martedì 21 gennaio 2020

Wilson e Orlando


Dopo il discorso di Wilson al Congresso dell’8 gennaio 1918 i 14 punti del presidente americano divennero i fini di guerra degli Stati Uniti e dettero al suo autore una straordinaria popolarità. Piacquero alle minoranze degli Imperi centrali e dell’Impero russo a cui offrivano la speranza di uno Stato nazionale. Piacquero in particolare ai serbi, ansiosi di realizzare, con le provincie croate e slovene dell’Austria-Ungheria, un regno degli slavi del sud. Piacqero a un poeta, Gabriele D’Annunzio, che definì il presidente americano “cavaliere dell’umanità”. Piacquero agli italiani che vedevano in quel documento l’eco del sogno politico di Giuseppe Mazzini (Wilson si fermò a Genova per rendere omaggio al suo monumento durante il viaggio in Italia nel gennaio del 1919). Suscitarono qualche speranza, infine, persino nel campo dei Paesi che di lì a poco avrebbero perduto la guerra. 
Diffuso in Europa durante l’ultima fase del conflitto, mentre Austria e Germania combattevano sempre più faticosamente le loro ultime battaglie, il programma di Wilson creò infatti nei due Paesi, al momento dell’armistizio, l’illusione di una pace non punitiva. In un documento austriaco del 7 ottobre del 1918, trasmesso al segretario di Stato americano dal ministro di Svezia a Washington, si legge che l’Austria-Ungheria era pronta a iniziare negoziati di pace “sulla base dei 14 punti”. I negoziati dell’Italia con gli Alleati furono complicati da una sorta d’incompatibilità caratteriale fra Wilson e il presidente del Consiglio italiano. 
Vittorio Emanuele Orlando era un eccellente giurista, esperto di diritto amministrativo e costituzionale, formato nelle università italiane e tedesche. Quando fu eletto alla Camera dei deputati, nel 1895, si sedette a Montecitorio fra i liberali e fu apprezzato soprattutto per i suoi interventi nelle grandi questioni istituzionali che il Paese dovette affrontare agli inizi del secolo: il diritto di sciopero, la riforma della scuola elementare, quella dell’ordinamento giudiziario, la statuto giuridico degli impiegati dello Stato. 
Fu ministro della Giustizia nel governo di Giolitti dal 1907 al 1909 e più tardi, nel governo di Antonio Salandra dal 1914 al 1916 quando preparò un disegno di legge per la “difesa economica e militare dello Stato” con cui venivano attribuiti all’esecutivo i pieni poteri in numerose materie. Quando Salandra fu sostituito da un vecchio uomo politico, Paolo Boselli, Orlando divenne ministro degli Interni e difese le libertà costituzionali contro il comandante supremo Luigi Cadorna. Fu quindi l’uomo politico che seppe adattare l’ordinamento dello Stato alle esigenze del conflitto, ma anche quello che non cedette alle tendenze autoritarie dei comandi militari. È questa la ragione per cui, dopo la rottura del fronte italiano a Caporetto, gli fu affidato il compito di formare un nuovo governo. 
La riorganizzazione delle forze armate fu dovuta al nuovo comandante supremo, Armando Diaz, ma Orlando grazie alla sua eloquenza e al calore mediterraneo dei suoi discorsi divenne alla fine della guerra il “presidente della Vittoria”, l’uomo che meglio incarnava, agli occhi della maggioranza degli italiani lo spirito dell’”Italia risorta” e che avrebbe meglio rappresentato il suo Paese al tavolo della pace. 
Con Wilson in particolare sembrava fatto per intendersi. I due uomini di Stato avevano fatto studi giuridici, avevano un passato accademico, avevano trattato questioni di diritto costituzionale ed erano stati brillanti riformatori. Ma i loro caratteri e il loro stile erano alquanto diversi: Wilson saccente, insofferente e altero, Orlando troppo incline ad atteggiamenti retorici ed emotivi. Ma al presidente del Consiglio italiano nocque soprattutto l’ambiguità di una linea negoziale che chiedeva contemporaneamente due cose difficilmente compatibili: la piena esecuzione del Patto di Londra, firmato con gli Alleati nell’aprile del 1915, in nome della diplomazia tradizionale, e Fiume in nome del principio di autodeterminazione. 
Wilson propose una soluzione che prevedeva per Fiume l’autonomia nell’ambito del sistema doganale jugoslavo, il governo italiano respinse il progetto e il presidente americano, a sua volta, scavalcò Orlando per indirizzare un pubblico appello alla nazione italiana. Era il 23 aprile 1919. Il giorno dopo Orlando e il suo ministro degli Esteri, Sidney Sonnino, rientrarono a Roma. 
Il presidente del Consiglio sostenne che aveva l’obbligo, in quelle circostanze, di accertare la fiducia del Parlamento, ma è probabile che sperasse di costringere la Francia e la Gran Bretagna a fare pressioni su Wilson perché modificasse la sua posizione. Ebbe l’approvazione della Camera dei deputati, ma Clemenceau e Lloyd George gli ricordarono che gli Alleati si erano impegnati a non firmare paci separate e che la sua assenza a Parigi in occasione del primo incontro con i plenipotenziari tedeschi, austriaci e ungheresi, avrebbe fatto decadere le clausole del Patto di Londra relative all’Italia. Tornò a Parigi il 7 maggio, quindi, ma ancora più debole di quanto fosse al momento della partenza. Poco più di un mese dopo il suo governo cadde alla Camera dopo un dibattito nel corso del quale il presidente del Consiglio aveva chiesto che le discussioni sulla politica estera avessero luogo a porte chiuse. Divenne presidente della Camera e fu sempre, anche durante il fascismo, una rispettabile personalità nazionale, ma nei negoziati per la pace non ebbe da allora alcun ruolo.

Sergio Romano Ambasciatore

Tratto da: AA.VV. « Ils Ont fait la paix. Le Traité de Versailles vu de France et d’ailleurs, a cura di Serge Berstein, Paris Les Arènes 2018

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