mercoledì 8 aprile 2020

Gli Arditi


Il 26 giugno 1917 il Comando Supremo italiano ordinava l’istituzione di un reparto d’assalto per ogni Armata: da tale disposizione si può far datare la nascita degli Arditi. 
La prima ad inquadrare nei propri organici tale reparto fu la 2^ Armata. Proponente e sperimentatore della specialità era stato il tenente colonnello Giuseppe Alberto Bassi, che il 14 maggio 1917, nell’attacco di Monte San Marco, aveva messo alla prova, ancora col grado di maggiore, fondamentali innovazioni tattiche, coadiuvato dall’impiego di mitragliatrici pesanti e dal fuoco di appoggio dell’artiglieria. 
Di lì a poco (29 luglio) ci sarebbe stata la visita del Re e la sua personale approvazione della nuova uniforme, e il 18-19 agosto il battesimo del fuoco del I reparto, a Monte Fratta, in occasione della 11^ battaglia dell’Isonzo. La genialità di una scelta come quella operata dal Bassi, di costituire una specialità nuova di truppe d’assalto da impiegare per lo sblocco di situazioni difficili, supportate dal resto dei combattenti (fanteria ed artiglieria), nasce dalla necessità di risolvere lo stallo della guerra di trincea, e ripropone l’ardimento italico al fante italiano, poco addestrato, mal nutrito e pessimamente condotto, non fosse altro perché gli schemi del Comando Supremo erano antiquati e non si adattavano alla distruttività delle armi prodotte da una tecnologia industriale affatto diversa da quella dei conflitti precedenti. 
La logica dello scontro frontale, sia pure supportato dall’artiglieria, non era idonea ad ottenere risultati che non fossero inutili carneficine. Se si esamina il Decalogo dell’Ardito, a firma di Francesco Saverio Grazioli, tenente generale del Corpo d’Armata d’Assalto (giugno 1918), da ultimo, ma non da meno, si scopre che così recita l’art.10: “Corri alla battaglia. 
Tu sei la più fulgida espressione del genio di nostra razza …”. Certamente è retorica, ma, nel nostro caso, di quella che sa vedere dentro la storia, e non semplicemente dentro “una” storia, cioè dentro vicende di certo tra loro diverse, che però si propone di accomunare, rendendo una sola la pletora di stirpi della Penisola, e rendendo attuali tutte le epoche, che quella storia hanno costruita, nel travaglio di guerre ora contro uno straniero ora fratricide. 
Negli Arditi rivive uno spirito unitario, che fonde le esperienze della Compagnia della Morte di Legnano, dei feditori a cavallo di Campaldino, degli archibugieri di Giovanni delle Bande Nere e, per venire a tempi viciniori, degli stessi garibaldini – esempio non solo di valorosi combattenti “politici”, ma, dal punto di vista tecnico, di truppe veloci e leggere use al colpo di mano. 
Purtroppo il cattivo coordinamento tra Comandi non sempre seppe sfruttare il successo seguente all’impeto dell’attacco vittorioso, secondo l’indicazione offerta dallo stesso Grazioli nell’art.3 del citato decalogo: “La vittoria è al di là dell’ultima trincea del nemico, è nelle sue retrovie; per giungervi adopera violenza e astuzia, né curare se nell’avanzata impetuosa nuclei avversari ti resteranno alle spalle…”. 
È un’indicazione “tecnica” più che un articolo di fede da porsi in un decalogo che, come tutti i decaloghi, ha peraltro un’ispirazione sfuggente alla comune manualistica di addestramento. Il consiglio è semplice e brutale: sfondare, come si diceva in epoca napoleonica, “alla solita vecchia maniera”, con la rapidità di romani velites che abbiano un munizionamento di pistole mitragliatrici e bombe a mano, per passare dall’altra parte dell’ultima linea difensiva avversaria, per irradiarsi alle spalle del nemico, creare sconcerto, confusione, distruzione: “Se giungi nelle retrovie nemiche gettavi lo scompiglio ed il terrore; un ardito può valere cento uomini…” (art.6). 
