All’atto dell’entrata in guerra dell’Italia nel maggio 1915
la Regia Marina godeva di una vasta popolarità nel Paese, e poteva essere
considerata una forza moderna e relativamente cospicua. Oggetto di numerose
cure da parte dei Governi fin dall’indomani dell’Unità, nonostante la grossa
delusione del 1866, la Marina da guerra fu sempre considerata come uno degli
orgogli da esibire per il giovane Regno d’Italia, sia per il suo essere erede
delle glorie delle Repubbliche Marinare, sia per lo stretto legame che la
legava alle nascenti industrie pesanti nazionali. La guerra di Libia del
1911-12 aveva segnato un successo clamoroso per la flotta italiana, penetrata
fin dentro i Dardanelli, sia pure macchiato dalla parziale inefficacia del
blocco della Libia, dovuto alla opposizione francese. Parigi fu infatti assai
contrariata dall’attivismo della flotta italiana e, a dispetto della ritrovata
cordialità diplomatica con Roma, dette segnali minacciosi.
Costruita del resto
fin dall’inizio in un’ottica antifrancese, la Marina italiana rappresentava
però una fonte di angosce anche per un potenza tradizionalmente terrestre come
l’Austria, che dovette a propria volta dotarsi dal finire dell’Ottocento di una
moderna marina, molto al di là dei propri reali bisogni, non potendo sperare
nel ripetersi delle circostanza che avevano permesso il successo di Lissa.
Alla
vigilia del conflitto gli italiani disponevano di dieci corazzate e nove
incrociatori corazzati, diciotto fra incrociatori leggeri ed esploratori,
sessanta cacciatorpediniere, cinquantatré torpediniere e ventuno sommergibili.
Gli si opponevano tredici corazzate, tre incrociatori corazzati, undici
incrociatori leggeri e esploratori, nove corazzate costiere, ventisei
cacciatorpediniere, ventiquattro torpediniere, quarantacinque siluranti minori
e quattordici sommergibili oltre ad altrettanti di imminente consegna. Il
Mediterraneo era quindi già prima del 1914 un mare militarizzato in cui quattro
flotte si osservavano guardinghe non troppo sicure di chi sarebbe stato
l’alleato e chi il nemico di domani.
La decisione del governo italiano nel 1915
portò definitivamente gli equilibri navali mediterranei a favore dell’Intesa.
La flotta austriaca era rinserrata nell’Adriatico, le cui chiavi, Valona e Brindisi,
erano entrambe in mani italiane, quella ottomana era chiusa nel Bosforo.
Compito delle marine alleate era di tenervele rinchiuse e scortare i numerosi
trasporti che transitavano per il Mediterraneo, da e per Suez, arteria vitale
della guerra. All’Italia spettava però anche di proteggere il proprio traffico
navale e difendere la lunghissima costa dalle offese del nemico, che poteva
contare sui numerosi e protetti ancoraggi della costa dalmata e istriana. La
geografia da questo punto di vista aveva sfavorito il Regno d’Italia.
Sull’Adriatico esso non aveva che tre grandi ancoraggi: Venezia, Ancona e
Brindisi, di cui il primo inadatto alle grandi navi e l’ultimo troppo distante
dal nemico.
Fu proprio su Ancona infatti che gli austriaci aprirono la loro
guerra sul mare contro l’Italia, bombardandola, come aveva fatto Teghettoff nel
1866, la notte prima dell’apertura delle ostilità. Anche altre città costiere
della Puglia furono colpite, ed un caccia italiano affondato. Comandava la flotta
imperiale l’ammiraglio Njegovan, che, esaurita questa fiammata iniziale impose
ai suoi una guerra di attesa che massimizzava i vantaggi sugli italiani: una
migliore rete di informatori e sabotatori, numerose basi protette da Pola fino
a Cattaro, ed il concorso preziosissimo dei sommergibili tedeschi.
Da parte
italiana il capo di Stato Maggiore della Marina, l’ammiraglio Paolo Thaon di
Revel, ambiva ad una battaglia navale per vendicare Lissa ed in questa ottica
aveva ottenuto il comando unico delle forze dell’Intesa in Adriatico, e aveva
concentrato a Taranto il meglio della flotta da battaglia, lasciando agli
incrociatori, ai sommergibili e alle unità sottili la sorveglianza del Canale e
la scorta dei convogli in Mediterraneo. L’ammiraglio Enrico Millo tuttavia, l’eroe
della guerra di Libia al comando della squadra navale di Brindisi, non rinunciò
però ad attirare fuori dalle basi il nemico nell’Adriatico, con piccole
operazioni di bombardamento delle coste.
Disapprovata da Thaon di Revel, e
probabilmente minata dallo spionaggio, la strategia di Millo fallì. Dopo la
sorpresa di Ancona, cui si rimediò con la creazione dei treni armati della
Marina che pattugliarono fino all’ultimo giorno di guerra tutta costa
adriatica, gli italiani dovettero subire una serie di delusioni e di
insuccessi: l’incrociatore Amalfi fu silurato il 7 luglio, seguito il 18 dal
Garibaldi e il 27 settembre dalla corazzata Brin, saltata in aria in porto,
forse per sabotaggio.
