martedì 8 marzo 2016

LA CLASSE DIRIGENTE LIBERALE NEL 1916-17. DA SALANDRA A ORLANDO

Negli anni centrali della Grande guerra italiana, 1916 e 1917, si succedono tre governi guidati da personalità liberali tra loro diverse per formazione e metodi, ma concordi    nel non sovvertire il quadro e le fondamentali garanzie costituzionali con il pretesto della straordinarietà della situazione. A differire furono piuttosto i criteri   di composizione dei ministeri e il loro rapportarsi alla Nazione in guerra. La crisi dei governo guidato dal pugliese Antonio Salandra, espressione di un liberalismo conservatore e 'moderatamente' interventista, appare essenzialmente determinata dal mutare, dei carattere e delle prospettive dei conflitto. La guerra di Salandra, degli altri liberali interventisti e anti-giolittiani e degli stessi stati,maggiori doveva essere una guerra breve e una guerra nazionale, i cui obiettivi essenziali erano l'annessione delle terre irredente (Trentino, Venezia Giulia, lstria) e un'auspicata espansione italiana sulla sponda orientale dell'Adriatico, e come tale poteva essere politicamente condotta dal solo partito liberale.
     Non a caso la dichiarazione di guerra da parte dell'Italia, nel maggio 1915, era stata indirizzata al l'Austria- Ungheria, non anche alla Germania, come avrebbero voluto gli interventisti 'di sinistra'. Presto però ci si accorse che la guerra non sarebbe stata breve come quelle dei Risorgimento, che avrebbe comportato sacrifici di vite umane e finito con l'alimentare malcontento e distacco fra il popolo e le istituzioni monarchiche. Gli stessi vantaggi promessi all'Italia dal patto di Londra non avrebbero potuto essere assicurati se non al prezzo di una maggiore convergenza del nostro Paese sugli obiettivi delle altre potenze dell'intesa, tesi a ridisegnare gli equilibri europei, sconfiggendo i due Imperi centrali, ben oltre le limitate aspettative 'patriottiche' dei governo italiano. A ciò si aggiunga il crescente distacco fra ceto politico e comando militare. Luigi Cadorna, di fatto comandante supremo dell'esercito (sottoposto soltanto al Re che lo era di diritto), nel mentre adottava tattiche e strategie discusse e che procuravano scarsi risultati, era insofferente rispetto a qualsiasi 'controllo' politico. E a lui Salandra finì con l'attribuire il fallimento dell'ipotesi di guerra breve nella quale aveva creduto.

Per fronteggiare la situazione che si era andata creando, e tenuto conto che, almeno per il momento, Vittorio Emanuele IlI non intendeva destituire Cadorna, Salandra e i liberali a lui vicini pensarono a una crisi 'pilotata'. La guerra di logoramento che si andava delineando, la sua estensione temporale e spaziale esigevano, nel rigoroso rispetto della prassi statutaria, un più ampio coinvolgimento di forze interventiste o comunque non 'disfattiste', espressione di tradizioni diverse rispetto a quella liberale risorgimentale che aveva fino ad allora costituito il perno politico dei Regno d'Italia. Innanzitutto si trattava di recuperare allo sforzo comune gli altri liberali, gli amici di Giovanni Giolitti, che avevano sostenuto fino all'ultimo la tesi della neutralità e delle trattative diplomatiche con l'Austria. Data l'incompatibilità personale con lo statista di Dronero, Salandra si rendeva conto di non poter essere lui il presidente dei Consiglio di un nuovo governo nel quale i giolittiani tornassero ad avere voce in capitolo. Ma oltre ai liberali in precedenza neutralisti, l'obiettivo era quello di coinvolgere nelle responsabilità politiche gli interventisti democratici, radicali, repubblicani e socialisti riformisti, e i cattolici politici non pregiudizialmente ostili alla guerra in corso. Del resto l'integrazione dei socialisti e dei, cattolici nel sistema aveva rappresentato un obiettivo pressoché costante della politica giolittiana di inizio Novecento e su questo versante era particolarmente impegnato, nella sua capacità di mediazione, il guardasigilli uscente, il siciliano Vittorio Emanuele Orlando, che manteneva contatti sia con Claudio Treves e Filippo Turati, sia Oltretevere.

