La questione della smobilitazione
dell’Esercito Italiano nel primo dopoguerra fu avvertita dalle autorità
politiche e militari sin dal momento della conclusione del conflitto. A indurre
verso una rapida smobilitazione c’erano ragioni essenzialmente economiche. Il
governo italiano, infatti, era entrato in guerra contando sulla rapidità del
conflitto, ben consapevole della scarsa sostenibilità finanziaria di uno sforzo
bellico di lunga durata per un paese non ancora completamente industrializzato.
L’andamento della guerra rivelò ben presto che le operazioni militari non
sarebbero terminate nel breve periodo, determinando una continua e pressante
richiesta di aiuti finanziari nei confronti, soprattutto, di Inghilterra e
Stati Uniti. Il forte indebitamento italiano, determinato dalla richiesta di
tali aiuti finanziari, spiega la motivazione primaria che indusse il ministero
del Tesoro a richiedere una pronta smobilitazione sin dalle giornate del
novembre 1918.
Tale richiesta fu affrontata, oltre
che dal Governo, dal Capo di Stato Maggiore del Regio Esercito, generale
Armando Diaz, e dal ministro della Guerra, Vittorio Italico Zupelli, che
procedettero al congedamento delle classi più anziane (1874-75-76) ordinato già
in data 5 novembre; si trattava, peraltro, di classi la cui consistenza in
uomini alle armi era relativamente limitata e il cui impiego prevalente era nel
paese. Gli orientamenti erano di proseguire i congedamenti della truppa per
classi fino a un ritorno a una situazione d’anteguerra, da conseguirsi gradatamente
in relazione alle molteplici esigenze del momento, spesso in contrasto fra
loro. Tant’è che entro novembre-dicembre 1918 furono congedati circa 1.400.000
uomini, ossia 1/3 della forza mobilitata fino a pochi mesi prima. A partire da
gennaio 1919, però, cominciarono ad emergere altre problematiche che
rallentarono il processo di smobilitazione. Infatti, il desiderio di venire
incontro alle aspirazioni del Tesoro per una rapida contrazione delle spese e a
quelle degli individui per un ritorno alle proprie case trovò un freno sia
nelle incertezze della situazione internazionale sia nel timore del Governo di
creare una forte disoccupazione, particolarmente nei centri industriali, nei
quali questa sarebbe stata innescata anche dall’arresto delle produzioni
belliche. Disoccupazione difficile da affrontare vista l’impossibilità di
realizzare la necessaria assistenza materiale per i reduci.
È chiaro, però, che la smobilitazione
fin lì attuata avrebbe considerevolmente ridotto le capacità operative
dell’Esercito Italiano, se non si fosse riorganizzato prontamente. In tal modo,
fu avviato il previsto scioglimento di comandi e unità esuberanti, rinsanguando
così le unità rimaste in vita. Per quanto si riferisce alle brigate di
fanteria, allora pedine fondamentali dell’Esercito mobilitato, il 13 gennaio
1919 fu annunciato lo scioglimento di 19 brigate, che avrebbe dovuto permettere
di tenere a numero – per quanto possibile – le restanti destinate per il
momento a sopravvivere.
La smobilitazione dell’Esercito
mobilitato, ovviamente, pose dei problemi anche per quanto concerne gli
ufficiali, in particolare quelli di grado superiore, da colonnello a generale
di corpo d’armata, che sovrabbondavano considerevolmente. I primi congedamenti,
limitati ai nati anteriormente all’anno 1874, erano disposti il 14 dicembre
1918 a partire dal 22 del mese (circ. 2470); tuttavia, entro la prima metà di gennaio
1919 i congedamenti furono limitati solo fino alla classe 1876. Se ancor oggi è
difficile dare conto del numero degli ufficiali congedati in quella prima fase,
date le contraddizioni esistenti tra i vari documenti, si può evidenziare come alla
data del 10 gennaio 1919 erano stati posti in congedo gli ufficiali delle sole
classi anteriori al 1876 la cui consistenza totale era di 6411. Peraltro, di
essi ne risultavano effettivamente congedati solo 5400, oltre a 3000 ufficiali
di classi più giovani che erano stati posti in congedo perché appartenenti
a particolari categorie.
