Rev. Maurizio Ormas
In Italia, la prima rivista ispirata ai principi dei
nazionalismo apparve nel 1896 e fu «Il Marzocco»; nel 1903 ne comparvero altre
due: «Il Leonardo» e Il Regno». Esse non nascondevano la loro impostazione
provocatoriamente paganeggiante in funzione anticristiana e individualista. Sul
«Leonardo», pubblicato a Firenze, dedicato ad argomenti prevalentemente
letterari, scrivevano autori dei peso di Giovanni Papini, Giuseppe Prezzolini e
Giuseppe Borgese; sul «Regno», la preoccupazione era invece prevalentemente
politica, secondo la sensibilità dei suo direttore Enrico Corradini che, pur
condividendo il pensiero dei "fiorentini", esitava a far proprio lo
stile violentemente anticristiano di un Papini.
Egli, infatti, aveva finito col far propria la posizione
dell'Action Française e
in particolare di Charles Maurras che, pur radicalmente avverso al
cristianesimo, stimava il senso della tradizione proprio della Chiesa
cattolica, intesa però non come luogo di esperienza condivisa di fede ma come
mera istituzione culturale, sociale e politica, capace di ispirare sentimenti
di autorità e di ordine e di influenzare potentemente le popolazioni in senso
conservatore. Secondo il Corradini, in posizione subordinata rispetto all'esito
del processo unitario dei Paese, anche la Chiesa avrebbe potuto servire col suo prestigio presso
la popolazione alla realizzazione delle finalità "imperiali" dei
nazionalismo italiano. I cattolici, in particolare, avrebbero dovuto rinunciare
ad ogni tentazione di tipo democratico per volgersi invece ad allineare il popolo agli gli interessi del ceto
dominante.
Tuttavia, i cattolici, anche quando venivano chiamati in
causa, stentavano a prendere posizione sulle tesi di queste riviste; tendevano
a considerare il nazionalismo né più né meno che un nuovo nemico che si aggiungeva
ai tanti che già avevano. Lo stesso Filippo Meda, che era attento alla
questione dell'inserimento dei cattolici nella vita dello stato e che sarà il
primo cattolico a entrare in un governo nazionale, una prima volta nel 1916 e
una seconda nei 1920, non considerò neppure degna di attenzione la tesi di una
Chiesa che rinunciasse alla sua universalità per appiattirsi sulla vicenda
nazionale italiana.
Le cose cambiarono sensibilmente nei 1911 con la guerra di
Libia, quando una parte, prevalentemente quella giovanile, dei Movimento
Cattolico fu partecipe dell'entusiasmo che si era scatenato, e ciò costrinse a
prestare attenzione ai nazionalisti e a prendere in considerazione la
possibilità di un dialogo con loro.
Si cominciò così a "pensare" la possibilità di una
collaborazione tra nazionalisti e cattolici, almeno sul piano prettamente politico
visto che, quello ideologico rimaneva precluso. In tutto ciò un ruolo l'aveva anche
il desiderio di non pochi cattolici di non sentirsi cittadini di seconda
categoria ma di essere partecipi dei fermento che attraversava il Paese. Per
smorzare questi pericolosi entusiasmi, «L’Osservatore Romano», ritenne
opportuno riservare una serie di articoli per attaccare i nazionalisti come
imperialisti, guerrafondai e dunque anticristiani. A tale presa di posizione si
associò anche Filippo Meda.
Ma i nazionalisti furono abili a non accettare come campo
dei confronto con i cattolici quello ideologico e preferirono quello
strettamente politico sul quale lo stesso Meda fu costretto ad ammettere che
esisteva la possibilità di una qualche convergenza. Convergenza che si stabilì anche
con loro, oltre che con i liberali dalla cui matrice i cattolici li facevano
derivare, in occasione delle elezioni dei 1913 in cui fu messo in
atto il Patto Gentiloni che costituirà il superamento del non expedit e l'ingresso ufficiale dei cattolici nella vita
politica dei Paese. Il patto, sottoscritto sulla base di sede punti considerati
"irrinunciabili", fu reso possibile dall'entrata in vigore della
riforma elettorale varata nel 1912 che, introducendo il suffragio universale
maschile, dava finalmente ai cattolici la possibilità di contare numericamente
perché messi in grado di attingere a un bacino elettorale, quello dei
contadini, precedente-
mente, almeno di fatto, escluso dal voto. I candidati
nazionalisti sottoscrissero di buon grado le condizioni del patto ritenute da
loro funzionali a un rafforzamento della Chiesa in chiave puramente nazionale
Tale collaborazione fu messa a dura prova per poi terminare,
con lo scoppio della Prima Guerra Mondiale. Le dure polemiche sulla neutralità
prima, sull'intervento e sulla conduzione della guerra poi e infine sulle
vicende del dopoguerra riaprirono una frattura tra i nazionalisti e i
cattolici, anche quelli che per lealismo verso le istituzioni e la patria
avevano accettato la guerra, ormai consapevoli di essere stati
strumentalizzati. Nell'immediato dopoguerra, i cattolici ritennero di dover
privilegiare i temi di una politica interna volta alla conquista di condizioni
di equità sociale rispetto a quelli di una politica estera tesa
all'acquisizione di spazi da potenza imperiale. Per tali ragioni, nessuna
attenzione troverà tra i cattolici un congresso dei nazionalisti nel 1919 che
ebbe al centro la "vittoria mutilata" e la vicenda politica
internazionale. (1)
Sappiamo che «l'Italia entrò in guerra nel 1915 per volere
della Corona e di una minoranza di italiani, contro la stessa volontà della
maggioranza parlamentare e delle grandi masse [ ... contrarie alla guerra più
per motivi istintivi che politici»(2). D'altra parte sarebbe stato difficile
evitarlo finché fosse diffusa la convinzione illusoria che il Paese fosse una
grande potenza e che gli spettasse di diritto il compito di intervenire sullo
scenario mondiale. La divisione tra interventisti e anti-interventisti, che in
altri Paesi si ricompone dopo l'inizio dei combattimenti, in Italia, a parte il
momento di generale patriottismo seguito alla disfatta di Caporetto, permarrà
anche dopo la fine del conflitto. Certo, la Grande Guerra è la
prima esperienza comune a tutti i cittadini del Regno, indipendentemente dalle
idee personali e dalle provenienze regionali di ciascuno; sotto molti aspetti è
davvero l'ultimo momento dei Risorgimento, tuttavia non unificherà mai la
nazione in un comune sentire (3).