Già la flotta francese del resto, che operava in Adriatico
dal porto montenegrino di Bar fin dal 1914, aveva perduto nei mesi avanti un
incrociatore, un caccia e un sommergibile ed aveva avuto la corazzata Jean Bart
gravemente danneggiata. L’Adriatico era insomma un luogo estremamente
pericoloso e sottovalutare la marina di Vienna poteva essere fatale. Da parte
italiana si era replicato, su iniziativa del solito Millo, l’11 luglio con
l’occupazione dell’isoletta di Pelagosa, difesa vittoriosamente da un
contro-tentativo di sbarco nemico ma poi abbandonata il 18 agosto. Per altro,
l’attività dei sommergibili tedeschi in Mediterraneo costrinse gli alleati a
dedicarsi alla loro minaccia al traffico mercantile, che assunse tinte
allarmanti. A dispetto di ciò, comunque, l’Italia riuscì comunque a far
giungere entro il 1918 nei propri porti oltre 50 milioni di tonnellate di
merci.
Migliori risultati ottennero gli italiani nelle operazioni di
evacuazione dai porti albanesi dei resti dell’esercito serbo, incalzato dalle
truppe austro-bulgaro-tedesche nel dicembre 1915. Coadiuvata dalle navi
francesi e britanniche la flotta italiana portò in salvo 115.000 dei 170.000
uomini evacuati, subendo perdite relativamente lievi a dispetto della vicinanza
della base austriaca di Cattaro.
Furono perduti due piroscafi e due sommergibili, oltre a
naviglio minore, ma gli austriaci ebbero due caccia affondati dalle mine poste
a protezione dei porti di imbarco. La difficile operazione fu gestita dal nuovo
capo di Stato Maggiore della Marina, Luigi di Savoia, Duca degli Abbruzzi,
subentrato l’11 ottobre all’ammiraglio Thaon di Revel. Il 1916 trascorse con
gli italiani in attesa, studiando le strategie per il nuovo tipo di guerra che
si era presentata, mentre gli austriaci badavano soprattutto ad appoggiare i
sommergibili tedeschi che facevano base in Adriatico per le azioni di corsa e
di collegamento con la Libia, dove armi e tecnici tedeschi sbarcavano di
continuo per alimentare la guerra degli insorti contro italiani e britannici in
nord-Africa.
Proprio l’affondamento del piroscafo italiano Ancona, carico di
passeggeri statunitensi, nel novembre 1915, poco dopo quello del Lusitania in
Atlantico, provocò una grave crisi diplomatica fra Stati Uniti e Austria. Gli
italiani tentarono dapprima di attirare gli austriaci fuori da Pola con
bombardamenti delle stazioni della costa istriana, senza risultato. Poi si
passò a tentare il forzamento di alcuni porti mediante torpediniere veloci, ma
le navi risultarono troppo grandi e poco maneggevoli per azioni simili. Non
migliore risultato dettero i sommergibili, nella cui tecnologia gli italiani
erano troppo addietro. Si ripiegò così su veloci motoscafi , le Motobarche
Armate Svan (Società veneziana automobili nautiche) o MAS, concepiti
inizialmente per la vigilanza anti-sommergibile, ai quali furono affidate incursioni
nei porti nemici. Il primo attacco fu portato il 25 giugno a Durazzo, occupato
dagli austriaci, affondando un piroscafo. Non furono raggiunti risultati
esaltanti, ma gli italiani cominciarono a prendere le misure della basi nemiche
e dei loro punti deboli. intanto però gli austriaci seguitavano a colpire: l’8
giugno il grosso piroscafo Principe Umberto fu silurato, con gravi perdite fra
i soldati a bordo, il 2 agosto 1916 un’altra corazzata, la Leonardo da Vinci,
esplodeva in porto. Fu presto accertato che si trattava di sabotaggio.
Il
vertice della Marina fu investito dalle critiche, che raggiunsero l’apice con
l’affondamento, stavolta su di una mina, della corazzata Regina Margherita l’11
dicembre. Il Comandante della flotta, Duca degli Abbruzzi, fu quindi costretto
a dimettersi venendo sostituito il 4 febbraio 1917 dall’Ammiraglio Thaon di
Revel. La guerra proseguì nel 1917, segnata da una crescente iniziativa dei
mezzi d’assalto italiani, coadiuvati dall’aviazione, e dalla ormai definitiva
limitazione delle grandi navi alla sorveglianza del canale di Otranto. L’unico
scontro fra le flotte alleate e l’austriaca, si verificò nella metà di maggio,
fra la scorta di un convoglio la formazione austriaca inviata ad intercettarlo
ed una formazione anglo-italiana inviata in soccorso. Chiuso senza grossi
risultati, lo scontro confermava la reticenza delle due parti ad impiegare le
grandi navi.
