiori, ai quali fu ben presto necessario ricorrere per inquadrarli nel
ruolo di ufficiali, cercavano di agire sul campo di battaglia in modo sportivo
e cavalleresco. Migliaia di giovani si presentarono agli uffici di
reclutamento immaginando la guerra come una prova di coraggio e di virilità.
Jessie Pope (1868-1941), scrittrice e giornalista inglese, viene ricordata per
la sua poesia patriottica e nazionalista, che fu pubblicata in giornali
popolari quali il Daily Mail e il Daily Express con lo scopo di spingere i
giovani ad arruolarsi.
Famosa
fu la sua poesia The Call: Who’s for the trench– Who’s for the khaki suit– Ae
you, my laddie? Are you, my laddie? Who’ll follow French– Who longs to charge
and shoot– Will you, my laddie? Do you, my laddie? Who’s fretting to begin,
Who’s keen on getting fi t, Who’s going out to win? Who means to show his grit,
And who wants to save his skin– And who’d rather wait a bit– Do you, my laddie?
Would
you, my laddie?
La guerra, che gli Stati Maggiori europei avevano immaginato
come una “guerra lampo” che si sarebbe conclusa nel giro di poche settimane, si
trasformò, in realtà, in una guerra da topi, in una guerra “di miserabile
infrattarsi – uomini-pigmei che si imbucano sottoterra pregando di scampare ai
colpi del gigante che scuote la terra con cieco furore” (E.F. Graham, in War
Letters of Rocheste’s veterans). In sintesi, la prima guerra mondiale, secondo
l’analisi fatta dallo storico Eric Leed nel suo libro Terra di nessuno, fu un
gigantesco e sanguinoso rito di passaggio.
La Prima Guerra mondiale rappresentò
uno spartiacque tra due epoche anche in campo letterario. Per quanto riguarda
la poesia inglese, gli anni immediatamente successivi alla morte di re Edoardo
VII e all’ascesa al trono di Giorgio V (1910-1936) videro la nascita della
“Georgian poetry”, la poesia georgiana, che prese il nome dal re ma anche dal
titolo di un’ antologia in cinque volumi, Georgian Poetry, 1911-12, edita da
Edward Marsh e pubblicata tra il 1912 e il 1922. L’ antologia conteneva contributi
tra l’altro di Rupert Brooke, Walter De la Mare e John Manefi eld. La loro
poesia si rifaceva alla poesia romantica e vittoriana e si inspirava
principalmente a specifi ci elementi tipicamente inglesi, quali la vita di
campagna dove svolgere escursioni in bicicletta o idilliache scampagnate e
tradizionali temi pastorali ma, in questo modo, perdendo il contatto con la
realtà contemporanea. La poesia giorgiana perse il suo fascino allo scoppio
della WWI. La maggior parte dei giovani poeti della guerra modellarono, quindi,
i loro primi versi sulle stesse consolidate tecniche poetiche dei poeti
georgiani, utilizzando la lirica breve. Ed ecco che Robert Brooke nei versi iniziali del
sonetto intitolato Peace, ringrazia per la sfi da morale offertagli dalla guerra
in termini di opportunità di personale purifi cazione e rigenerazione morale:
“Now, God be thanked Who has matched us with His hour/ And caught our youth,
and wakened us from sleeping/ With hand made sure, clear eye, and sharpened
power/ To turn, as swimmers into cleanness leaping/ Glad from a world grown old
and cold and weary”. E arriviamo al sonetto V, l’ultimo e più
famoso della serie 1914, intitolato The Soldier, in cui Brooke parla in prima
persona della sua possibile morte. Il poeta esprime quello che era generalmente
percepito dagli Inglesi nell’autunno del 1914, e cioè un senso di patriottismo
di fronte al nemico e in difesa del proprio paese e l’idealizzazione di coloro
che morivano in battaglia. Ma nella poesia intitolata Fragment, scritta mentre
Brooke era in viaggio verso la penisola di Gallipoli con i suoi soldati, il
poeta vorrebbe che la loro bellezza e solida vitalità potesse durare per
sempre.
A differenza dei
precedenti sonetti, quest’ultimo esprime tristezza e un senso di frustrazione
nel vedere la distruzione dei migliori giovani d’Inghilterra: “I would have
thought of them [i miei compagni] – Heedless, within a week of battle – in
pity/ Pride in their strength and in the weight and fi rmness / And link’d
beauty of bodies, and pity that/ This gay machine of splendour’ld soon be
broken/ Thought little of, pashed, scattered”. Quell’esercito
innocente, quella gioventù defi nita da Owen “Doomed”, spacciata, raggiunse una
piena conoscenza del bene e del male il 1° luglio 1916 sulla Somme. Prima
dell’azione sulla Somme, nel gennaio 1917, W. Owen scrive alla madre: “essere
in Francia suscita sentimenti alti ed eroici e io sono in condizioni di spirito
perfette”. Ma sedici giorni dopo tutto è cambiato: “Non vedo nessun motivo di
ingannarti circa questi quattro giorni. Ho sofferto mille inferni. Non sono
stato al fronte. Sono stato davanti al fronte”.
Morire sventrati da una
granata, oppure avvelenati da un’esalazione di gas, non aveva nulla di
memorabile o di dignitoso. “Here
dead we lie/ because we did not choose/ To live and shame the land/ From which
we sprung./ Life, to be sure, is nothing much to lose/ But young men think it
is/ And we were young.” Questa poesia Here Dead we lie del poeta A.
