Dopo il discorso di Wilson
al Congresso dell’8 gennaio 1918 i 14 punti del presidente americano divennero
i fini di guerra degli Stati Uniti e dettero al suo autore una straordinaria
popolarità. Piacquero alle minoranze degli Imperi centrali e dell’Impero russo
a cui offrivano la speranza di uno Stato nazionale. Piacquero in particolare ai
serbi, ansiosi di realizzare, con le provincie croate e slovene
dell’Austria-Ungheria, un regno degli slavi del sud. Piacqero a un poeta,
Gabriele D’Annunzio, che definì il presidente americano “cavaliere
dell’umanità”. Piacquero agli italiani che vedevano in quel documento l’eco del
sogno politico di Giuseppe Mazzini (Wilson si fermò a Genova per rendere
omaggio al suo monumento durante il viaggio in Italia nel gennaio del 1919).
Suscitarono qualche speranza, infine, persino nel campo dei Paesi che di lì a
poco avrebbero perduto la guerra.
Diffuso in Europa durante l’ultima fase del
conflitto, mentre Austria e Germania combattevano sempre più faticosamente le
loro ultime battaglie, il programma di Wilson creò infatti nei due Paesi, al
momento dell’armistizio, l’illusione di una pace non punitiva. In un documento
austriaco del 7 ottobre del 1918, trasmesso al segretario di Stato americano
dal ministro di Svezia a Washington, si legge che l’Austria-Ungheria era pronta
a iniziare negoziati di pace “sulla base dei 14 punti”. I negoziati dell’Italia
con gli Alleati furono complicati da una sorta d’incompatibilità caratteriale
fra Wilson e il presidente del Consiglio italiano.
Vittorio Emanuele Orlando
era un eccellente giurista, esperto di diritto amministrativo e costituzionale,
formato nelle università italiane e tedesche. Quando fu eletto alla Camera dei
deputati, nel 1895, si sedette a Montecitorio fra i liberali e fu apprezzato
soprattutto per i suoi interventi nelle grandi questioni istituzionali che il
Paese dovette affrontare agli inizi del secolo: il diritto di sciopero, la
riforma della scuola elementare, quella dell’ordinamento giudiziario, la
statuto giuridico degli impiegati dello Stato.
Fu ministro della Giustizia nel
governo di Giolitti dal 1907 al 1909 e più tardi, nel governo di Antonio
Salandra dal 1914 al 1916 quando preparò un disegno di legge per la “difesa
economica e militare dello Stato” con cui venivano attribuiti all’esecutivo i
pieni poteri in numerose materie. Quando Salandra fu sostituito da un vecchio
uomo politico, Paolo Boselli, Orlando divenne ministro degli Interni e difese
le libertà costituzionali contro il comandante supremo Luigi Cadorna. Fu quindi
l’uomo politico che seppe adattare l’ordinamento dello Stato alle esigenze del
conflitto, ma anche quello che non cedette alle tendenze autoritarie dei
comandi militari. È questa la ragione per cui, dopo la rottura del fronte
italiano a Caporetto, gli fu affidato il compito di formare un nuovo governo.
La riorganizzazione delle forze armate fu dovuta al nuovo comandante supremo,
Armando Diaz, ma Orlando grazie alla sua eloquenza e al calore mediterraneo dei
suoi discorsi divenne alla fine della guerra il “presidente della Vittoria”,
l’uomo che meglio incarnava, agli occhi della maggioranza degli italiani lo
spirito dell’”Italia risorta” e che avrebbe meglio rappresentato il suo Paese
al tavolo della pace.
Con Wilson in particolare sembrava fatto per intendersi.
I due uomini di Stato avevano fatto studi giuridici, avevano un passato
accademico, avevano trattato questioni di diritto costituzionale ed erano stati
brillanti riformatori. Ma i loro caratteri e il loro stile erano alquanto
diversi: Wilson saccente, insofferente e altero, Orlando troppo incline ad
atteggiamenti retorici ed emotivi. Ma al presidente del Consiglio italiano
nocque soprattutto l’ambiguità di una linea negoziale che chiedeva
contemporaneamente due cose difficilmente compatibili: la piena esecuzione del
Patto di Londra, firmato con gli Alleati nell’aprile del 1915, in nome della
diplomazia tradizionale, e Fiume in nome del principio di autodeterminazione.
Wilson propose una soluzione che prevedeva per Fiume l’autonomia nell’ambito
del sistema doganale jugoslavo, il governo italiano respinse il progetto e il
presidente americano, a sua volta, scavalcò Orlando per indirizzare un pubblico
appello alla nazione italiana. Era il 23 aprile 1919. Il giorno dopo Orlando e
il suo ministro degli Esteri, Sidney Sonnino, rientrarono a Roma.
Il presidente
del Consiglio sostenne che aveva l’obbligo, in quelle circostanze, di accertare
la fiducia del Parlamento, ma è probabile che sperasse di costringere la
Francia e la Gran Bretagna a fare pressioni su Wilson perché modificasse la sua
posizione. Ebbe l’approvazione della Camera dei deputati, ma Clemenceau e Lloyd
George gli ricordarono che gli Alleati si erano impegnati a non firmare paci
separate e che la sua assenza a Parigi in occasione del primo incontro con i
plenipotenziari tedeschi, austriaci e ungheresi, avrebbe fatto decadere le
clausole del Patto di Londra relative all’Italia. Tornò a Parigi il 7
maggio, quindi, ma ancora più debole di quanto fosse al momento della partenza.
Poco più di un mese dopo il suo governo cadde alla Camera dopo un dibattito nel
corso del quale il presidente del Consiglio aveva chiesto che le discussioni
sulla politica estera avessero luogo a porte chiuse. Divenne presidente della
Camera e fu sempre, anche durante il fascismo, una rispettabile personalità
nazionale, ma nei negoziati per la pace non ebbe da allora alcun ruolo.
Sergio Romano Ambasciatore
Tratto da: AA.VV. « Ils Ont
fait la paix. Le Traité de Versailles vu de France et d’ailleurs, a cura di
Serge Berstein, Paris Les Arènes 2018