Il 26 giugno 1917
il Comando Supremo italiano ordinava l’istituzione di un reparto d’assalto per
ogni Armata: da tale disposizione si può far datare la nascita degli Arditi.
La
prima ad inquadrare nei propri organici tale reparto fu la 2^ Armata. Proponente
e sperimentatore della specialità era stato il tenente colonnello Giuseppe
Alberto Bassi, che il 14 maggio 1917, nell’attacco di Monte San Marco, aveva
messo alla prova, ancora col grado di maggiore, fondamentali innovazioni
tattiche, coadiuvato dall’impiego di mitragliatrici pesanti e dal fuoco di
appoggio dell’artiglieria.
Di lì a poco (29 luglio) ci sarebbe stata la visita
del Re e la sua personale approvazione della nuova uniforme, e il 18-19 agosto
il battesimo del fuoco del I reparto, a Monte Fratta, in occasione della 11^
battaglia dell’Isonzo. La genialità di una scelta come quella operata dal
Bassi, di costituire una specialità nuova di truppe d’assalto da impiegare per
lo sblocco di situazioni difficili, supportate dal resto dei combattenti (fanteria
ed artiglieria), nasce dalla necessità di risolvere lo stallo della guerra di
trincea, e ripropone l’ardimento italico al fante italiano, poco addestrato,
mal nutrito e pessimamente condotto, non fosse altro perché gli schemi del
Comando Supremo erano antiquati e non si adattavano alla distruttività delle
armi prodotte da una tecnologia industriale affatto diversa da quella dei conflitti
precedenti.
La logica dello scontro frontale, sia pure supportato
dall’artiglieria, non era idonea ad ottenere risultati che non fossero inutili
carneficine. Se si esamina il Decalogo dell’Ardito, a firma di Francesco
Saverio Grazioli, tenente generale del Corpo d’Armata d’Assalto (giugno 1918),
da ultimo, ma non da meno, si scopre che così recita l’art.10: “Corri alla
battaglia.
Tu sei la più fulgida espressione del genio di nostra razza …”.
Certamente è retorica, ma, nel nostro caso, di quella che sa vedere dentro la
storia, e non semplicemente dentro “una” storia, cioè dentro vicende di certo
tra loro diverse, che però si propone di accomunare, rendendo una sola la
pletora di stirpi della Penisola, e rendendo attuali tutte le epoche, che
quella storia hanno costruita, nel travaglio di guerre ora contro uno straniero
ora fratricide.
Negli Arditi rivive uno spirito unitario, che fonde le
esperienze della Compagnia della Morte di Legnano, dei feditori a cavallo di
Campaldino, degli archibugieri di Giovanni delle Bande Nere e, per venire a
tempi viciniori, degli stessi garibaldini – esempio non solo di valorosi combattenti
“politici”, ma, dal punto di vista tecnico, di truppe veloci e leggere use al
colpo di mano.
Purtroppo il cattivo coordinamento tra Comandi non sempre seppe
sfruttare il successo seguente all’impeto dell’attacco vittorioso, secondo
l’indicazione offerta dallo stesso Grazioli nell’art.3 del citato decalogo: “La
vittoria è al di là dell’ultima trincea del nemico, è nelle sue retrovie; per
giungervi adopera violenza e astuzia, né curare se nell’avanzata impetuosa
nuclei avversari ti resteranno alle spalle…”.
È un’indicazione “tecnica” più
che un articolo di fede da porsi in un decalogo che, come tutti i decaloghi, ha
peraltro un’ispirazione sfuggente alla comune manualistica di addestramento. Il
consiglio è semplice e brutale: sfondare, come si diceva in epoca napoleonica,
“alla solita vecchia maniera”, con la rapidità di romani velites che abbiano un
munizionamento di pistole mitragliatrici e bombe a mano, per passare dall’altra
parte dell’ultima linea difensiva avversaria, per irradiarsi alle spalle del nemico,
creare sconcerto, confusione, distruzione: “Se giungi nelle retrovie nemiche
gettavi lo scompiglio ed il terrore; un ardito può valere cento uomini…”
(art.6).
