martedì 10 marzo 2015

I CATTOLICI ITALIANI E LA GRANDE GUERRA - II PARTE

Il futuro Giovanni XXIII in divisa da Cappellano
Militare con i fratelli Zaverio e Giuseppe
I parroci, anzi, in alcuni casi come in Veneto dopo la rotta di Caporetto, si trovarono a dover svolgere, grazie alla loro autorità morale, un ruolo di supplenza rispetto alle stesse autorità militari e amministrative, per mantenere l'ordine e garantire un minimo di assistenza in quel frangente così drammatico. I sacerdoti, come i cappellani militari, erano poi gli inevitabili intermediari, visto il diffuso analfabetismo, tra i soldati al fronte e le loro famiglie per la stesura della corrispondenza e questo consentiva loro di stabilire rapporti personali significativi anche con i più tiepidi verso la fede e l'organizzazione ecclesiastica. Si può pertanto notare che questa presenza attiva sul territorio da parte di tanti rappresentanti della Chiesa contribuì a porre le premesse dei successo politico e sindacale che negli anni successivi alla guerra il cattolicesimo sociale saprà conseguire.

Le cerimonie commemorative, le preghiere e le celebrazioni di suffragio per i militari defunti, l'apposizione di lapidi e la costruzione di monumenti spesso ospitati in edifici di culto e in luoghi sacri, concorsero a istituire in ogni più riposto angolo dei Paese una specie di culto dei Caduti per la Patria che diffuse il concetto stesso di patria nelle campagne, con la mediazione fattiva della Chiesa, sicché messaggio religioso e messaggio patriottico, come osserva M. Isnenghi, risultarono inestricabilmente connessi. Tale aura sacrale e patriottica fu ulteriormente consolidata nel 1921 dal trasferimento a Roma e dalla tumulazione solenne delle spoglie dei Milite Ignoto nel cosiddetto Altare della Patria, nel cuore dei Monumento a Vittorio Emanuele II.

Tutto ciò, insieme con il comportamento dei cattolici e dei loro sacerdoti sui campi di battaglia «offrì l'occasione di colmare una volta per tutte la frattura fra i cattolici stessi e la Nazione, (7) e contribuì a ridurre la distanza tra stato e Chiesa e a porre le premesse per il superamento e, successivamente, la risoluzione della Questione Romana.

L’Italia, come del resto la Francia, benché la popolazione cattolica fosse in assoluta maggioranza, era guidata da una minoranza anticlericale che non consentiva al clero l'esenzione dal servizio militare. Venticinquemila furono pertanto i sacerdoti arruolati, anche se a molti di loro fu di fatto concessa l'opportunità di servire nella Sanità senza dover impugnare le armi. Il generale Raffaele Cadorna, su suggerimento dei beato Pirro Scavizzi, volle che tra loro venisse scelto un corpo di duemila e quattrocento cappellani militari guidati da un vescovo detto “ordinario castrense", ristabilendo così un istituto abolito nel secolo precedente.

Non pochi tra i preti-soldato vennero decorati al valor militare, tra di essi il famoso don Giovanni Minzoni, anni dopo vittima di un agguato squadrista, decorato anche di una medaglia d'argento. E non pochi combattenti cattolici di quella guerra, anche laici, sono stati in seguito elevati dalla Chiesa agli onori degli altari. San Riccardo Pampuri, col grado di tenente, meritò una medaglia per un'azione eroica durante la disastrosa ritirata di Caporetto. 
Anche Padre Pio, che non aveva ancora le stimmate, fu arruolato sebbene fosse già frate; ma era talmente malato che, alla visita, il medico militare lo definì un «morto ambulante». Date le sue condizioni lo misero a fare l'infermiere, ma presto dovettero rassegnarsi: lo rimandarono in convento.

San Pio da Pietrelcina in divisa
Un cappellano che divenne beato fu Giulio Facibeni, medaglia d'argento al valor militare. Dopo il conflitto, mantenendo fede alla promessa fatta a molti soldati morenti, fondò l'Opera Madonnina del Grappa per gli orfani di guerra. Scrisse: «Deporre l'abito talare per indossare la veste dei soldato non era neanche un'interruzione dei ministero sacerdotale; [esprimeva] un po'di quella misteriosa relazione che intercorre tra la vita dei sacerdote e quella del soldato, ambedue impegnati in questo dono di sé per i fratelli, fino alla immolazione suprema».

