venerdì 18 aprile 2014

VITTORIO EMANUELE III E LA POLITICA ESTERA



L’arrivo sul trono di Vittorio Emanuele III il 29 luglio 1900 segnava un cambiamento radicale nella vita politica italiana. Tenuto al di fuori degli affari di stato, lontano per carattere e stile di vita dal padre e dalla madre, il nuovo re aveva comunque qualità tali da permettergli di svolgere con competenza il suo ruolo. Colto, parlava diverse lingue, aveva viaggiato molto acquisendo una mentalità non provinciale, era di carattere fermo, deciso, alieno da retorica. Pur essendo un figlio rispettoso, dissentiva nel modo e nella sostanza dal padre.

Pronto, a differenza di Umberto, che prevaricava sul parlamento, ad essere un re costituzionale, aveva capito che il paese e la monarchia avevano bisogno di un periodo di quiete, in cui sovrano, ministri, parlamento si impegnassero al massimo per servire il paese, aprendosi alla partecipazione popolare.
Fin dai suoi primi provvedimenti apparve chiaro che si sarebbe mosso nel solco delle leggi (rifiutò di varare lo stato d'assedio, di riunire Senato e Camera in alta corte per giudicare il regicida). Volle assumere direttamente le proprie responsabilità, rifiutando di trincerarsi dietro i suoi ministri.

La caduta del governo Saracco il 6 febbraio 1901, originata dallo scioglimento della Camera dei Lavoro di Genova, fu subito un chiaro segnale di distacco dal passato. La nomina di Zanardelli, leader riconosciuto dei centro-sinistra, a Presidente del Consiglio indicava che il Re intendeva rispettare la costituzione e la volontà popolare.

Nel nuovo governo entrava come ministro degli interni Giolitti, che varava una serie di provvedimenti innovatori accolti senza obiezioni dal sovrano, che invece aveva avocato a sé la scelta dei ministri degli Esteri e della Guerra. Si apriva così un lungo sodalizio, destinato a durare quattordici anni, che vedrà una netta suddivisione dei compiti fra il re e il suo ministro: a Vittorio Emanuele la direzione della politica estera, a Giolitti la politica interna.

Di affari internazionali, per lui l'unica vera politica, il re si occuperà con acume, capacità di vagliare le situazioni, conoscenza delle lingue e degli altri paesi, giovandosi del clima di consenso che il presidente del Consiglio, per il quale invece vigeva in diplomazia la regola del non fare, seppe creare intorno alla monarchia con i suoi provvedimenti a favore delle classi lavoratrici. A sua volta Vittorio Emanuele appoggerà Giolitti, come lui convinto che lo stato dovesse restare neutrale, garantendo il rispetto della legge da parte dì tutte le classi sociali.

Ritenendo che la Triplice Alleanza, esaurito il suo scopo originario di rimedio all'isolamento internazionale dell'Italia, ne limitasse piuttosto la libertà d'azione, rendendo impossibile un'intesa con la Francia e impedendole di avanzare qualsiasi rivendicazione verso l'Austria, Vittorio Emanuele favorì la graduale apertura verso Parigi, avviata con gli accordi Visconti Venosta - Barrére del 1900 e Prinetti-Barrère dei 1902, volti a tranquillizzare i francesi sul carattere difensivo della Triplice Alleanza. Decaduta la convenzione militare del 1888 con l'Austria per volontà dei sovrano, l'alleanza verrà comunque rinnovata nel 1902, ma non impedirà nel 1905 ad Algesiras che l'Italia sostenga apertamente la Francia contro la Germania, dando via libera a Parigi in Marocco in cambio dei riconoscimento dell'interesse italiano sulla Libia.

I numerosi viaggi del sovrano, in Russia e a Berlino nel 1902, l'anno successivo a Londra e a Parigi, dove Vittorio Emanuele riscosse un successo personale grazie al suo impeccabile francese e alla sua semplicità, le visite dì Guglielmo II e di Edoardo VII indicano che l'Italia andava ampliando i propri orizzonti. La visita dei presidente francese Loubet nel 1904, accolto con particolare cordialità dal Sovrano, era un chiaro segnale per Berlino e Vienna che Roma non aveva rinunciato alle sue ispirazioni irredentiste e al contempo chiudeva in maniera definitiva la questione romana.

