Negli anni centrali della Grande guerra italiana, 1916 e
1917, si succedono tre governi guidati da personalità liberali tra loro diverse
per formazione e metodi, ma concordi nel
non sovvertire il quadro e le fondamentali garanzie costituzionali con il
pretesto della straordinarietà della situazione. A differire furono piuttosto i
criteri di composizione dei ministeri e il
loro rapportarsi alla Nazione in guerra. La crisi dei governo guidato dal
pugliese Antonio Salandra, espressione di un liberalismo conservatore e 'moderatamente'
interventista, appare essenzialmente determinata dal mutare, dei carattere e
delle prospettive dei conflitto. La guerra di Salandra, degli altri liberali interventisti
e anti-giolittiani e degli stessi stati,maggiori doveva essere una guerra breve
e una guerra nazionale, i cui obiettivi essenziali erano l'annessione delle
terre irredente (Trentino, Venezia Giulia, lstria) e un'auspicata espansione
italiana sulla sponda orientale dell'Adriatico, e come tale poteva essere
politicamente condotta dal solo partito liberale.
Non a caso la
dichiarazione di guerra da parte dell'Italia, nel maggio 1915, era stata indirizzata
al l'Austria- Ungheria, non anche alla Germania, come avrebbero voluto gli
interventisti 'di sinistra'. Presto però ci si accorse che la guerra non
sarebbe stata breve come quelle dei Risorgimento, che avrebbe comportato
sacrifici di vite umane e finito con l'alimentare malcontento e distacco fra il
popolo e le istituzioni monarchiche. Gli stessi vantaggi promessi all'Italia
dal patto di Londra non avrebbero potuto essere assicurati se non al prezzo di
una maggiore convergenza del nostro Paese sugli obiettivi delle altre potenze
dell'intesa, tesi a ridisegnare gli equilibri europei, sconfiggendo i due
Imperi centrali, ben oltre le limitate aspettative 'patriottiche' dei governo
italiano. A ciò si aggiunga il crescente distacco fra ceto politico e comando
militare. Luigi Cadorna, di fatto comandante supremo dell'esercito (sottoposto
soltanto al Re che lo era di diritto), nel mentre adottava tattiche e strategie
discusse e che procuravano scarsi risultati, era insofferente rispetto a
qualsiasi 'controllo' politico. E a lui Salandra finì con l'attribuire il fallimento
dell'ipotesi di guerra breve nella quale aveva creduto.
Per fronteggiare la situazione che si era andata creando, e
tenuto conto che, almeno per il momento, Vittorio Emanuele IlI non intendeva
destituire Cadorna, Salandra e i liberali a lui vicini pensarono a una crisi
'pilotata'. La guerra di logoramento che si andava delineando, la sua
estensione temporale e spaziale esigevano, nel rigoroso rispetto della prassi
statutaria, un più ampio coinvolgimento di forze interventiste o comunque non 'disfattiste',
espressione di tradizioni diverse rispetto a quella liberale risorgimentale che
aveva fino ad allora costituito il perno politico dei Regno d'Italia.
Innanzitutto si trattava di recuperare allo sforzo comune gli altri liberali,
gli amici di Giovanni Giolitti, che avevano sostenuto fino all'ultimo la tesi
della neutralità e delle trattative diplomatiche con l'Austria. Data
l'incompatibilità personale con lo statista di Dronero, Salandra si rendeva
conto di non poter essere lui il presidente dei Consiglio di un nuovo governo
nel quale i giolittiani tornassero ad avere voce in capitolo. Ma oltre ai
liberali in precedenza neutralisti, l'obiettivo era quello di coinvolgere nelle
responsabilità politiche gli interventisti democratici, radicali, repubblicani
e socialisti riformisti, e i cattolici politici non pregiudizialmente ostili
alla guerra in corso. Del resto l'integrazione dei socialisti e dei, cattolici
nel sistema aveva rappresentato un obiettivo pressoché costante della politica
giolittiana di inizio Novecento e su questo versante era particolarmente
impegnato, nella sua capacità di mediazione, il guardasigilli uscente, il
siciliano Vittorio Emanuele Orlando, che manteneva contatti sia con Claudio
Treves e Filippo Turati, sia Oltretevere.
