Negli anni immediatamente
successivi alla Prima guerra mondiale si guardò con nostalgia e rimpianto
all’epoca precedente, quella compresa tra l’ultimo ventennio dell’Ottocento e
il primo decennio del Novecento; epoca considerata bella, chiamata appunto la Belle
époque. Durante essa i progressi della scienza e della tecnica erano stati
sbalorditivi (illuminazione elettrica, radio, automobile, transatlantici, scale
mobili, tram elettrici, sviluppo prorompente delle reti ferroviarie, aeroplano,
ecc.); si era realizzata la globalizzazione (quella che stiamo vivendo oggi è
la seconda); grazie all’affermarsi del taylorismo, la produzione era
enormemente aumentata; i consumi erano sensibilmente cresciuti; la buona
società delle città frequentava i caffè, dove avvenivano amabili e colte
discussioni, e assisteva a piacevoli spettacoli di can-can, oppure alla
rappresentazione di operette.
Un mondo, la Belle époque, che grondava di
ottimismo, perché tutto sembrava possibile, nell’ottica di fondare il migliore
dei mondi possibili. In realtà, non era oro tutto ciò che luccicava; anzi, le
contraddizioni erano tante. La ricchezza di alcuni Stati (Francia,
Granbretagna, Usa, Germania, Giappone, su tutti) si fondava anche sullo
sfruttamento di milioni di uomini che vivevano in territori che erano stati con
la forza conquistati (imperialismo); un’oligarchia di banchieri e industriali
aveva acquisito il controllo della produzione e dei mercati; s’era verificato
un capovolgimento etico, per cui l’uomo era asservito agli interessi dell’industria
e della finanza; dei ceti emarginati, soprattutto dei contadini, nessuno
s’occupava e quindi, tra il 1850 e il 1910, cinquanta milioni di europei,
quindici dei quali italiani, furono costretti ad emigrare nelle colonie, oppure
nel continente americano. In questo contesto, cioè in un mondo in ebollizione,
guerre scoppiarono in ogni angolo della terra (guerra ispano-americana, g. in
Cina, g. russo-giapponese, g. italo-turca, guerre balcaniche, ecc.) e fecero da
preludio allo scoppio della Prima guerra mondiale.
Numerosi letterati italiani,
come figli del loro tempo, si illusero di poter trovare nell’interventismo il
palcoscenico ideale sul quale rappresentare - ciascuno a modo suo, perché
c’erano nazionalisti, sindacalisti rivoluzionari, futuristi, antisocialisti,
patrioti alla ricerca di un’Unità nazionale ancora da realizzare, coscienze
naufragate - il loro mondo ideale e trovare la soluzione ai diversi problemi,
quasi riassunti dal cesenate Renato Serra nell’Esame di coscienza di un
letterato quando scrisse che la guerra gli aveva consentito di ritrovare il
contatto con altri numerosi uomini, di mettersi finalmente in marcia con essi;
tutti insieme, con le loro esigenze e bisogni da soddisfare.
Morì sul Podgora
il 20 luglio 1915. Personalità diverse e modi diversi di narrare il conflitto.
Sopra la righe e di pessimo gusto fu l’esaltazione che ne fece Papini, la cui
penna scrisse di “bella innaffiatura di sangue per l’arsura di agosto”, “rossa
svinatura per le vendemmie di settembre”, madri che dovevano giustamente
piangere la morte dei figli per pagare il piacere che provarono quando furono
ingravidate.
D’Annunzio la cantò da esteta. La guerra diveniva la grande
occasione per il “bel gesto”, come furono i suoi voli su Vienna, la beffa di
Buccari, il continuo rischio eroico della vita.
L’economista Pareto giudicò la
guerra atta a sconfiggere il socialismo e a salvare la borghesia per almeno un
cinquantennio. Il triestino Scipio Slataper l’esaltò come il campo ideale per
l’azione dei patrioti animati da alto senso morale; fu volontario nei
granatieri, ferito a Monfalcone; appena guarito, ritornò al fronte e trovò la
morte il 3 dicembre sul Podgora. Pietro Jahier vi vide l’occasione storica e il
mezzo per rendere protagoniste le masse contadine.
Ungaretti (partecipò alla
campagna interventista e tra il 1915 e il 1918 combatté sul Carso e
sull’Isonzo) vi trovò l’occasione, non importa se illusoria, perché gli uomini
prendessero coscienza del sentimento di fraternità (“fratelli/...involontaria
rivolta/dell’uomo presente alla sua/fragilità”) e di eternità (“Chiuso fra cose
mortali.../perché bramo Dio?”; “Ti basta un’illusione/per farti coraggio”) e
dimostrazione, non importa se irrazionale, dell’attaccamento dell’uomo alla
vita (“La morte/si sconta/vivendo”).
Marinetti esaltò, contro la borghesia
pacifista (e per questo giudicata pavida), la guerra come “igiene del mondo”.
Vi partecipò e rimase ferito nel 1917 a Zagora. Interventisti furono Giuseppe
Prezzolini e Ardengo Soffici, che, coerentemente, parteciparono come ufficiali
al conflitto. Pirandello accettò la guerra (mandò a combattere i suoi figli
Stefano e Fausto), anche se fu convinto che si trattasse di un qualcosa di
effimero, come tutti i fatti, e che la vita degli uomini sarebbe rimasta, nel
dopoguerra, esattamente come prima, coi suoi bisogni, con le sue passioni e i
suoi istinti. Il triestino Carlo Stuparich, irredentista, passò, nel giro di un
anno, dall’entusiasmo iniziale (si arruolò volontario) alla disillusione, che
lo condusse a sperare di morire, non sentendosi capace di una vita piena. Negli
anni immediatamente successivi alla guerra i disillusi furono numerosissimi, di
fronte allo spettacolo di un mondo che si chiudeva viepiù negli spazi ristretti
del nazionalismo e che sostituiva alla ragione il mito (di Roma, della
giovinezza, del superuomo, della razza); e non rimase ad essi che il rimpianto
e la nostalgia per un’epoca, la Belle époque, che la guerra aveva spazzato via.
Francesco Piazza già Docente di Italiano e Storia negli Istituti Tecnici
Statali - Treviso