L’avvicinamento alla Francia, alla Gran Bretagna e alla Russia non comporterà la rottura con la Triplice, nonostante i sentimenti di antipatia che il sovrano nutriva per Francesco Giuseppe e Guglielmo II, ma la sua trasformazione da strumento di garanzia dello status quo in un accordo che potesse giovare agli interessi italiani, liberando Roma da un ruolo subordinato.     
Era in sostanza l'avvio di quella politica del peso determinante che in una situazione di equilibrio europeo consentiva all'Italia di giocare un suo ruolo e di perseguire i suoi interessi. Sempre mantenendo una posizione di equidistanza, nel 1904 Vittorio Emanuele inviterà sia Guglielmo II che il re d'Inghilterra a fare da padrini al piccolo Umberto. L’irritazione per l'annessione austriaca della Bosnia-Erzegovina porteranno nel 1909 all'accordo di Racconigi con lo zar, che impegnava i due paesi a svolgere un'azione diplomatica comune contro chiunque intendesse sovvertire lo status quo nei Balcani, accordo segreto voluto espressamente da Vittorio Emanuele, di cui saranno al corrente solo lui, Giolitti e Tittoni. La guerra di Libia, frutto di in un nazionalismo d'élite che riuscì a contagiare l'opinione pubblica, decisa pare da Giolitti e da San Giuliano, fu avallata dal re, cui spettava per statuto di dichiarare la guerra, senza che fosse necessaria la ratifica del parlamento. La conquista, lungi dal rivelarsi facile, oltre a mettere in luce l'impreparazione militare dei paese, ne indebolì la posizione internazionale. Se la conquista del Dodecaneso allarmerà l'Austria, timorosa di una riscossa dei paesi balcanici, l'incidente dei Carthage e dei Manouba creò infatti tensione fra Roma e Parigi, facilitando nel 1912 il rinnovo della triplice alleanza. Le dimissioni di Giolitti, battuto in parlamento su un progetto di legge concernente le spese belliche, daranno modo al re di assumere l'iniziativa in politica estera, riprendendo la tradizionale politica di Casa Savoia di trattare con le due parti in lotta per ottenere il più possibile, in attesa di schierarsi con il più forte. Da sempre antitriplicista, Vittorio Emanuele aveva registrato la crescente avversione popolare contro l'Austria, che andava ingrandendosi nei Balcani incurante degli interessi italiani. Rispettoso delle regole democratiche in politica interna, aveva comunque sempre considerato la politica estera come un campo a lui riservato. Il suo avvicinamento verso la Triplice Intesa fu aiutato dalle dimissioni di Giolitti, contrario alla guerra e pronto al negoziato con gli austriaci, e dalla morte del ministro degli Esteri, il triplicista di San Giuliano, cui successe Sonnino, e dalla debolezza del parlamento. La dichiarazione di guerra dell'Austria alla Serbia, senza che sia previsto un compenso per l'Italia, consente al re, già deciso a intervenire a fianco dell'intesa, di temporeggiare, dichiarando la neutralità italiana, in attesa di trattare il prezzo dell'intervento e di vincere le resistenze interne dei neutralisti. Si tratta su due fronti, alzando sempre di più la posta con l'Austria. Il Re è in primo piano nelle trattative, d'accordo con Salandra e Sonnino conduce segretamente negoziati con gli inglesi, all'insaputa del parlamento e del governo. Il 26 aprile viene firmato il Patto di Londra, nonostante l'Austria avesse consentito in cambio della neutralità a tutte le richieste italiane. Restava da convincere governo e paese a rovesciare le alleanze. La campagna interventista, guidata dalla stampa, cresce di tono, Giolitti viene attaccato come traditore, il parlamento, ancora all'oscuro dei Patto di Londra, il 20 maggio vota i pieni poteri al governo in caso di guerra. Il 24 Maggio viene dichiarata guerra all'Austria, ma non alla Germania. Per tutto il tempo dei conflitto il Re rimase al fronte, seguendo direttamente le operazioni, fornendo osservazioni e commenti. Formalmente capo supremo delle forze armate, aveva delegato il comando al generale Cadorna, che di fatto non accettò mai suggerimenti e ordini né dal Re né dal governo. Il sovrano non riuscì mai a mediare fra Cadorna e i politici e, pur rendendosi conto delle manchevolezze del generale, non prese mai le parti dei suoi ministri, in particolare di Bissolati e dei ministro della Guerra Zupelli, rifiutandosi di sostituire Cadorna. Nella sconfitta di Caporetto non si può accusare il Re di inettitudine. Egli aveva visto e predicato invano che là si sarebbe dovuto attendere lo sforzo del nemico. Le rassicurazioni dei suoi generali non lo avevano convinto. Fu in quel tragico momento che Vittorio Emanuele diede il meglio di sé: a Roma affida il governo a Orlando, acconsente alla sostituzione di Cadorna con Diaz, torna al fronte a visitare le sedi dei nuovi comandi, approva la linea di difesa sul Piave. Al convegno di Peschiera l'8 novembre sarà il Re a difendere con competenza