Si tratta di un principio che, sul medesimo fondamento dell’azione di
un’agguerrita truppa d’assalto, in grande stile avrebbero operato i reparti
tedeschi non dipendenti dalla Wehrmacht nei confronti dell’armata sovietica in
quanto truppe d’élite dalla solida preparazione. Nel 1918 non si arriva a
teorizzare una penetrazione in territorio occupato “dietro le linee”, ma
l’intuizione c’è tutta. Forse si sarebbe dovuto disporre di spazi più vasti,
come poteva avvenire nelle colonie, dove creare le condizioni di una efficace
guerriglia – e, si noti, l’azione degli Arditi, qualora si prescinda dalla frontalità
(trincea versus trincea), è in larga misura ispirata alla petite guerre di
sempre, a quella medesima realtà bellica che spesso, nella manualistica
regolamentare del Settecento, era, in definitiva, la guerre des postes, ora,
però, attuata con armi più distruttive, anche se il pugnale veniva annoverato
nella normale dotazione delle truppe d’assalto italiane e ne costituiva il
simbolo più appropriato e psicologicamente incisivo: più corto dell’arma breve
del legionario, più snello e maneggevole della baionetta, a metà tra il pugione
e la misericordia. Senonché un alto ufficiale dell’epoca non avrebbe mai potuto
ammettere un comportamento che si discostasse più di tanto da una ricevuta e
consolidata prassi regolamentare, e nulla di più alieno sarebbe stato per lui
la valenza “politica” accompagnata allo sforzo bellico.
Ci si batteva ancora
“per il Re e per la Patria”, al di fuori di schemi ideologici che non fossero
quelli della tradizionale fedeltà ad una dinastia, la quale ancora regnava,
anche se non più per esclusiva grazia di Dio. I contenuti impliciti
nell’arditismo avrebbero trasformato – ma solo dopo la conclusione della guerra
– tanti arditi in “soldati politici”, cioè in rivoluzionari, di destra o di
sinistra non importa, infatti per sua essenza la rivoluzione è una, e le sue
declinazioni sono, a ben vedere, legate solo ad occasionali contingenze. Ma,
come si dice in tali casi, questa è un’altra storia.
Dunque, se ci fermiamo al
4 novembre 1918, comprendiamo benissimo come il Comando Supremo fosse solo
attento alle conseguenze “tattiche” delle azioni arditesche, sorvolando (o
reprimendo) qualsiasi pulsione dettata da quelle che apparivano come fuorviate
visioni del mondo. “La simbiosi fra Arditismo e Futurismo ci parla da sola
dell’ideologia politica che innervava quel fenomeno combattentistico”.
L’osservazione di Luca Leonello Rimbotti è calzante ed appropriata, come le
caratteristiche implicate risultavano poco accettabili per chi avesse voluto
porsi come difensore dell’ordine politico e sociale: culto dell’azione,
esaltazione dell’aristocrazia guerriera, mito assoluto dell’italianità,
esaltazione della giovinezza, ostilità verso il modo borghese e conservatore,
verso la Chiesa e il dominio dei preti…
Credo che ce ne fosse abbastanza per diffi
dare delle conseguenze e delle implicazioni di chi, tornato dal fronte dopo
avere bene meritato della propria arditezza, rischiava di inserire nella
quotidianità elementi in stridente dissonanza col tranquillo tran-tran che ci
si ostinava a proclamare pace, comunque questa si volesse definire e valutare.
Per un vero ardito non si poteva invocare la compostezza del bravo filius
familias, che, reduce, si adattasse a finire gli studi, comparendo davanti a
commissioni d’esame composte da professori vecchi, occhialuti e bolsi
(all’epoca non si usavano ancora professoresse): in proposito Giovanni Comisso
ci ha lasciato pagine indimenticabili.
Mentre, dal canto loro, gli alti vertici
militari si erano lasciati sfuggire la formidabile innovazione, che pure si era
profilata ed in parte esplorata sul finire del conflitto, della costituzione,
in pianta stabile, di un’Armata d’Assalto. Perciò gli Arditi non giunsero mai
alla solidità dei granatieri, essendo nati per altri scopi ed in fondo troppo
tardi perché davvero potessero evolvere in Grandi Unità capaci di imprimere non
solo una drastica svolta alle operazioni, ma anche – e soprattutto – dare luogo
ad un Esercito Italiano dotato di caratteristiche nuove, al passo con i tempi,
e pronto ad effi caci cimenti.
Carlo Arrigo
Pedretti già Preside del Lic. Cl. St. “G. Parini” di Milano
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