Salandra si dimise il 10 maggio 1916 in concomitanza con
l'offensiva austriaca nel Trentino, la Stratexpedition
(spedizione punitiva contro l'ex alleata Italia). A succedergli fu chiamato in
giugno il decano della Camera, il settantottenne Paolo Boselli, che era stato
l'anno prima relatore per il conferimento al governo Salandra dei pieni poteri
in vista della guerra. Il suo governo detto di "unità nazionale"
contò, rispetto ai precedenti, un numero inusitato di ministri senza
portafoglio. Come tali vi entrarono fra gli altri il repubblicano Ubaldo
Comandini e il socialriformista Leonida Bissolati; il liberale giolittiano
Gaspare Colosimo; il radicale Ettore Sacchi alla Giustizia mentre Orlando,
veniva spostato al più importante dicastero degli Interni. Il giornalista e
deputato milanese Filippo Meda, fu il primo cattolico a entrare esplicitamente
come tale, nonostante la contrarietà di papa Benedetto XV, in un governo a
guida liberale e divenne ministro delle Finanze; il giurista e storico
piemontese Francesco Ruffini, liberale interventista, ebbe il ministero della
Pubblica istruzione; mentre il socialista riformista lvanoe Bonomi tenne quello
dei Lavori pubblici; ministro della Guerra fu nominato Paolo Morrone, gradito a
Cadorna, che sarà sostituito, nel rimpasto di un anno dopo, dal generale
Gaetano Giardino. Unica conferma di rilievo quella, al ministero degli Esteri,
di Sidney Sonnino.
La prima conseguenza pratica più evidente fu il 28 agosto
1916 la dichiarazione di guerra alla Germania. Ma gli alleati chiedevano
all'italia, lo fece esplicitamente il comandante francese, il generale Cesar
Joffre, il contributo di almeno una divisione italiana sul fronte greco di
Salonicco. E senza le loro pressioni non si sarebbe arrivati, nel febbraio
1917, alle dimissioni indotte dei duca degli Abruzzi, Luigi Amedeo di
Savoia-Aosta, dal comando dell'Armata navale, sostituito da Paolo Thaon di
Revel.
Nel richiamo ideale al lascito risorgimentale, Boselli cercò
di indirizzare tutte le forze che avevano concorso alla composizione dei suo
governo (non gli votarono la fiducia soltanto i socialisti) a supportare lo
sforzo bellico. Ma non riuscì a comporre
il dissidio fra classe politica e comando militare. Cadorna non aveva dubbi sul
fatto che il potere civile doveva rimanere sottoposto a quello militare;
Bissolati, e gli interventisti democratici in genere, la pensavano all'opposto.
Orlando, dal canto suo, lamentava che il comandante in capo continuasse ad
essere arbitro di ogni cosa, mentre i ministri rimanevano completamente all'oscuro
dei suoi propositi. Dei resto Cadorna, nonostante la conquista di Gorizia, era
oggetto di contestazioni anche per la tattica delle offensive frontali, non
meno che per l'imposizione di una disciplina spietata ai soldati trattati
da numeri (processi ed esecuzioni sommarie, decimazioni,
eccetera). Solo dopo il cosiddetto scandalo Douhet, dal nome dei colonnello dei
comando supremo che aveva preparato un dossier segreto anti-Cadorna da
trasmettere al governo, Boselli riuscì a far riconciliare Bissolati e il Comandante
in capo, nell'intento che l'avversione reciproca non degenerasse in modo
irreparabile con grave pericolo delle istituzioni, oltre che per l'esito stesso
della guerra.
Il ministero Boselli resse la situazione fino alla tragedia
di Caporetto dopo la quale, alla fine di ottobre 1917, l 'incarico di
presidente dei Consiglio passò a Orlando, che continuò a mantenere anche il
portafoglio degli Interni. D'intesa con il sovrano, ma anche su pressione degli
alleati (convegni di Rapallo e di Peschiera), la sostituzione di Cadorna, già
ipotizzata da oltre un anno, fu decisa nel giro di una decina di giorni con la
nomina dei più duttile generale napoletano
Armando Diaz, che comandava il XXIII Corpo d'armata. Il
governo provvide poi alla costituzione della commissione d'inchiesta su
Caporetto. Orlando era per temperamento piuttosto incline a esitare e prendere
tempo. ma dovette avallare, in novembre a Peschiera, la determinazione dei Re e
di Diaz di attestare la resistenza italiana sulla linea - destinata a diventare
un simbolo - dei Piave, del Monte Grappa e degli Altipiani, mentre molti
consigliavano di ritirarsi fino al Mincio, se non al Po. Il dimissionario Boselli
confidava a un amico neutralista: "Quanto avevi ragione quando dicevi che
non si doveva fare la guerra'". Il 22 dicembre 1917 Orlando, pronunciò
alla Camera uno dei suoi discorsi rimasti famosi, quasi una sintesi
dell'impegno dei suo governo e dei riscatto dell'intera Nazione:”La voce dei
morti e la volontà dei vivi, il senso dell'onore e la ragione dell'utilità,
concordemente, solennemente ci rivolgono adunque un ammonimento solo, ci
additano una sola via di salvezza: Resistere! Resistere! Resistere!*. Destinato
a lunga vita - morirà ultranovantenne nel 1952 - e a passare alla storia come
il "presidente della Vittoria”. Orlando. alla conferenza di pace di
Parigi, nel 1919, si scontrerà con il presidente americano Woodrow Wilson
abbandonando platealmente i lavori di fronte alla mancata piena soddisfazione
delle attese con le quali l'Italia aveva partecipato alla Grande Guerra.
Gianpiero Goffi
Capo servizio de La Provincia , Cremona