Salandra si dimise il 10 maggio 1916 in concomitanza con l'offensiva austriaca nel Trentino, la Stratexpedition (spedizione punitiva contro l'ex alleata Italia). A succedergli fu chiamato in giugno il decano della Camera, il settantottenne Paolo Boselli, che era stato l'anno prima relatore per il conferimento al governo Salandra dei pieni poteri in vista della guerra. Il suo governo detto di "unità nazionale" contò, rispetto ai precedenti, un numero inusitato di ministri senza portafoglio. Come tali vi entrarono fra gli altri il repubblicano Ubaldo Comandini e il socialriformista Leonida Bissolati; il liberale giolittiano Gaspare Colosimo; il radicale Ettore Sacchi alla Giustizia mentre Orlando, veniva spostato al più importante dicastero degli Interni. Il giornalista e deputato milanese Filippo Meda, fu il primo cattolico a entrare esplicitamente come tale, nonostante la contrarietà di papa Benedetto XV, in un governo a guida liberale e divenne ministro delle Finanze; il giurista e storico piemontese Francesco Ruffini, liberale interventista, ebbe il ministero della Pubblica istruzione; mentre il socialista riformista lvanoe Bonomi tenne quello dei Lavori pubblici; ministro della Guerra fu nominato Paolo Morrone, gradito a Cadorna, che sarà sostituito, nel rimpasto di un anno dopo, dal generale Gaetano Giardino. Unica conferma di rilievo quella, al ministero degli Esteri, di Sidney Sonnino.

La prima conseguenza pratica più evidente fu il 28 agosto 1916 la dichiarazione di guerra alla Germania. Ma gli alleati chiedevano all'italia, lo fece esplicitamente il comandante francese, il generale Cesar Joffre, il contributo di almeno una divisione italiana sul fronte greco di Salonicco. E senza le loro pressioni non si sarebbe arrivati, nel febbraio 1917, alle dimissioni indotte dei duca degli Abruzzi, Luigi Amedeo di Savoia-Aosta, dal comando dell'Armata navale, sostituito da Paolo Thaon di Revel.

Nel richiamo ideale al lascito risorgimentale, Boselli cercò di indirizzare tutte le forze che avevano concorso alla composizione dei suo governo (non gli votarono la fiducia soltanto i socialisti) a supportare lo sforzo bellico. Ma non riuscì  a comporre il dissidio fra classe politica e comando militare. Cadorna non aveva dubbi sul fatto che il potere civile doveva rimanere sottoposto a quello militare; Bissolati, e gli interventisti democratici in genere, la pensavano all'opposto. Orlando, dal canto suo, lamentava che il comandante in capo continuasse ad essere arbitro di ogni cosa, mentre i ministri rimanevano completamente all'oscuro dei suoi propositi. Dei resto Cadorna, nonostante la conquista di Gorizia, era oggetto di contestazioni anche per la tattica delle offensive frontali, non meno che per l'imposizione di una disciplina spietata ai soldati trattati
da numeri (processi ed esecuzioni sommarie, decimazioni, eccetera). Solo dopo il cosiddetto scandalo Douhet, dal nome dei colonnello dei comando supremo che aveva preparato un dossier segreto anti-Cadorna da trasmettere al governo, Boselli riuscì a far riconciliare Bissolati e il Comandante in capo, nell'intento che l'avversione reciproca non degenerasse in modo irreparabile con grave pericolo delle istituzioni, oltre che per l'esito stesso della guerra.

Il ministero Boselli resse la situazione fino alla tragedia di Caporetto dopo la quale, alla fine di ottobre 1917, l'incarico di presidente dei Consiglio passò a Orlando, che continuò a mantenere anche il portafoglio degli Interni. D'intesa con il sovrano, ma anche su pressione degli alleati (convegni di Rapallo e di Peschiera), la sostituzione di Cadorna, già ipotizzata da oltre un anno, fu decisa nel giro di una decina di giorni con la nomina dei più duttile generale napoletano

Armando Diaz, che comandava il XXIII Corpo d'armata. Il governo provvide poi alla costituzione della commissione d'inchiesta su Caporetto. Orlando era per temperamento piuttosto incline a esitare e prendere tempo. ma dovette avallare, in novembre a Peschiera, la determinazione dei Re e di Diaz di attestare la resistenza italiana sulla linea - destinata a diventare un simbolo - dei Piave, del Monte Grappa e degli Altipiani, mentre molti consigliavano di ritirarsi fino al Mincio, se non al Po. Il dimissionario Boselli confidava a un amico neutralista: "Quanto avevi ragione quando dicevi che non si doveva fare la guerra'". Il 22 dicembre 1917 Orlando, pronunciò alla Camera uno dei suoi discorsi rimasti famosi, quasi una sintesi dell'impegno dei suo governo e dei riscatto dell'intera Nazione:”La voce dei morti e la volontà dei vivi, il senso dell'onore e la ragione dell'utilità, concordemente, solennemente ci rivolgono adunque un ammonimento solo, ci additano una sola via di salvezza: Resistere! Resistere! Resistere!*. Destinato a lunga vita - morirà ultranovantenne nel 1952 - e a passare alla storia come il "presidente della Vittoria”. Orlando. alla conferenza di pace di Parigi, nel 1919, si scontrerà con il presidente americano Woodrow Wilson abbandonando platealmente i lavori di fronte alla mancata piena soddisfazione delle attese con le quali l'Italia aveva partecipato alla Grande Guerra.

Gianpiero Goffi

Capo servizio de La Provincia, Cremona

Nessun commento:

Posta un commento