Mio padre, Battista Giacomino, si
trovava in Calabria per lavoro con mio nonno quando era stato convocato per la
visita di leva, ed era perfin stato considerato renitente. In seguito si era
presentato il 4 giugno del 1917 alla visita per delegazione a Cosenza, dove era
stato dichiarato abile dal Consiglio di leva e arruolato in prima categoria.
Egli, nato il 31 maggio del 1899,
aveva appena compiuto 18 anni.
Io non ho notizie sicure, ma penso
sia tornato a casa sua, a Sale Castelnuovo (TO), per salutare la madre, i
fratelli e le sorelle, prima d’andare al fronte, perché i soldati si radunavano
a Ivrea, distretto dove giungevano i giovani da tutto il Canavese. Mio padre
era stato assegnato al Quarto Reggimento Alpino, Battaglione Ivrea, il 18
giugno del 1917.
Dopo un primo addestramento per
apprendere l’uso delle armi, i soldati venivano portati nel Veneto, verso il
fronte in treno e continuavano l’addestramento riservato ai battaglioni per le
manovre militari. L’equipaggiamento consisteva in: divisa, armi, comprese bombe
a mano, baionetta, munizioni ed anche la maschera per difendersi dai gas
velenosi che i nemici buttavano sui nostri campi. Gli ufficiali, usavano un
protocollo rigido, cercando di preparare le truppe per poi portarle al
combattimento in prima linea. Una propaganda retorica voleva che questi
ragazzi, che non avevano nessuna ragione per uccidere un nemico sconosciuto,
combattessero per fare più grande il nostro Paese e per un avvenire che tanti
non avrebbero poi visto.
Nessuno si rendeva conto che
sarebbe stata una guerra lunga, faticosa, diversa da quelle combattute fino a
quel momento, che avrebbe annientato civili innocenti e portato tanti morti e
feriti in tutto il mondo.
Il 16 settembre mio padre era in
territorio di guerra e faceva parte del Settimo Reggimento Alpini, Battaglione
Monte Pavione. In questo posto c’erano stati tanti combattimenti; egli, poi a
casa, raccontava poco della guerra, ma una volta aveva parlato delle posizioni
nemiche in alto, sulle montagne, con fortificazioni e mitragliatrici. Per i
nostri soldati era difficile conquistarle, sotto tiro come si trovavano, arrivando
dalle vallate.
Anche i nostri soldati avevano
bombe a mano, ma mio padre diceva che bisognava fare molta attenzione perché se
si gettavano subito, il nemico poteva nuovamente buttarle ai nostri, dato che
l’esplosione tardava.
Anche con tutti questi problemi e
gli attacchi pesanti, un giorno, i nostri alpini erano riusciti a conquistare una
collina vicino al Monte Grappa. Il loro capitano aveva avuto parole di lode e
voleva proporli per la medaglia d’oro, per questo aveva scritto tutti i nomi
dei valorosi, per poterli poi premiare. Ma una bomba era arrivata vicino a loro
e lo scoppio aveva ucciso il capitano facendo perdere il suo corpo e così non era
stato possibile, per quei valorosi, alcun premio; fra quei ragazzi coraggiosi
c’era anche mio padre.
Penso che questo episodio sia
avvenuto l’11 dicembre del 1917, perché in quella data c’era stato un lungo
combattimento ed il suo capitano era morto.
Il fronte della guerra, dopo
Caporetto, si era spostato dall’Isonzo alla linea del Piave e sul Grappa, i giovani
combattevano con coraggio, tanto da meritare l’elogio del nemico che aveva
riconosciuto l’ardimento dei soldati italiani.
Le battaglie erano tante e il 13
dicembre un’altra, molto sanguinosa; gli alpini erano andati all’assalto di corsa,
e anche mio padre era corso incontro al nemico, senza sapere che da allora non
avrebbe mai più potuto correre, dato che in questo combattimento era stato
ferito da una bomba al ginocchio sinistro e al costato.
Senza potersi muovere aveva dovuto
nascondersi in mezzo ai morti, con i tedeschi che passavano e finivano con un
colpo di baionetta o con le mazze i feriti che erano a terra.
Era riuscito a salvarsi, ma era passato
tanto tempo prima che qualcuno l’avesse poi soccorso e, caricato su un mulo,
portato fino all’ospedale da campo di Crespano.
Lì era stato medicato, ma
l’infezione al ginocchio aveva compromesso l’articolazione che era rimasta offesa
e inservibile.
Il 9 gennaio del 1918 era stato
trasferito all’ospedale militare di Pavia.
L’8 agosto era stato mandato in
licenza straordinaria, così era tornato a casa vivo, ma a 19 anni mutilato e
senza lavoro, primo di cinque figli, in un paese di montagna dove il mestiere
del contadino comportava
tante fatiche e pochi denari
perfino a chi era sano, figuriamoci a lui che aveva problemi nei movimenti e
ferite che l’hanno fatto soffrire
per tutta la vita!
Mio padre aveva avuto qualche
decorazione: la croce al merito di guerra, la medaglia in ricordo della guerra
1915-18 e la medaglia degli alleati.
A casa non si parlava della Prima
guerra mondiale che aveva combattuto, egli diceva: “È qualcosa che non si può
raccontare!..”. E non poteva guardare i film sulla guerra: “Non sanno ciò che
vuol dire essere in guerra!”.
In effetti i governanti avevano
portato in rovina un Paese causando povertà e lutti in tante famiglie.
Mio padre, Ragazzo del ‘99, in
guerra
Rita Giacomino, Torino