Tra il 1915 e il 1918 furono impiegati sul fronte non meno
di 5 miloni e mezzo di soldati. Nella stragrande maggioranza si trattava di
contadini, inquadrati nella fanteria, l'arma che sopportò il peso maggiore
della guerra: di fatto il 95 per cento dei caduti furono fanti. Solo a prezzo
di gravi sacrifici, le donne e bambini e ragazzi riuscirono a colmare il vuoto
lasciato dai richiamati alle armi. Lo stato, da parte sua, integrava il reddito
delle famiglie povere dei soldati - si trattava della stragrande maggioranza
nel caso dei contadini - con un sussidio giornaliero che continuava a essere
versato fino a tre mesi dopo il congedo del loro congiunto. Grande fu lo
spaesamento e il turbamento che lo spostarsi e il rimescolarsi di grandi masse
di uomini dalle campagne di tutte le parti d'Italia verso il fronte comportò,
per di più senza che essi capissero le ragioni di una guerra cui si sentivano
estranei ma che dovevano subire in forza di una rigidissima disciplina. Tutto
ciò però contribuì a far prendere coscienza ai contadini, forse per la prima
volta dopo l'Unità, di avere una dignità e dei diritti da vantare di fronte
allo stato, che nei loro confronti aveva, dunque, anche dei doveri. Si facevano
dunque strada nel mondo rurale delle trasformazioni grazie alle quali,
lentamente, le idee di patria e di cittadinanza cominciavano a prendere piede.
Gli operai, invece, furono meno impiegati al fronte, si preferiva, infatti,
lasciarli in fabbrica per garantire forza lavoro specializzata a
quell'industria bellica di cui lo stato era divenuto il committente principale.
I contadini rappresentavano la classe sociale più vicina
alla Chiesa, mentre la classe operaia era più vicina al socialismo, nonostante
che l'enciclica Rerum Novarum, pubblicata da Leone XIII nel 1891, avesse molto
sensibilizzato il mondo cattolico rispetto alla questione operaia e
legittimato, sviluppato e rafforzato tutte quelle iniziative che già da tempo
erano in atto, per la promozione dei lavoratori (4).
Visto lo stretto legame tra Chiesa e mondo contadino, non
possiamo non domandarci come le autorità religiose si comportarono di fronte
alla guerra, e in particolare quale tipo di pastorale svilupparono i parroci
che in molte zone del Paese erano tutt'altro che ininfluenti rispetto al modo
di pensare e di sentire dei contadini.
(1) Cfr. E Traniello - G. Campanini (direttori), Dizionario
Storico del Movimento Cattolico in Italia 1860-1980, I/2 Marietti, Torino 1981.
(2) J. C. ALLAIN - R. J. B. BOSWORTH - G. DELLACASA ~ J. A.
Moses - P. RE= - F. B. Tipton - L. Trezzi - L. VANZETTO, Il passaggio dei
secolo e la Grande
guerra, in Storia d'Italia e d'Europa, 711, p. 313, Jaka Book, Milano 1983.
(3) Cfr. E. GENTILE, Due colpi di pistola, dieci milioni di
morti, la fine di un mondo. Storia illustrata della Grande Guerra, Laterza,
Roma-Bari 2014. Sui tentativi dell'Italia di condurre una politica estera da
grande potenza nell'immediato primo dopoguerra e sulle missioni all'estero del
nostro esercito e della nostra diplomazia cfr. Le occupazioni militari italiane
alla fine della Grande Guerra, a cura di R. Pupo, Laterza, Roma-Bari 2014.
(4) Cfr. M. ORMAS, Umanesimo cristiano e modernità.
Introduzione alle encicliche sociali, dalla Rerum Novarum alla Caritas in
veritate, Lateran University Press, Città del Vaticano 2014.
(5) Per esempio, la Lega Democratica
Nazionale di Romolo Murri era interventista.
(6) Cfr. A. Monticone, I vescovi italiani e la guerra 1915-1918, in G. Rossini (a
cura di) Benedetto XV i cattolici e la prima guerra mondiale, Ed. 5 Lune, Roma
1963, pp. 627-677.
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