Si tratta di un principio che, sul medesimo fondamento dell’azione di un’agguerrita truppa d’assalto, in grande stile avrebbero operato i reparti tedeschi non dipendenti dalla Wehrmacht nei confronti dell’armata sovietica in quanto truppe d’élite dalla solida preparazione. Nel 1918 non si arriva a teorizzare una penetrazione in territorio occupato “dietro le linee”, ma l’intuizione c’è tutta. Forse si sarebbe dovuto disporre di spazi più vasti, come poteva avvenire nelle colonie, dove creare le condizioni di una efficace guerriglia – e, si noti, l’azione degli Arditi, qualora si prescinda dalla frontalità (trincea versus trincea), è in larga misura ispirata alla petite guerre di sempre, a quella medesima realtà bellica che spesso, nella manualistica regolamentare del Settecento, era, in definitiva, la guerre des postes, ora, però, attuata con armi più distruttive, anche se il pugnale veniva annoverato nella normale dotazione delle truppe d’assalto italiane e ne costituiva il simbolo più appropriato e psicologicamente incisivo: più corto dell’arma breve del legionario, più snello e maneggevole della baionetta, a metà tra il pugione e la misericordia. Senonché un alto ufficiale dell’epoca non avrebbe mai potuto ammettere un comportamento che si discostasse più di tanto da una ricevuta e consolidata prassi regolamentare, e nulla di più alieno sarebbe stato per lui la valenza “politica” accompagnata allo sforzo bellico. 
Ci si batteva ancora “per il Re e per la Patria”, al di fuori di schemi ideologici che non fossero quelli della tradizionale fedeltà ad una dinastia, la quale ancora regnava, anche se non più per esclusiva grazia di Dio. I contenuti impliciti nell’arditismo avrebbero trasformato – ma solo dopo la conclusione della guerra – tanti arditi in “soldati politici”, cioè in rivoluzionari, di destra o di sinistra non importa, infatti per sua essenza la rivoluzione è una, e le sue declinazioni sono, a ben vedere, legate solo ad occasionali contingenze. Ma, come si dice in tali casi, questa è un’altra storia. 
Dunque, se ci fermiamo al 4 novembre 1918, comprendiamo benissimo come il Comando Supremo fosse solo attento alle conseguenze “tattiche” delle azioni arditesche, sorvolando (o reprimendo) qualsiasi pulsione dettata da quelle che apparivano come fuorviate visioni del mondo. “La simbiosi fra Arditismo e Futurismo ci parla da sola dell’ideologia politica che innervava quel fenomeno combattentistico”. L’osservazione di Luca Leonello Rimbotti è calzante ed appropriata, come le caratteristiche implicate risultavano poco accettabili per chi avesse voluto porsi come difensore dell’ordine politico e sociale: culto dell’azione, esaltazione dell’aristocrazia guerriera, mito assoluto dell’italianità, esaltazione della giovinezza, ostilità verso il modo borghese e conservatore, verso la Chiesa e il dominio dei preti… 
Credo che ce ne fosse abbastanza per diffi dare delle conseguenze e delle implicazioni di chi, tornato dal fronte dopo avere bene meritato della propria arditezza, rischiava di inserire nella quotidianità elementi in stridente dissonanza col tranquillo tran-tran che ci si ostinava a proclamare pace, comunque questa si volesse definire e valutare. Per un vero ardito non si poteva invocare la compostezza del bravo filius familias, che, reduce, si adattasse a finire gli studi, comparendo davanti a commissioni d’esame composte da professori vecchi, occhialuti e bolsi (all’epoca non si usavano ancora professoresse): in proposito Giovanni Comisso ci ha lasciato pagine indimenticabili. 
Mentre, dal canto loro, gli alti vertici militari si erano lasciati sfuggire la formidabile innovazione, che pure si era profilata ed in parte esplorata sul finire del conflitto, della costituzione, in pianta stabile, di un’Armata d’Assalto. Perciò gli Arditi non giunsero mai alla solidità dei granatieri, essendo nati per altri scopi ed in fondo troppo tardi perché davvero potessero evolvere in Grandi Unità capaci di imprimere non solo una drastica svolta alle operazioni, ma anche – e soprattutto – dare luogo ad un Esercito Italiano dotato di caratteristiche nuove, al passo con i tempi, e pronto ad effi caci cimenti.

Carlo Arrigo Pedretti già Preside del Lic. Cl. St. “G. Parini” di Milano

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