L’arrivo sul trono di Vittorio Emanuele III il 29 luglio 1900 segnava un
cambiamento radicale nella vita politica italiana. Tenuto al di fuori degli
affari di stato, lontano per carattere e stile di vita dal padre e dalla madre,
il nuovo re aveva comunque qualità tali da permettergli di svolgere con
competenza il suo ruolo. Colto, parlava diverse lingue, aveva viaggiato molto
acquisendo una mentalità non provinciale, era di carattere fermo, deciso,
alieno da retorica. Pur essendo un figlio rispettoso, dissentiva nel modo e
nella sostanza dal padre.
Pronto, a differenza di Umberto, che prevaricava sul parlamento, ad essere
un re costituzionale, aveva capito che il paese e la monarchia avevano bisogno
di un periodo di quiete, in cui sovrano, ministri, parlamento si impegnassero
al massimo per servire il paese, aprendosi alla partecipazione popolare.
Fin dai suoi primi provvedimenti apparve chiaro che si sarebbe mosso nel
solco delle leggi (rifiutò di varare lo stato d'assedio, di riunire Senato e
Camera in alta corte per giudicare il regicida). Volle assumere direttamente le
proprie responsabilità, rifiutando di trincerarsi dietro i suoi ministri.
La caduta del governo Saracco il 6 febbraio 1901, originata dallo
scioglimento della Camera dei Lavoro di Genova, fu subito un chiaro segnale di
distacco dal passato. La nomina di Zanardelli, leader riconosciuto dei
centro-sinistra, a Presidente del Consiglio indicava che il Re intendeva
rispettare la costituzione e la volontà popolare.
Nel nuovo governo entrava come ministro degli interni Giolitti, che varava
una serie di provvedimenti innovatori accolti senza obiezioni dal sovrano, che
invece aveva avocato a sé la scelta dei ministri degli Esteri e della Guerra.
Si apriva così un lungo sodalizio, destinato a durare quattordici anni, che
vedrà una netta suddivisione dei compiti fra il re e il suo ministro: a
Vittorio Emanuele la direzione della politica estera, a Giolitti la politica
interna.
Di affari internazionali, per lui l'unica vera politica, il re si occuperà
con acume, capacità di vagliare le situazioni, conoscenza delle lingue e degli
altri paesi, giovandosi del clima di consenso che il presidente del Consiglio,
per il quale invece vigeva in diplomazia la regola del non fare, seppe creare
intorno alla monarchia con i suoi provvedimenti a favore delle classi
lavoratrici. A sua volta Vittorio Emanuele appoggerà Giolitti, come lui convinto
che lo stato dovesse restare neutrale, garantendo il rispetto della legge da
parte dì tutte le classi sociali.
Ritenendo che la Triplice Alleanza, esaurito il suo scopo originario di
rimedio all'isolamento internazionale dell'Italia, ne limitasse piuttosto la
libertà d'azione, rendendo impossibile un'intesa con la Francia e impedendole di
avanzare qualsiasi rivendicazione verso l'Austria, Vittorio Emanuele favorì la
graduale apertura verso Parigi, avviata con gli accordi Visconti Venosta -
Barrére del 1900 e Prinetti-Barrère dei 1902, volti a tranquillizzare i
francesi sul carattere difensivo della Triplice Alleanza. Decaduta la
convenzione militare del 1888 con l'Austria per volontà dei sovrano, l'alleanza
verrà comunque rinnovata nel 1902, ma non impedirà nel 1905 ad Algesiras che
l'Italia sostenga apertamente la Francia contro la Germania, dando via libera a
Parigi in Marocco in cambio dei riconoscimento dell'interesse italiano sulla
Libia.
I numerosi viaggi del sovrano, in Russia e a Berlino nel 1902, l'anno
successivo a Londra e a Parigi, dove Vittorio Emanuele riscosse un successo
personale grazie al suo impeccabile francese e alla sua semplicità, le visite
dì Guglielmo II e di Edoardo VII indicano che l'Italia andava ampliando i
propri orizzonti. La visita dei presidente francese Loubet nel 1904, accolto
con particolare cordialità dal Sovrano, era un chiaro segnale per Berlino e
Vienna che Roma non aveva rinunciato alle sue ispirazioni irredentiste e al
contempo chiudeva in maniera definitiva la questione romana.
L’avvicinamento alla Francia, alla Gran Bretagna e alla Russia non
comporterà la rottura con la Triplice, nonostante i sentimenti di antipatia che
il sovrano nutriva per Francesco Giuseppe e Guglielmo II, ma la sua trasformazione
da strumento di garanzia dello status quo in un accordo che potesse giovare
agli interessi italiani, liberando Roma da un ruolo subordinato.