Due Servi di Dio, il barnabita Giovanni Semeria e Agostino Gemelli, che allora era ancora laico, promossero la consacrazione dei soldati al Sacro Cuore. Il padre Semeria fondò poi l'Opera Nazionale per il Mezzogiorno d'Italia a favore degli orfani dei caduti. Adempiva così a una promessa che aveva fatto anche lui a molti soldati moribondi. Amava inoltre dire: «Si può essere buoni cattolici essendo buoni italiani».

In guerra militò anche san Giovanni XXIII, che fu prima sergente di fanteria e poi cappellano nell'ospedale militare di Bergamo. Così annotò nel suo diario: «Di tutto sono grato al Signore, ma particolarmente Lo ringrazio perché a vent'anni ha voluto che facessi il mio bravo servizio militare e poi durante tutta la Prima Guerra Mondiale lo rinnovassi da sergente e da cappellano».

Una pagina oscura e poco conosciuta della Grande Guerra, secondo Marco Roncalli, fu scritta dallo stato - o, per meglio dire, dal Comando Supremo - che, nonostante la sostanziale lealtà dei cattolici nei suoi confronti, ritenne di dover avviare alla deportazione, al confino, all'internamento migliaia di sacerdoti, di fedeli militanti e di qualche vescovo delle diocesi vicine al fronte, sospettati, talora a ragione, più spesso a torto, di essere austriacanti, pacifisti e, dopo Caporetto, disfattisti. Furono cacciati dalle loro sedi ed esiliati in varie province dei Regno, applicando nei loro confronti provvedimenti rapidi e molto spesso privi di reali motivazioni. Né valevano proteste, pressioni della Santa Sede, interpellanze parlamentari, l'intervento dello stesso ministro della Giustizia e deli Culto, Orlando, che raccomandava una maggiore cautela nei confronti dei clero. I provvedimenti presi in forza dei Codice Militare di guerra non ammettevano diritto alla difesa né, finita la guerra, diritto a revisioni, riabilitazioni e indennizzi.

Si accennava al fatto che papa Benedetto XV avesse auspicato e si fosse speso in favore della neutralità dell'Italia.

Il papa, che era salito al soglio pontificio il 3 settembre dei 1914, era stato scelto dai cardinali, probabilmente, per le sue doti di diplomatico oltre che di pastore, assolutamente necessarie nel corso di una guerra, lui che aveva collaborato in qualità di Sostituto della Segreteria di Stato con fini diplomatici quali i cardinali Rampolla dei Tindaro e Merry del Val.

Il nuovo papa sentiva che erano ormai maturi i tempi per avviare contatti riservati con il Regno d'Italia per risolvere la Questione Romana. Si era inoltre reso conto che era venuto il momento di consentire a don Luigi Sturzo di fondare, nel 1919, un partito aconfessionale, anche se di ispirazione cristiana, che fosse lo strumento della presenza politica organizzata dei cattolici italiani, quello che prenderà il nome di Partito Popolare.

Durante il suo pontificato, Benedetto XV indirizzò tutte le sue energie per contrastare il conflitto e promuovere la pace. Iniziò subito con l'Esortazione Ubi Primum, dell'8 settembre 1914, in cui «constatando che tanta parte dell'Europa, devastata dal ferro e dal fuoco, rosseggia dei sangue dei cristiani», pregava e scongiurava «vivamente coloro che reggono le sorti dei popoli a deporre tutti i loro dissidi nell'interesse della società umana».

I suoi appelli ai governanti si fecero sempre più insistenti e argomentati nel descrivere gli orrori della guerra, a tal punto che non mancarono vescovi appartenenti a entrambi i fronti che ne contestassero i frequenti interventi con l'accusa di demoralizzare i combattenti dei proprio paese. Lui che aveva espresso il suo disappunto per la “benedizione delle bandiere" dovette subire durissime proteste e censure dei governi che lo accusavano di disfattismo e frequenti insulti da parte di quella stampa che invece era indirizzata ad alimentare nell'opinione pubblica lo spirito guerriero. Il suo magistero contribuì così in modo significativo all'elaborazione del pensiero sociale cristiano sulla pace e sulla guerra.

