di Michele D'Elia
Dopo Caporetto,
Peschiera. Il verbale ignorato
CONVEGNO DI PESCHIERA
giovedì 8 novembre
1917
La fede del Re nei
Soldati d’Italia
Alfa e Omega. Vuole il mondo che la
guerra degli italiani si concentri in due nomi: Caporetto e Vittorio Veneto.
Sempre il mondo vuole che la prima segni una vergognosa disfatta e la seconda,
una mezza, casuale vittoria, grazie alle truppe alleate. Nel convegno del 30
novembre 2014 dimostrammo la falsità
delle due tesi.
Qualche integrazione non sarà superflua, anche se ben lungi dall’esaurire i due
argomenti.
* * *
La Conferenza di
Rapallo, 6 e 7 novembre 1917, non ci aveva reso giustizia. Il Re convoca per
l’8 novembre a Peschiera i Capi alleati, politici e militari: Lloyd George,
Smuts, Painlevé, Bouillon, Orlando, Sonnino, Bissolati, Robertson, Wilson e Foch.
Tiene un discorso e pone fine al velenoso chiacchiericcio sul nostro soldato e
sull’Italia.
Il verbale della
riunione è redatto in inglese; è datato Aix-les- Bains 9 novembre 1917. (1)
Giornalisti, storici,
scrittori e politici ignorarono ad arte la svolta che l’incontro impresse
al conflitto.
IL VERBALE
Peschiera: Quartier
Generale, 8 novembre 1917
Il Re parla chiaro: gli Alleati,
dall’inizio della guerra, trascurano il fronte alpino; per questa visione del
conflitto, limitata al fronte occidentale, pianure di Francia e Belgio, essi “non
[hanno n.d.r.] sfruttato la campagna in Italia per schiacciare la
resistenza austriaca … [il Re] ha manifestato profondo rincrescimento che
l’Austria – che solo pochi mesi fa era sull’orlo del crollo – sia riuscita,con
l’aiuto della Germania, a ribaltare la situazione in Italia”. Lloyd George
finge di non capire ed esprime “ rincrescimento” per l’assenza del Re
alla Conferenza di Roma del 16 gennaio 1917, “dove aveva sostenuto con
forza la sua
posizione in favore di un’azione combinata sul fronte italiano”.
Il Signor Primo
Ministro inglese dimentica che il Re non era a Roma perché era al fronte. (2)
Il Re informa:
l’Esercito italiano ha già perso 30.000 ufficiali.
I presenti non sanno
o fingono di non sapere quanto effettivamente accaduto a Caporetto e che cosa
abbiano saputo fare i nostri soldati. Il Re colma le loro lacune. Egli non nega
e non sminuisce nulla: ma metodicamente, analizza le ragioni principali del “collasso
dell’esercito italiano sotto l’attacco combinato austro-tedesco”.
Per il Sovrano le
ragioni principali del nostro cedimento sono:
“a) una nebbia
molto fitta che gravava il giorno dell’attacco sul fianco settentrionale
dell’esercito italiano e che ha reso impossibile l’uso dell’artiglieria.
b) L’assenza di
ufficiali professionisti addestrati, che potessero manovrare le truppe in modo
adeguato una volta cominciato il ripiegamento”.
A queste ragioni se
ne aggiunge un’altra, senza dubbio la più importante e tecnicamente grave, che
il Re mette in evidenza senza mezzi termini:
“ [Il Re] Ha detto
che l’esercito italiano aveva perso circa 30.000 ufficiali nel corso della
guerra e che quelli più giovani, non adeguatamente addestrati, non erano in
grado di gestire i loro uomini nelle difficili condizioni che la ritirata aveva
portato alla luce”.
Egli “aveva
osservato lo stesso fenomeno nell’esercito austriaco”, infatti: ”quando
gli italiani avevano sfondato le linee austriache durante la loro recente
avanzata [probabilmente il Re si riferisce alla battaglia delle Bainsizza
n.d.r.] i soldati austriaci non adeguatamente addestrati, non avevano saputo
ripiegare nel modo dovuto ed erano caduti preda dell’esercito italiano
avanzante”
Sul campo:
frequentissimi assalti e contrassalti dei due eserciti, malattie e condizioni
igieniche inumane riducevano a larve le unità combattenti; non c’era tempo per
addestrare adeguatamente i nuovi ufficiali ed i nuovi soldati. Da qui la confusione
nell’attuare manovre complesse, come sono in genere
le ritirate.
Disfattismo:
questione gonfiata ad arte. Il Re la liquida con fastidio.