E. Housman esprime tutto il rimpianto dei giovani soldati caduti in battaglia.
La visione idealistica della guerra dei primi poeti lascia, quindi, il posto
alla letteratura del disincanto. Signifi cative, a questo proposito, sono le
parole che W. Owen scrive nella prefazione al suo volume di poesie: “Questo
libro non parla d’eroi... Né vi si parla di gesta, di nazioni, di ciò che
concerne la gloria, l’onore, la forza, la maestà, il dominio, il potere, se si
eccettua la Guerra.
Soprattutto non mi interessa la Poesia. Il mio tema è la
Guerra, e la pietà della Guerra. La poesia è nella pietà... Oggi un poeta non
può che ammonire. Perciò i veri Poeti debbono essere veritieri”. Così come
Herbert Read in The Happy Warrior descrive, con amara ironia, un momento
terribile della guerra di trincea, quando un soldato inglese colpisce più volte
con la baionetta un soldato tedesco: “His wild heart beats with painful sobs,/
His strain’d hands clench an ice-cold rifl e,/ His aching jaws grip a hot
parch’d tongue,/ His wide eyes search unconsciously./ He cannot shriek./ Bloody saliva/ Dribbles down his
shapeless jacket./ I saw him stab/ And stab again/ A well-killed Boche./ This
is the happy warrior./ This is he......” Il mitico guerriero del titolo è
paradossalmente descritto con attributi animaleschi, è pazzo di terrore come se
la guerra avesse annullato in lui qualsiasi dignità umana. O in Futility, dove
W. Owen esplora il senso di desolazione e insensatezza che suscita in lui la
morte di un compagno. Ecco
come Edgell Rickword, in, Winter Warfare, personifica l’inverno e il gelo
“Colonel Cold strode up the Line/ (tabs of rime and spurs of ice); stiffened
all that met his glare:/ horses, men and lice”. Nella poesia
Breakfast Wilfred Gibson si riferisce ai soldati che “facevano colazione
sdraiati sulla schiena perché le bombe fischiavano sulle loro teste”. Anche in
Break of the Day in the Trenches (Albeggiare nelle trincee), Isaac Rosenberg
richiama un tema caro alla tradizione dell’elegia pastorale inglese, l’alba
che, però, non è quella idilliaca di tante poesie georgiane, ma quella tetra
della trincea: “The darkness crumbles away./ It is the same old druid Time as ever,/ Only a live
thing leaps my hand,/ A queer sardonic rat,/ As I pull the parapet’s poppy / To
stick behind my ear.” E poi arrivavano gli attacchi, i colpi di
mortaio, le bombe al gas! “Il Gas! Il Gas! Svelti, ragazzi!
Freneticamente
annaspavano infilandosi appena in tempo i goffi elmetti; ma uno ancora gridava
e inciampava e si agitava come fosse in mezzo al fuoco o nella calce viva.....
Confusamente, attraverso i vetri appannati e la densa luce verdastra, come in
un mare verde, lo vidi annegare”. (W. Owen Dulce et Decorum est). Il passaggio
dall’entusiasmo iniziale alla disperazione e all’angoscia provate poi
effettivamente sul campo è ben sintetizzato nella poesia Glory of Women di
Siegfried Sassoon che, si trasformò nel rigoroso moralista del 1917 che
alternava oltraggio a sdegno per quanto vedeva tanto da pubblicare il 31 luglio
1917 la lettera aperta al giornale The Times A Soldier’s Declaration. In essa
Sassoon affermava: “Rendo pubbliche le mie opinioni come un atto di sfi - da
alle autorità militari, perché credo che la guerra venga volutamente prolungata
da coloro che hanno il potere di porvi fi ne. Io sono un soldato, convinto di
agire per il bene dei soldati. Credo che l’attuale guerra, nella quale sono
entrato credendola guerra di difesa e di liberazione, sia ora divenuta una
guerra di aggressione e di conquista...
Per fortuna, un suo amico, il noto
scrittore Robert Graves, riuscì a persuadere la commissione giudicatrice che
Sassoon soffrisse di shell shock, un trauma psichico dovuto alla guerra. Fu
confinato per un certo periodo nell’ospedale militare di Craiglockhart in
Scozia come malato di mente.
Tornando al sonetto Glory of Women, esso
rappresenta una dura condanna di quel patriottismo che si prova in patria ma
che non ha riscontri nella realtà sui campi di battaglia e nelle trincee: “You
love us when we’re heroes, home on leave,/ or wounded in a mentionable place./ You worship decorations; you believe/ That chivarly
redeems the war’s disgrace.” Al nono verso il poeta mostra al lettore il vero
volto della guerra: “You can’t believe that British troops “retire”/ When
hell’s last horror breaks them, and they run,/ Trampling the terrible corpses-
blind with blood.” La “German mother dreaming by the fi re,/ While she is
knitting socks to send her son” non ha nessuna idea che “His face is trodden
deeper in the mud.” Ma questa madre è “tedesca”; perché il poeta
ha voluto sottolineare che anche le madri tedesche non hanno la percezione
delle sofferenze che i loro figli devono sopportare? Perché la perdita di
giovani vite è l’unico vero fattore unificante per le donne e per le nazioni;
la morte è l’unica fondamentale ineludibile realtà, che però solo il soldato al
fronte, che sia inglese o tedesco, riesce a vedere. Infine, l’Inghilterra
preguerra descritta da P. Larkin nelle prime tre strofe della poesia MCMXIV, è
svanita per sempre insieme a quella moltitudine di uomini morti combattendo per
il loro Paese: “Never such innocence again”, ovvero mai più una tale innocenza!
Signifi cativo è il fatto che Larking abbia scritto questa poesia all’inizio
degli anni 60, a sottolineare l’enorme impatto che la guerra ebbe nella storia
dell’umanità.
Daniela Savini