Il papa pose la Chiesa in una posizione di assoluta neutralità rispetto ai belligeranti, rifiutando di entrare nella logica della ricerca delle responsabilità per il deflagrare dei conflitto, ricerca che lo avrebbe esposto all'accusa di parzialità. Egli si sentiva padre di tutti i combattenti e soprattutto dei cattolici, considerando in loro «non gli interessi speciali che li dividono, ma il comune vincolo della fede che li affratella»(8).

Infatti, la guerra, ben lungi dal costituire una scuola di eroismo e un'occasione di selezione dei migliori come voleva la propaganda bellicista e nazionalista, appariva ai suoi occhi solo come una calamità, un tremendo fantasma, un'orrenda carneficina, un suicidio dell'Europa civile, un immane flagello, un'inutile strage (9). Sarà proprio grazie a quest'ultima definizione della guerra, che gli costerà non poche incomprensioni, che iI papa passerà al la storia come difensore della pace (10).

Purtroppo, «il suo tentativo di mediazione posto in atto con la Nota diplomatica dei 1 agosto 1917, concordata con il nuovo imperatore d'Austria-Ungheria, il futuro Beato Carlo d'Asburgo, in cui oltre all'appello motivato alla pace, Benedetto XV formulava anche concrete proposte operative in vista di un nuovo ordine europeo, non ebbe esito positivo a causa delle aspettative di vittoria da parte dei belligeranti di entrambi i fronti e in particolare della freddezza e dell'indifferenza del presidente americano Woodrow Wilson.

Il papa dovette così limitarsi prima, nel corso del conflitto, a dispiegare tra le popolazioni l'azione caritativa della Santa Sede per alleviarne le sofferenze provocate dalla guerra, poi, a conclusione delle ostilità, a fare appello alle potenze vincitrici perché non trattassero con eccessiva durezza i vinti, pena il creare le condizioni di un successivo conflitto. Cosa che purtroppo accadde con la pace di Versailles che, umiliando la Germania, minò la neonata democrazia della Repubblica di Vieimar»(11), aprendo così la strada al ritorno di quel nazionalismo esasperato di cui fu tragico interprete Adolf Hitler.

Rev. Maurizio Ormas
Docente incaricato di Magistero Sociale,
Pontificia Università Lateranense - Roma   




(7) N. Elias, Humana Conditio, Il Mulino, Bologna, 1987.

(8) G. Bouthoul, Le Guerre: elementi di polemologia: metodi, teorie e opinioni sulla i guerra, morfologia, elementi tecnici, demografici, economici, psicologici, periodicità delle guerre, Longanesi, Milano, 1982, p. 43.

(9) G. Bouthoul, L'uomo che uccide, Longanesi, Milano. 1969.

(8) Allocuzione del 22 gennaio 1915.

(9) Le definizioni sono tratte, rispettivamente, da: Esortazione dell'8 settembre 1914; Enc. Ad beatissimi n. 5; Lettera al card. Vannutelli del 25 maggio 1915; Lettera al card. Pompilij del 4 marzo 1916; Discorso al collegio cardinalizio dei Natale 1918; Nota del 1 agosto 1917.

(10) L'espressione del papa, evidentemente male interpretata, suscita più proteste che consensi. Mentre i pangermanisti la ritengono uno strumento diretto a strappare la vittoria dalle mani degi'Imperi centrali ormai lanciatissimi, in Italia e in Francia c'è chi la giudica addirittura al servizio della Germania e dei suoi alleati, tanto che Georges Clemenceau definisce Benedetto XV il «Pape boche (il papa crucco)». In Germania venne definito invece «il papa francese (der franzosische Papst)» e in Italia, addirittura, «Maledetto XV». Cfr. G. F. POLLARD, Una «inutile strage». Benedetto XV e la Prima guerra mondiale, in «Concilium», 3/2014, p. 170.


(11) M. ORMAS, Umanesimo cristiano e modernità, op. cit., pp. 38-39.

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