La vittoria di Caporetto sembrò però infondere alla flotta
imperiale nuova aggressività. Stabilita la linea di resistenza italiana sul
Piave, gli austriaci disposero l’utilizzo delle numerose corazzate costiere, fino
ad allora tenute a difesa dei porti, per bombardare dal mare le posizioni
italiane del basso Piave. Da parte italiana si dispose immediatamente la messa
in difesa della base di Venezia, ora a ridosso del fronte, e l’impiego dei MAS
in azioni di difesa costiera e interdizione al traffico navale. Il 16 novembre
nelle acque di Cortellazzo le corazzate costiere Wien e Budapest, impegnate nel
bombardamento delle posizioni tenute dal Reggimento di fanteria di Marina S.
Marco sul basso corso del fiume, furono costrette alla ritirata dai MAS del
tenente di vascello Costanzo Ciano. Il 10 dicembre la stessa Wien venne
affondata dal MAS 9 del tenente di vascello Luigi Rizzo.
Un successivo
tentativo di bombardamento fu controbattuto dalle batterie costiere della
Marina negli ultimi giorni dell’anno. Screditato dall’insuccesso l’ammiraglio
Njegovan cedette il posto a Miklos Horty di Nagybanya, un ungherese freddo e duro
che avrà una poi un ruolo importante nella tragica storia del suo paese.
Teorico, come tutti i suoi colleghi, della grande battaglia navale, Horthy
progettò una grande operazione di forzamento del canale di Otranto che servisse
a guadagnare un successo tale da spegnere sul nascere gli ammutinamenti che
dalla fine del 1917 si cominciavano segnalare nella flotta imperiale,
contagiati dall’esempio della recente rivoluzione russa. In attesa delle
circostanze idonee Horthy non trascurò di riprendere anche le azioni contro la
costa italiana, con scarso successo occorre aggiungere, e di tentare anche uno
sbarco di sabotatori ad Ancona nel febbraio 1918, fallito per la pronta
reazione della sorveglianza costiera. In febbraio, infine, una operazione del
controspionaggio italiano a Zurigo consentì di mettere le mani sulla lista dei
sabotatori e degli informatori austriaci in Italia, ponendo fine alla catena di
sabotaggi e fughe di notizie che avevano segnato negativamente le operazioni
italiane dall’inizio della guerra. Il peggioramento della situazione
complessiva austriaca fu segnato dall’arrivo di forze navali statunitensi e
giapponesi in mediterraneo, rendendo ai sommergibili più difficile il transito
attraverso il Canale d’Otranto.
Gli alleati per altro, proprio in virtù di
questo aumento di forze, mostravano segni di scontento verso la marina
italiana, e cercavano di forzarne un rischieramento verso l’Egeo, nell’ipotesi
di una sortita congiunta delle flotte ottomana e ex-russa equipaggiata dai
tedeschi. Venne anche proposto con insistenza la creazione di un comando unico
mediterraneo a guida britannica cui assoggettare la Regia Marina. Fu in quella
congiuntura che Horthy decise di tentare il forzamento del Canale. La sua flotta
da battaglia, con sette corazzate, dislocata notoriamente in Alto Adriatico,
avrebbe preso il mare segretamente nella notte del 9 giugno e si sarebbe
riunita in mare aperto. Preceduta dagli incrociatori avrebbe fatto rotta sul
Canale. Convinti di una delle solite incursioni di incrociatori, gli alleati
avrebbero inviato una squadra per bloccarli e si sarebbero trovati sotto i
cannoni da 305 delle modernissime corazzate austriache. Il piano fallì per la
fortunosa coincidenza che portò la squadriglia di MAS di Rizzo, l’affondatore
della Wien, sulla rotta degli austriaci presso l’isola di Premuda, dove
l’ammiraglia austriaca Szent Istvan fu affondata all’alba del 10 giugno. Perso
il vantaggio della sorpresa, Horthy decise di ripiegare. Il successo rinsaldò
il prestigio italiano e creò una crisi in seno alla flotta imperiale, dove gli
incidenti si moltiplicarono fra tedeschi e slavi. Negli ultimi mesi di guerra
le operazioni navali ristagnarono, eccezion fatta per i soliti sommergibili
tedeschi.
Fu in queste condizioni, che una ulteriore specialità cui gli
italiani si erano dedicati negli ultimi mesi ebbe il suo battesimo del fuoco.
Per attaccare fin nei porti la flotta nemica, lo Stato Maggiore della Regia
Marina aveva infatti studiato dei siluri sottomarini, a pilotaggio umano, atti
a minare le navi nemiche in porto. Fu così che la notte fra il 31 ottobre e il
1° novembre 19118 Il capitano del genio Navale Raffaele Rossetti e il tenente
di vascello Raffaele Paolucci penetrarono nel porto di Pola minando e
affondando la corazzata nemica Viribus Unitis.
Da alcune ore tuttavia, la nave
era stata ceduta al neonato Stato degli sloveni, croati e Serbi dal defunto
Impero Austro-ungarico. Vienna infatti aveva chiesto e ottenuto dall’Italia
l’armistizio quello stesso giorno, con effettività 48 ore dopo. Al pomeriggio
del 3 novembre, con l’ingresso del caccia Audace nel porto di Trieste la Grande
Guerra italiana sul mare celebrava la sua fine.
Paolo Formiconi Collaboratore dell’Ufficio Storico della
Difesa