[Il Re] “… ritiene
sia stata attribuita un’importanza indebita all’entità dei progressi fatti dal
movimento pacifista all’interno dell’esercito. Senza dubbio, danni sono stati
fatti in un certo numero di casi isolati, dagli appelli del clero e in
misura minore dall’influenza dei socialisti, ma nel complesso [il Re] non
pensa che il morale
italiano sia stato seriamente scosso da tali influenze. Attribuisce più
importanza alla durata della guerra, che ha reso gli uomini stanchi e depressi,
e sottolinea come sia stato osservato che chi torna dalla licenza è
generalmente depresso e scoraggiato per lo stato in cui ha trovato la sua famiglia
e le sue piccole faccende”.
Fede del Re nel
Soldato italiano e del soldato nel Re significa lealtà verso le istituzioni.
Pure virtù civiche. In un documento, che Cadorna aveva indirizzato al
Presidente Boselli l’8 giugno 1917, leggiamo:
“Persona che si ha
ragione di ritenere di fiducia, addetta al servizio informazioni, riferisce, in
data 6 giugno, quanto è trascritto nell’annesso foglio …”. L’Informatore, a
noi sconosciuto, scrive: “Roma, 6 giugno 1917. Ho avuto in questi giorni un
colloquio con Scalarini, il noto pupazzettista dell’«Avanti»
e l’ho condotto
sull’argomento della propaganda socialista pacifista nell’esercito e nel Paese.
… I soldati siciliani, sardi ecalabresi – mi ha detto lo Scalarini – sono
monarchici per la pelle; essi sparerebbero contro di noi socialisti con la
medesima facilità e con la medesima voluttà con la quale sparano agli
austriaci, e noi dobbiamo quindi fare fra loro opera di persuasione e di
propaganda, cercando di attirarli nella nostra orbita. ….” (3)
Tradimento. Accusa
respinta
“Sebbene siano state
anche avanzate accuse di tradimento, non un singolo caso è stato provato e [il
Re] è convinto che l’esercito italiano non sia stato intaccato con successo
dal nemico”.
La ritirata
“Riguardo alla
ritirata in sé, ha detto che il ripiegamento della Terza Armata è stato
condotto in modo piuttosto soddisfacente e che anche il gran numero di feriti
di questa armata è stato evacuato con successo. La Seconda Armata si è in larga
misura sbandata durante il ripiegamento, ma centinaia di migliaia di
uomini sono stati
raccolti nelle retrovie e saranno riorganizzati in unità regolari appena
possibile. Basandosi su quanto osservato personalmente durante il ripiegamento,
[il
Re] non pensa che morale degli uomini sia stato seriamente intaccato.
Riguardo alle tre
divisioni schierate più a nord, in Cadore, una ha ripiegato con successo, ma di
due non si hanno notizie da diversi giorni e non si è ancora certi se siano
state tagliate fuori dal nemico o se si stiano ritirando con successo in
direzione ovest attraverso le colline ai piedi delle Alpi”.
È giusto ricordare
che il generale Sagramoso, responsabile delle retroguardie, svolgeva un
metodico lavoro di recupero delle unità e dei singoli, che si erano scollegati
dal grosso delle truppe.
Il nostro futuro è il
Piave
Il Re incardina a
quattro ragioni tecniche essenziali la necessità di resistere sul Piave:
1. impiego di 400
cannoni d’assedio e 600 da campagna, già in batteria sulla sponda occidentale
del fiume;
2. le trincee scavate
lungo gli argini del fiume;
3. cadendo questa
linea, “Venezia sarebbe perduta … perdere Venezia significherebbe dovere
ritirare la flotta a Brindisi o a Taranto, poiché più a nord non ci sono porti
adatti”;
4. ritirare la flotta
in Puglia significherebbe lasciare l’Adriatico quale campo libero alle forze
navali austro-tedesche, specialmente ai sottomarini.
“Secondo lui occorre
quindi fare ogni sforzo per tenere la linea del Piave”.
Vittorio Emanuele,
proseguendo nella sua esposizione, non si nasconde i pericoli che incombono su
questa scelta, Il verbale registra: “Il vero pericolo di questa linea –
secondo lui – è a nord, verso l’alto corso del fiume, dove le forze tedesche,
sul lato destro dello schieramento austriaco, si stanno spingendo rapidamente
avanti. Se i tedeschi dovessero riuscire ad attraversare il Piave sull’alto
corso e a prendere il Monte Grappa fra Asiago e il fiume, le posizioni lungo il
Piave potrebbero essere aggirate e sarebbe necessario effettuare un altro
ripiegamento, [le truppe italiane] stavano già occupando il Monte Grappa
e si stava facendo tutto il necessario per contrastare la rapidità
dell’avanzata tedesca, ma non c’erano dubbi che un
grave pericolo stava
minacciando quel settore”. Tuttavia noi stiamo, ricorda il Re, occupando il Grappa e
rallentando l’avanzata tedesca. Egli, ancora una volta, non ha dubbi sulla
resistenza del nostro esercito e vede lontano. Lo
occupiamo [il Grappa
n. d. r.] e lo teniamo sino alla vittoria.
