venerdì 6 marzo 2015

I CATTOLICI ITALIANI E LA GRANDE GUERRA - I PARTE

Rev. Maurizio Ormas

In Italia, la prima rivista ispirata ai principi dei nazionalismo apparve nel 1896 e fu «Il Marzocco»; nel 1903 ne comparvero altre due: «Il Leonardo» e Il Regno». Esse non nascondevano la loro impostazione provocatoriamente paganeggiante in funzione anticristiana e individualista. Sul «Leonardo», pubblicato a Firenze, dedicato ad argomenti prevalentemente letterari, scrivevano autori dei peso di Giovanni Papini, Giuseppe Prezzolini e Giuseppe Borgese; sul «Regno», la preoccupazione era invece prevalentemente politica, secondo la sensibilità dei suo direttore Enrico Corradini che, pur condividendo il pensiero dei "fiorentini", esitava a far proprio lo stile violentemente anticristiano di un Papini.

Egli, infatti, aveva finito col far propria la posizione dell'Action Française e in particolare di Charles Maurras che, pur radicalmente avverso al cristianesimo, stimava il senso della tradizione proprio della Chiesa cattolica, intesa però non come luogo di esperienza condivisa di fede ma come mera istituzione culturale, sociale e politica, capace di ispirare sentimenti di autorità e di ordine e di influenzare potentemente le popolazioni in senso conservatore. Secondo il Corradini, in posizione subordinata rispetto all'esito del processo unitario dei Paese, anche la Chiesa avrebbe potuto servire col suo prestigio presso la popolazione alla realizzazione delle finalità "imperiali" dei nazionalismo italiano. I cattolici, in particolare, avrebbero dovuto rinunciare ad ogni tentazione di tipo democratico per volgersi invece ad allineare       il popolo agli gli interessi del ceto dominante.
Tuttavia, i cattolici, anche quando venivano chiamati in causa, stentavano a prendere posizione sulle tesi di queste riviste; tendevano a considerare il nazionalismo né più né meno che un nuovo nemico che si aggiungeva ai tanti che già avevano. Lo stesso Filippo Meda, che era attento alla questione dell'inserimento dei cattolici nella vita dello stato e che sarà il primo cattolico a entrare in un governo nazionale, una prima volta nel 1916 e una seconda nei 1920, non considerò neppure degna di attenzione la tesi di una Chiesa che rinunciasse alla sua universalità per appiattirsi sulla vicenda nazionale italiana.
Le cose cambiarono sensibilmente nei 1911 con la guerra di Libia, quando una parte, prevalentemente quella giovanile, dei Movimento Cattolico fu partecipe dell'entusiasmo che si era scatenato, e ciò costrinse a prestare attenzione ai nazionalisti e a prendere in considerazione la possibilità di un dialogo con loro.
Si cominciò così a "pensare" la possibilità di una collaborazione tra nazionalisti e cattolici, almeno sul piano prettamente politico visto che, quello ideologico rimaneva precluso. In tutto ciò un ruolo l'aveva anche il desiderio di non pochi cattolici di non sentirsi cittadini di seconda categoria ma di essere partecipi dei fermento che attraversava il Paese. Per smorzare questi pericolosi entusiasmi, «L’Osservatore Romano», ritenne opportuno riservare una serie di articoli per attaccare i nazionalisti come imperialisti, guerrafondai e dunque anticristiani. A tale presa di posizione si associò anche Filippo Meda.
Ma i nazionalisti furono abili a non accettare come campo dei confronto con i cattolici quello ideologico e preferirono quello strettamente politico sul quale lo stesso Meda fu costretto ad ammettere che esisteva la possibilità di una qualche convergenza. Convergenza che si stabilì anche con loro, oltre che con i liberali dalla cui matrice i cattolici li facevano derivare, in occasione delle elezioni dei 1913 in cui fu messo in atto il Patto Gentiloni che costituirà il superamento del non expedit e l'ingresso ufficiale dei cattolici nella vita politica dei Paese. Il patto, sottoscritto sulla base di sede punti considerati "irrinunciabili", fu reso possibile dall'entrata in vigore della riforma elettorale varata nel 1912 che, introducendo il suffragio universale maschile, dava finalmente ai cattolici la possibilità di contare numericamente perché messi in grado di attingere a un bacino elettorale, quello dei contadini, precedente-
mente, almeno di fatto, escluso dal voto. I candidati nazionalisti sottoscrissero di buon grado le condizioni del patto ritenute da loro funzionali a un rafforzamento della Chiesa in chiave puramente  nazionale

Tale collaborazione fu messa a dura prova per poi terminare, con lo scoppio della Prima Guerra Mondiale. Le dure polemiche sulla neutralità prima, sull'intervento e sulla conduzione della guerra poi e infine sulle vicende del dopoguerra riaprirono una frattura tra i nazionalisti e i cattolici, anche quelli che per lealismo verso le istituzioni e la patria avevano accettato la guerra, ormai consapevoli di essere stati strumentalizzati. Nell'immediato dopoguerra, i cattolici ritennero di dover privilegiare i temi di una politica interna volta alla conquista di condizioni di equità sociale rispetto a quelli di una politica estera tesa all'acquisizione di spazi da potenza imperiale. Per tali ragioni, nessuna attenzione troverà tra i cattolici un congresso dei nazionalisti nel 1919 che ebbe al centro la "vittoria mutilata" e la vicenda politica internazionale. (1)