Era in sostanza l'avvio di quella politica del peso determinante che in una
situazione di equilibrio europeo consentiva all'Italia di giocare un suo ruolo
e di perseguire i suoi interessi. Sempre mantenendo una posizione di
equidistanza, nel 1904 Vittorio Emanuele inviterà sia Guglielmo II che il re
d'Inghilterra a fare da padrini al piccolo Umberto. L’irritazione per
l'annessione austriaca della Bosnia-Erzegovina porteranno nel 1909 all'accordo
di Racconigi con lo zar, che impegnava i due paesi a svolgere un'azione
diplomatica comune contro chiunque intendesse sovvertire lo status quo nei
Balcani, accordo segreto voluto espressamente da Vittorio Emanuele, di cui
saranno al corrente solo lui, Giolitti e Tittoni. La guerra di Libia, frutto di
in un nazionalismo d'élite che riuscì a contagiare l'opinione pubblica, decisa
pare da Giolitti e da San Giuliano, fu avallata dal re, cui spettava per
statuto di dichiarare la guerra, senza che fosse necessaria la ratifica del
parlamento. La conquista, lungi dal rivelarsi facile, oltre a mettere in luce
l'impreparazione militare dei paese, ne indebolì la posizione internazionale.
Se la conquista del Dodecaneso allarmerà l'Austria, timorosa di una riscossa
dei paesi balcanici, l'incidente dei Carthage e dei Manouba creò infatti
tensione fra Roma e Parigi, facilitando nel 1912 il rinnovo della triplice
alleanza. Le dimissioni di Giolitti, battuto in parlamento su un progetto di
legge concernente le spese belliche, daranno modo al re di assumere
l'iniziativa in politica estera, riprendendo la tradizionale politica di Casa
Savoia di trattare con le due parti in lotta per ottenere il più possibile, in
attesa di schierarsi con il più forte. Da sempre antitriplicista, Vittorio
Emanuele aveva registrato la crescente avversione popolare contro l'Austria,
che andava ingrandendosi nei Balcani incurante degli interessi italiani.
Rispettoso delle regole democratiche in politica interna, aveva comunque sempre
considerato la politica estera come un campo a lui riservato. Il suo avvicinamento
verso la Triplice Intesa fu aiutato dalle dimissioni di Giolitti, contrario
alla guerra e pronto al negoziato con gli austriaci, e dalla morte del ministro
degli Esteri, il triplicista di San Giuliano, cui successe Sonnino, e dalla
debolezza del parlamento. La dichiarazione di guerra dell'Austria alla Serbia,
senza che sia previsto un compenso per l'Italia, consente al re, già deciso a
intervenire a fianco dell'intesa, di temporeggiare, dichiarando la neutralità
italiana, in attesa di trattare il prezzo dell'intervento e di vincere le
resistenze interne dei neutralisti. Si tratta su due fronti, alzando sempre di
più la posta con l'Austria. Il Re è in primo piano nelle trattative, d'accordo
con Salandra e Sonnino conduce segretamente negoziati con gli inglesi,
all'insaputa del parlamento e del governo. Il 26 aprile viene firmato il Patto
di Londra, nonostante l'Austria avesse consentito in cambio della neutralità a
tutte le richieste italiane. Restava da convincere governo e paese a rovesciare
le alleanze. La campagna interventista, guidata dalla stampa, cresce di tono,
Giolitti viene attaccato come traditore, il parlamento, ancora all'oscuro dei
Patto di Londra, il 20 maggio vota i pieni poteri al governo in caso di guerra.
Il 24 Maggio viene dichiarata guerra all'Austria, ma non alla Germania. Per tutto
il tempo dei conflitto il Re rimase al fronte, seguendo direttamente le
operazioni, fornendo osservazioni e commenti. Formalmente capo supremo delle
forze armate, aveva delegato il comando al generale Cadorna, che di fatto non
accettò mai suggerimenti e ordini né dal Re né dal governo. Il sovrano non
riuscì mai a mediare fra Cadorna e i politici e, pur rendendosi conto delle
manchevolezze del generale, non prese mai le parti dei suoi ministri, in particolare
di Bissolati e dei ministro della Guerra Zupelli, rifiutandosi di sostituire
Cadorna. Nella sconfitta di Caporetto non si può accusare il Re di
inettitudine. Egli aveva visto e predicato invano che là si sarebbe dovuto
attendere lo sforzo del nemico. Le rassicurazioni dei suoi generali non lo
avevano convinto. Fu in quel tragico momento che Vittorio Emanuele diede il
meglio di sé: a Roma affida il governo a Orlando, acconsente alla sostituzione
di Cadorna con Diaz, torna al fronte a visitare le sedi dei nuovi comandi,
approva la linea di difesa sul Piave. Al convegno di Peschiera l'8 novembre
sarà il Re a difendere con competenza e perizia la causa italiana, senza
gettare il biasimo sull'esercito italiano. Parlando in inglese e in francese
con pacatezza e concisione, alieno da ogni retorica, analizza le ragioni della
