venerdì 14 giugno 2019

La Grande Guerra e gli imperi scomparsi


La Grande guerra 1914-18 segna il declino della centralità geopolitica delle vecchie potenze europee. Esattamente cento anni fa (singolare anniversario mentre incomincia Oltreoceano una presidenza neo-isolazionista), nell’aprile 1917, gli Stati Uniti d’America di Woodrow Wilson entravano nel conflitto a fianco dell’Intesa; i Quattordici punti predisposti l’anno dopo dal Presidente americano costituiranno la base della definizione degli assetti post-bellici alla conferenza di Versailles, e da allora non vi saranno più guerre o crisi internazionali nelle quali gli Usa non faranno avvertire il proprio peso. 
Una delle conseguenze più evidenti, in Europa, del Primo conflitto mondiale, fu la caduta di quattro Imperi, tre plurisecolari: uno, il secondo Reich tedesco, costituito appena nel 1871. Nel pieno della guerra, nel 1917, la Russia venne investita dalle due rivoluzioni – quella democratica di febbraio e quella bolscevica di ottobre – che travolsero la dinastia dei Romanov; il governo comunista di Vladimir Lenin negoziò tempestivamente l’uscita dal conflitto (pace di Brest-Litovsk). Effetti immediati della disfatta militare furono poi, nel novembre 1918, le abdicazioni imposte ai due Kaiser degli Imperi centrali e il crollo delle monarchie degli Hohenzollern in Germania e degli Asburgo in Austria e Ungheria. 
La sconfitta portò anche allo smembramento dell’Impero ottomano, alleato militare della Germania, da parte delle potenze occidentali (in particolare la Francia e la Gran Bretagna), che seppero sfruttare le rivolte arabe e definire, sotto la propria influenza, i nuovi Stati nel Vicino Oriente, e, qualche anno dopo, 1923, all’instaurazione in Turchia della Repubblica di Mustafà Kemal ‘Ataturk’ con l’abolizione prima del sultanato e poi del califfato musulmano. La caduta dei quattro Imperi non ebbe conseguenze indifferenti per i Paesi interessati e per l’Europa nel suo complesso. In Russia settant’anni di cupo totalitarismo, culminato nei decenni staliniani, compromisero (per sempre?) qualunque pur tenue possibilità di evoluzione politica in senso liberale e democratico. 
L’Austria fu ridotta a una repubblica mitteleuropea di scarsissima rilevanza continentale e internazionale, prima di essere brutalmente annessa dalla Germania di Hitler nel 1938; l’Ungheria, dopo un breve e confuso esperimento ‘sovietico’, divenne una singolare monarchia reggenziale dell’ammiraglio Horthy (che si era opposto ai tentativi di Carlo d’Asburgo di conservare o riconquistare almeno la corona magiara), prima di finire invasa dalla Germania nazista e infine asservita all’Urss nel dopoguerra. 
La Germania di Guglielmo II era assurta a simbolo del militarismo, il Kaiser non nutriva propensioni liberali e tuttavia si trattava pur sempre di una monarchia costituzionale, con un Parlamento bicamerale e un’opposizione ammessa, quella dei socialdemocratici e, in parte, del Zentrum di ispirazione cattolica. È innegabile che dopo la parentesi democratica e repubblicana della Costituzione di Weimar, alcuni Hohenzollern di spicco, a cominciare dal principe ereditario, abbiano apertamente simpatizzato e perfino aderito per un certo tempo al nazionalsocialismo hitleriano. Ma non è meno vero che Hitler abbia ‘strappato’ il testamento del maresciallo Hindenburg che avrebbe voluto, alla sua morte, una restaurazione monarchica e non l’accentramento nel Fuehrer anche dei poteri di capo dello Stato. 
Hitler avvertiva l’istituto monarchico come un limite insopportabile al proprio regime totalitario e criticava Mussolini per averlo invece conservato in Italia. Quanto alla Turchia, essa subì una netta trasformazione: da Impero plurinazionale e plurireligioso divenne una repubblica euroasiatica la cui ideologia “si basava sull’affermazione di una radicale rottura con il passato” ottomano (Surajva Faroqhi) in direzione del laicismo, del nazionalismo, dell’industrializzazione e di una assimilazione autoritaria dei modelli occidentali, influendo anche su Paesi vicini (come la Persia divenuta Iran). Dopo la morte di Kemal e la democratizzazione avviata dal suo successore Ismet Inonu, la Turchia moderna ha conosciuto un crescente consolidarsi del potere dei militari tradotto nei colpi di Stato del 1960 e del 1980. Fino a quando l’affermazione del partito islamico e l’avvento dell’attuale presidente e ‘uomo forte’ Recep T.Erdogan non ha fatto riemergere le ambizioni e la prospettiva di un nuovo e inedito sultanato repubblicano. I cui interessi mediorientali convergono (per ora) con quelli della Russia di Putin. 

Gianpiero Goffi Giornalista, “La Provincia”, Cremona

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