La politica
Lloyd George
interviene “con molta forza” sullo “ stato dell’Alto Comando
italiano”, il che significa la sostituzione del gen. Cadorna. Il
provvedimento era già stato attuato. Tuttavia, “il Re d’Italia ha risposto
che, anche se non concordava in alcun punto con le critiche mosse al generale
Cadorna, pure
pensava che grande
attenzione doveva essere porta alle obiezioni fatte … e che il Governo aveva
già deciso di rimuovere il generale Cadorna dal comando e di nominare al suo
posto il generale Diaz … “, con l’assistenza del gen. Giardino, Ministro della
Guerra.
Il Re trova la
soluzione al problema posto dagli Alleati e, nello stesso tempo, ne segna i
limiti: vi accontentiamo, ma a casa nostra comandiamo noi.
Il verbale riporta
anche alcune peregrine osservazioni dei consiglieri militari alleati che “ … non
erano certi fosse stato fatto l’uso migliore delle quattro divisioni francesi
spostandole a ovest del lago di Garda …”. La decisione del nostro Comando comunque
rimane, non solo, ma il Governo britannico e
quello francese
decidono di lasciare completa libertà ai generali Wilson e Foch “ per spostare
le sei divisioni alleate attualmente presenti in Italia nei settori del fronte
dove pensavano potesse esserne fatto l’uso migliore”.
I due alti ufficiali
partono per Padova dove si consulteranno con il nuovo Capo di Stato Maggiore
gen. Armando Diaz, circa il trasferimento delle Divisioni di cui sopra.
Conclude la conferenza un Re “apparso gioviale”, che si impegna a fare “il
suo meglio” per la vittoria. Sottile e dura, come nello stile
dell’Uomo, la vera
conclusione del convegno, verbalizzata: “[il Re] crede che per la
campagna in Italia sarebbe stato possibile fare di più e ora più che mai pensa
sia importante che nell’immediato futuro tale campagna assuma proporzioni maggiori
e maggiore importanza”.
Per Lloyd George il
Re ha parlato con il “ fervore di Mazzini e [la] chiaroveggenza di
Cavour”. (cfr. L’Esercito Italiano …, op. cit., vol. V, Tomo 1°,
Narrazione, pag. 13)
Tutto il convegno
significa una cosa sola: fede nel popolo.
Da questa scaturisce,
il 10 novembre, il proclama alla Nazione, che, riportiamo integralmente in
ultima pagina e che si conclude con questa perorazione: “ Italiani!
Cittadini e soldati siate un esercito solo …”.
L’Ufficio Storico
dell’Esercito, sintetizza: “L’8 novembre, a Peschiera, presenti Lloyd
George, Painlevé, Orlando, Sonnino, Bissolati, Robertson, Wilson, Smuts e Foch,
il Re d’Italia intervenne vigorosamente a dirimere dubbi e a dissipare
perplessità.
In una minuziosa
analisi delle cause del nostro insuccesso militare, il Sovrano scagionò
l’Esercito da qualsiasi accusa di scarsa saldezza morale, dimostrando sulla
base di mille episodi eloquenti che lo spirito delle nostre truppe se aveva
subito una scossa non era affatto compromesso. Affermò che l’Esercito non era
stato vinto e che, già in fase di riorganizzazione, aveva in sé la capacità di
resistere al Piave, il cui abbandono avrebbe peraltro determinato conseguenze
strategiche gravissime per gli stessi Alleati. Dichiarò che la nostra difesa
del Piave concorreva alla vittoria della causa alleata ed espresse il suo
convincimento profetico che le operazioni alla fronte italiana avrebbero potuto
avere, in seguito, caratteri e funzioni risolutive di tutta la guerra.
Era un bagno di
spiritualità che il fervoroso proclama alla Nazione del 10 novembre diffondeva
nel Paese, con immenso benefico effetto, le cui prove non tardavano a
manifestarsi dando l’esatta misura non tanto di una frettolosa corsa a ripari occasionali,
quanto di un’etica che solo una plurisecolare civiltà è capace di esprimere.
A malgrado, però, del
senso di riacquistata fiducia, gli Alleati continuarono ad irrigidirsi nel loro
atteggiamento di voler preservare ad ogni costo le proprie unità.
Ne negarono, infatti,
l’impiego immediato sulla linea del Piave, richiesto – su suggerimento dello
stesso Presidente del Consiglio – anche dal nuovo Capo di Stato Maggiore
italiano, generale Diaz, nel primo colloquio che egli ebbe con essi l’11 novembre”.
(L’Esercito
Italiano …, vol. IV, Tomo 3°, Narrazione,
pagg. 623-624)