sconfitta e sostiene la linea di difesa del Piave. Impressionando
favorevolmente gli alleati, ne incassa così la solidarietà e ottiene gli aiuti
sperati. Con la Vittoria si conclude il ciclo delle guerre risorgimentali e la Corona
sembra aver ricevuto nuovo lustro. La pace apre tuttavia subito una serie di
problemi, primo fra tutti la questione di Fiume. Se dal punto di vista
sentimentale il Re è con D'Annunzio e i legionari, il rispetto dei trattati e
la legalità, i rapporti con gli alleati impongono al paese di sconfessare tale
azione. Su sollecitazione del ministro degli Esteri Sforza il Re invia una
lettera di suo pugno all'ammiraglio Millo, governatore della Dalmazia, per
ricordargli la fedeltà al giuramento prestato, evitando che la sua squadra
passi dalla parte di D'Annunzio. Dell'andamento delle trattative di pace a
Parigi, il Re viene tenuto costantemente al corrente direttamente dal
presidente dei Consiglio Orlando, che non gli nasconderà mai le sue perplessità
sull'intransigenza di Sonnino. Oltre a Fiume, Vittorio Emanuele avrebbe visto
di buon grado l'acquisizione di Zara, di varie città dalmate e del maggior
numero possibile di isole dalmate, ma al tempo stesso si rendeva conto delle
difficoltà che incontravano le rivendicazioni italiane. Costante nel sovrano
sarà la preoccupazione di non inimicarsi gli alleati, inducendolo quindi a
consigliare moderazione. Ben più preoccupante era la situazione interna, dove
l'illegalità andava affermandosi. Già il discorso della Corona il 10 dicembre
1919 sarà disturbato dalle manifestazioni dei deputati socialisti. La difesa
della dinastia diventa la preoccupazione preponderante di Vittorio Emanuele,
che teme in una rivoluzione di tipo repubblicano, anarcoide, socialista, che
gli faccia perdere il trono, le assicurazioni di Mussolini sulla monarchia, le
simpatie degli Aosta per il fascismo saranno fondamentali a indurre il Re a
dare il governo al Duce,nella convinzione di poter assorbire con il tempo il
movimento, controllando il suo capo. Con Mussolini invece perderà ogni
possibilità di svolgere un ruolo in politica estera. Fin dall'inizio il Duce
avocherà a sé la condotta degli affari esteri, tenendo sotto scacco il Re con
la minaccia di dare il trono agli Aosta. E se fino al 1935 Mussolini si muoverà
nel solco tradizionale della politica italiana, mantenendo l'amicizia con la
Gran Bretagna, con la guerra di Etiopia verrà avviata una politica che il Re
non poteva condividere. Rimarrà infatti fuori da tutte le trattative e, pur non
negando il proprio assenso a Mussolini, manterrà notevoli perplessità sulle
difficoltà e sui costi ingenti della guerra e preoccupazione per l’attrito con
la Gran Bretagna. Del pari non sarà favorevole all'avvicinamento e all'alleanza
con la Germania, anche se non farà nulla per impedire il Patto d'Acciaio.
Ambigua sarà poi la sua posizione in relazione all'entrata in guerra. Invano il
ministro della Real casa Acquarone cercherà di convincerlo a separarsi da
Mussolini per salvare la monarchia e propizierà i contatti con Dino Grandi e
con Ciano in vista del mantenimento della neutralità. Prevarrà in lui ancora
una volta il timore di una guerra civile e di un'occupazione tedesca. Sebbene
conscio che il popolo non voleva la guerra e che contava su di lui, consapevole
dei l'inadeguatezza delle forze armate, delle condizioni di vita precarie dei
paese, delega a Mussolini il comando supremo e non impedisce la dichiarazione
di guerra. Durante il conflitto il Re viene tagliato fuori da ogni decisione di
tipo militare e politico. La paura delle reazioni tedesche continuerà a
condizionare il sovrano, che solo nell'estate del 1942 comincia dubitare della
vittoria. Nonostante le pressioni esercitate su di lui perché faccia qualcosa,
bisogna aspettare il 25 luglio perché riprenda l'iniziativa politica e il
comando delle forze armate. Vittorio Emanuele non è in grado di governare gli
eventi. Si tratta con gli alleati e si cerca di ingannare i tedeschi, che di
fatto vengono lasciati liberi di occupare l'Italia. Il Re appare soprattutto
preoccupato di non cadere nelle mani dei tedeschi. La scelta di Badoglio, la
fuga a Brindisi, l'ostinazione nel rifiutare l'abdicazione, il tardivo
escamotage della luogotenenza determineranno la sorte della monarchia. Troppo
poco sarà il tempo concesso a Umberto: tenuto sempre in disparte dal padre,
costretto a seguirlo nella fuga da Roma, pur dando prova di correttezza e di
equilibrio, non riuscirà a dare una nuova immagine di casa Savoia e a salvare
la monarchia.
Donatella Bolech, Università di Pavia
da Nuove Sintesi
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