Sappiamo che «l'Italia entrò in guerra nel 1915 per volere della Corona e di una minoranza di italiani, contro la stessa volontà della maggioranza parlamentare e delle grandi masse [ ... contrarie alla guerra più per motivi istintivi che politici»(2). D'altra parte sarebbe stato difficile evitarlo finché fosse diffusa la convinzione illusoria che il Paese fosse una grande potenza e che gli spettasse di diritto il compito di intervenire sullo scenario mondiale. La divisione tra interventisti e anti-interventisti, che in altri Paesi si ricompone dopo l'inizio dei combattimenti, in Italia, a parte il momento di generale patriottismo seguito alla disfatta di Caporetto, permarrà anche dopo la fine del conflitto. Certo, la Grande Guerra è la prima esperienza comune a tutti i cittadini del Regno, indipendentemente dalle idee personali e dalle provenienze regionali di ciascuno; sotto molti aspetti è davvero l'ultimo momento dei Risorgimento, tuttavia non unificherà mai la nazione in un comune sentire (3).

Tra il 1915 e il 1918 furono impiegati sul fronte non meno di 5 miloni e mezzo di soldati. Nella stragrande maggioranza si trattava di contadini, inquadrati nella fanteria, l'arma che sopportò il peso maggiore della guerra: di fatto il 95 per cento dei caduti furono fanti. Solo a prezzo di gravi sacrifici, le donne e bambini e ragazzi riuscirono a colmare il vuoto lasciato dai richiamati alle armi. Lo stato, da parte sua, integrava il reddito delle famiglie povere dei soldati - si trattava della stragrande maggioranza nel caso dei contadini - con un sussidio giornaliero che continuava a essere versato fino a tre mesi dopo il congedo del loro congiunto. Grande fu lo spaesamento e il turbamento che lo spostarsi e il rimescolarsi di grandi masse di uomini dalle campagne di tutte le parti d'Italia verso il fronte comportò, per di più senza che essi capissero le ragioni di una guerra cui si sentivano estranei ma che dovevano subire in forza di una rigidissima disciplina. Tutto ciò però contribuì a far prendere coscienza ai contadini, forse per la prima volta dopo l'Unità, di avere una dignità e dei diritti da vantare di fronte allo stato, che nei loro confronti aveva, dunque, anche dei doveri. Si facevano dunque strada nel mondo rurale delle trasformazioni grazie alle quali, lentamente, le idee di patria e di cittadinanza cominciavano a prendere piede. Gli operai, invece, furono meno impiegati al fronte, si preferiva, infatti, lasciarli in fabbrica per garantire forza lavoro specializzata a quell'industria bellica di cui lo stato era divenuto il committente principale.

I contadini rappresentavano la classe sociale più vicina alla Chiesa, mentre la classe operaia era più vicina al socialismo, nonostante che l'enciclica Rerum Novarum, pubblicata da Leone XIII nel 1891, avesse molto sensibilizzato il mondo cattolico rispetto alla questione operaia e legittimato, sviluppato e rafforzato tutte quelle iniziative che già da tempo erano in atto, per la promozione dei lavoratori (4).

Visto lo stretto legame tra Chiesa e mondo contadino, non possiamo non domandarci come le autorità religiose si comportarono di fronte alla guerra, e in particolare quale tipo di pastorale svilupparono i parroci che in molte zone del Paese erano tutt'altro che ininfluenti rispetto al modo di pensare e di sentire dei contadini.

I cattolici in prevalenza erano stati contrari alla guerra e neutralisti convinti - ricordiamo i tentativi risultati vani di Benedetto XV di tener fuori l'Italia dal conflitto - anche se non erano mancati gli incerti e gli interventisti decisi (5). Tuttavia, dopo lo scoppio dei conflitto essi fecero il loro dovere come gli altri e le autorità religiose collaborarono lealmente con quelle civili. I vescovi, superate le difficoltà iniziali, esortarono la popolazione a obbedire al governo e si prodigarono a lenire le sofferenze della gente e dei soldati(6). 


(1) Cfr. E Traniello - G. Campanini (direttori), Dizionario Storico del Movimento Cattolico in Italia 1860-1980, I/2 Marietti, Torino 1981.

(2) J. C. ALLAIN - R. J. B. BOSWORTH - G. DELLACASA ~ J. A. Moses - P. RE= - F. B. Tipton - L. Trezzi - L. VANZETTO, Il passaggio dei secolo e la Grande guerra, in Storia d'Italia e d'Europa, 711, p. 313, Jaka Book, Milano 1983.

(3) Cfr. E. GENTILE, Due colpi di pistola, dieci milioni di morti, la fine di un mondo. Storia illustrata della Grande Guerra, Laterza, Roma-Bari 2014. Sui tentativi dell'Italia di condurre una politica estera da grande potenza nell'immediato primo dopoguerra e sulle missioni all'estero del nostro esercito e della nostra diplomazia cfr. Le occupazioni militari italiane alla fine della Grande Guerra, a cura di R. Pupo, Laterza, Roma-Bari 2014.

(4) Cfr. M. ORMAS, Umanesimo cristiano e modernità. Introduzione alle encicliche sociali, dalla Rerum Novarum alla Caritas in veritate, Lateran University Press, Città del Vaticano 2014.

(5) Per esempio, la Lega Democratica Nazionale di Romolo Murri era interventista.


(6) Cfr. A. Monticone, I vescovi italiani e la guerra 1915-1918, in G. Rossini (a cura di) Benedetto XV i cattolici e la prima guerra mondiale, Ed. 5 Lune, Roma 1963, pp. 627-677.

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