Sintetizzando, è opportuno mettere in
evidenza che la prima fase della smobilitazione portò a un rapido
ridimensionamento dell’Esercito mobilitato, quanto lo consentirono le
potenzialità del sistema dei trasporti, inizialmente senza remore di carattere
politico. A tale rapidità, tuttavia, non corrispose, in egual misura,
l’organizzazione della componente burocratica e logistica e un’adeguata
assistenza a favore dei militari di truppa, congedati nel momento critico del
rientro nella vita civile. Successivamente, la smobilitazione procedette a
rilento, non solo a causa dell’oggettiva complessità dell’operazione, ma per
considerazioni di carattere politico, attinenti al contesto interno e a quello
internazionale. Nel primo caso si voleva evitare che le masse di reduci
smobilitati potessero cadere preda della propaganda e dell’attività del Partito
socialista italiano che aveva assunto una posizione fortemente contestativa
della guerra e ispirata all’esempio di quello che era avvenuto nella Russia
zarista. Sono quelli, infatti, i mesi caratterizzati dal cosiddetto “Biennio
Rosso” che, prescindendo dal carattere spontaneo o meno della sua organizzazione,
diede vita a una serie di scioperi, occupazioni delle terre e delle fabbriche
che fece vivere il timore di una possibile rivoluzione di stampo socialista. Nel
secondo caso, le crescenti tensioni tra gli alleati che si vennero a dipanare alla
Conferenza di pace e che portarono a una forte frizione nel mese di giugno,
fecero sì che si mantenesse in piedi l’Esercito mobilitato per far fronte ad
eventuali operazioni di carattere militare. Certo è che la successiva
occupazione di Fiume del settembre 1919, oltre ad aumentare la tensione tra l’Italia
e gli (ex) alleati favorì una riflessione sulla politicizzazione dell’Esercito
Italiano. Non è un caso che di lì a qualche mese, nel novembre 1919, dopo un
intenso scambio di corrispondenza tra Comando supremo, ministro della Guerra e
Governo avvenuto durante l’anno, si arrivò a formulare la prima delle tante
riforme dell’Esercito Italiano che furono studiate nel dopoguerra:
l’ordinamento Albricci, dal nome del ministro della Guerra dell’epoca.
L’esercito era strutturato su 15
corpi d’armata di due divisioni, ciascuna delle quali su quattro reggimenti di
fanteria e uno di artiglieria. Erano costituiti, inoltre, un Gruppo Corazzato,
il Corpo Aeronautico, il Corpo Automobilistico e il Corpo del treno militare.
In totale 210.000 uomini. La ferma di leva era di 12 mesi riducibili a 8.
Incisive furono le modifiche dei
vertici: il Corpo di Stato Maggiore cambiò nome in Servizio di Stato Maggiore,
al cui vertice rimaneva un Capo di Stato Maggiore il cui operato era supervisionato
dalla nuova figura dell’Ispettore dell’Esercito, affidata al generale Armando
Diaz, incaricato di presiedere il neonato Consiglio dell’Esercito, composto da
tutti i generali d’armata e destinato a decidere delle questioni più rilevanti da
sottoporre all’approvazione del ministro.
A parte la macchinosa struttura di vertice, l’ordinamento Albricci non era un cattivo risultato, ma aveva il difetto di conservare 30 divisioni, molte di più di quante il bilancio potesse sopportarne. Sicché Nitti chiese al nuovo ministro della Guerra Ivanoe Bonomi, entrato nel rimpasto del suo III Ministero nel marzo del 1920, di predisporre un nuovo ordinamento. Questo ordinamento fu realizzato nel corso dell’aprile, quando ormai le sorti del Governo Nitti erano segnate e si profilava il ritorno al potere di Giovanni Giolitti. Il nuovo Governo Giolitti confermò nella carica di ministro della Guerra Ivanoe Bonomi. La struttura organica dell’esercito, prevista nell’aprile 1920, si articolava in 10 corpi d’armata da tre divisioni, e riducendo a quadro, ovvero ai soli ufficiali e sott’ufficiali, il terzo battaglione dei reggimenti. La leva fu ridotta a 8 mesi, restringibili a 3 in casi eccezionali, mentre il corpo ufficiali, fissato in 18.880 unità, fu drasticamente tagliato di 3.900 posti, i cui titolari furono mandati in pensione anticipata. L’esercito risultava ridotto a 175.000 unità. Il Capo di Stato Maggiore era quasi esautorato: gli venivano sottratte la preparazione dei piani operativi, affidata al Consiglio dell’Esercito, e il comando delle operazioni in guerra, affidato all’Ispettore dell’Esercito, col che la carica era svuotata quasi di ogni potere. Unico provvedimento popolare fu sottratta all’esercito e conferita ai carabinieri, il cui organico fu notevolmente ampliato, la tutela dell’ordine pubblico. Le contrarietà suscitate dall’ordinamento Bonomi furono tali che il nuovo Governo, guidato ora da Bonomi, decise un’ulteriore riforma affidata nel luglio 1921 al ministro Luigi Gasparotto. Il nuovo ordinamento manteneva la forza di 175.000 unità, ma rivoluzionava tutto il resto: la ferma era portata a sei mesi, l’esercito era diviso, con concezione abbastanza moderna occorre dire, in due componenti funzionali: un esercito di copertura schierato alle frontiere e composto di 6 divisioni di fanteria, una di cavalleria, una brigata di bersaglieri e una alpina, ed un esercito di mobilitazione di 56 divisioni e 6 brigate alpine articolato in regioni, zone e centri che avrebbero dovuto trasformarsi all’atto della mobilitazione rispettivamente in corpi d’armata, divisioni e reggimenti. Anche l’ordinamento Gasparotto non riuscì a sopravvivere molto, sostituito dall’ordinamento Diaz del gennaio 1923. Ma, a quella data, era iniziata un’altra storia.
Andrea
Ungari Università Guglielmo Marconi - Roma