e perizia la causa italiana, senza gettare il biasimo sull'esercito italiano. Parlando in inglese e in francese con pacatezza e concisione, alieno da ogni retorica, analizza le ragioni della sconfitta e sostiene la linea di difesa del Piave. Impressionando favorevolmente gli alleati, ne incassa così la solidarietà e ottiene gli aiuti sperati. Con la Vittoria si conclude il ciclo delle guerre risorgimentali e la Corona sembra aver ricevuto nuovo lustro. La pace apre tuttavia subito una serie di problemi, primo fra tutti la questione di Fiume. Se dal punto di vista sentimentale il Re è con D'Annunzio e i legionari, il rispetto dei trattati e la legalità, i rapporti con gli alleati impongono al paese di sconfessare tale azione. Su sollecitazione del ministro degli Esteri Sforza il Re invia una lettera di suo pugno all'ammiraglio Millo, governatore della Dalmazia, per ricordargli la fedeltà al giuramento prestato, evitando che la sua squadra passi dalla parte di D'Annunzio. Dell'andamento delle trattative di pace a Parigi, il Re viene tenuto costantemente al corrente direttamente dal presidente dei Consiglio Orlando, che non gli nasconderà mai le sue perplessità sull'intransigenza di Sonnino. Oltre a Fiume, Vittorio Emanuele avrebbe visto di buon grado l'acquisizione di Zara, di varie città dalmate e del maggior numero possibile di isole dalmate, ma al tempo stesso si rendeva conto delle difficoltà che incontravano le rivendicazioni italiane. Costante nel sovrano sarà la preoccupazione di non inimicarsi gli alleati, inducendolo quindi a consigliare moderazione. Ben più preoccupante era la situazione interna, dove l'illegalità andava affermandosi. Già il discorso della Corona il 10 dicembre 1919 sarà disturbato dalle manifestazioni dei deputati socialisti. La difesa della dinastia diventa la preoccupazione preponderante di Vittorio Emanuele, che teme in una rivoluzione di tipo repubblicano, anarcoide, socialista, che gli faccia perdere il trono, le assicurazioni di Mussolini sulla monarchia, le simpatie degli Aosta per il fascismo saranno fondamentali a indurre il Re a dare il governo al Duce,nella convinzione di poter assorbire con il tempo il movimento, controllando il suo capo. Con Mussolini invece perderà ogni possibilità di svolgere un ruolo in politica estera. Fin dall'inizio il Duce avocherà a sé la condotta degli affari esteri, tenendo sotto scacco il Re con la minaccia di dare il trono agli Aosta. E se fino al 1935 Mussolini si muoverà nel solco tradizionale della politica italiana, mantenendo l'amicizia con la Gran Bretagna, con la guerra di Etiopia verrà avviata una politica che il Re non poteva condividere. Rimarrà infatti fuori da tutte le trattative e, pur non negando il proprio assenso a Mussolini, manterrà notevoli perplessità sulle difficoltà e sui costi ingenti della guerra e preoccupazione per l’attrito con la Gran Bretagna. Del pari non sarà favorevole all'avvicinamento e all'alleanza con la Germania, anche se non farà nulla per impedire il Patto d'Acciaio. Ambigua sarà poi la sua posizione in relazione all'entrata in guerra. Invano il ministro della Real casa Acquarone cercherà di convincerlo a separarsi da Mussolini per salvare la monarchia e propizierà i contatti con Dino Grandi e con Ciano in vista del mantenimento della neutralità. Prevarrà in lui ancora una volta il timore di una guerra civile e di un'occupazione tedesca. Sebbene conscio che il popolo non voleva la guerra e che contava su di lui, consapevole dei l'inadeguatezza delle forze armate, delle condizioni di vita precarie dei paese, delega a Mussolini il comando supremo e non impedisce la dichiarazione di guerra. Durante il conflitto il Re viene tagliato fuori da ogni decisione di tipo militare e politico. La paura delle reazioni tedesche continuerà a condizionare il sovrano, che solo nell'estate del 1942 comincia dubitare della vittoria. Nonostante le pressioni esercitate su di lui perché faccia qualcosa, bisogna aspettare il 25 luglio perché riprenda l'iniziativa politica e il comando delle forze armate. Vittorio Emanuele non è in grado di governare gli eventi. Si tratta con gli alleati e si cerca di ingannare i tedeschi, che di fatto vengono lasciati liberi di occupare l'Italia. Il Re appare soprattutto preoccupato di non cadere nelle mani dei tedeschi. La scelta di Badoglio, la fuga a Brindisi, l'ostinazione nel rifiutare l'abdicazione, il tardivo escamotage della luogotenenza determineranno la sorte della monarchia. Troppo poco sarà il tempo concesso a Umberto: tenuto sempre in disparte dal padre, costretto a seguirlo nella fuga da Roma, pur dando prova di correttezza e di equilibrio, non riuscirà a dare una nuova immagine di casa Savoia e a salvare la monarchia.



Donatella Bolech, Università di Pavia 

da Nuove Sintesi

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