Come è noto, alla conferenza
della pace l’Italia fu duramente contrastata
sul problema adriatico dal Presidente americano Wilson
e in generale si trovò in posizione di svantaggio. La difficile
situazione dell’Italia è stata efficacemente descritta da uno
storico americano: «Verso gli americani, gli inglesi avevano
l’enorme
vantaggio di dividerne la lingua e la cultura; i francesi beneficiavano
dell’opinione generalmente accettata che essi erano
stati vittime di un’aggressione e dell’impressione, molto sproporzionata
alla realtà delle cose, che il loro territorio avesse costituito
il campo di battaglia [...] Il fronte italiano era conosciuto soltanto
da pochissimi tra i negoziatori a Parigi, e l’Italia
non
poteva certamente atteggiarsi a vittima di un’aggressione.
Essa
era entrata in guerra al termine di una meditata deliberazione e,
praticamente sulla base delle condizioni poste da essa» ( 1 ) . Si
aggiunga a ciò l’opinione prevalente all’estero che lo sforzo militare
italiano fosse stato per nulla essenziale ai fini della vittoria
finale; una convinzione rimasta poi in gran parte della storiografia
straniera, anche la più quotata, che ricorda più facilmente il
nome di Caporetto che quello di Vittorio Veneto. Di ciò
il Comando Supremo italiano era consapevole già nei giorni stessi
dell’armistizio, come risulta dal messaggio che il Generale Diaz
inviò il 4 novembre al Presidente del Consiglio Orlando nel quale
affermava: «Vi sono tentativi di svalutazione dei risultati della
nostra vittoria» (2).
Quanto agli Stati Uniti, all’inizio della sua
missione nel settembre 1914 il nostro Ambasciatore Macchi di
Cellere aveva dipinto un quadro non brillante: «Poco eravamo –
e male – conosciuti avanti la guerra; non si intendeva o si giudicava
senza conoscenza della realtà la condotta nostra dopo l’inizio
di questa. Ripetiamo: avevamo nemici gagliardi, agguerriti, implacabili
che ci perseguitavano e vilipendevano: nessun amico
a difenderci, neppur per ricordare quanto avesse valso la proclamazione
istantanea della neutralità nostra» (3).
Quando nel 1915
l’Italia entrò in guerra, alcuni articoli di stampa furono ispirati
a simpatia per la sua causa, ma altri sottolinearono le sue «ragioni
egoistiche». Del resto come lamentarsi, visto che proprio il
Presidente del Consiglio Salandra nell’ottobre 1914 aveva indicato
nel «sacro egoismo per l’Italia» il supremo criterio ispiratore
del suo governo (4)?
Alla fine del 1916 il World, organo personale
di Wilson, aveva definito «immorali» le aspirazioni italiane,
tacciandole di «imperialismo barbarico» (5). Il 23 marzo 1917
Macchi di Cellere telegrafò alla Consulta riferendo l’osservazione che
il segretario di Stato Lansing avrebbe fatto all’ambasciatore di
un Paese neutrale: «La guerra degli alleati non è la nostra» (6).
«Ciò significava che la presenza e la solidarietà militare degli
USA non avrebbero certo significato un loro appoggio diplomatico alle
mire territoriali dell’alleanza» (7). L’Ambasciatore Macchi,
che fin dal giugno 1916 aveva ammonito che Wilson si atteggiava
a «mentore dell’Europa e del mondo» (8), non nascose il
pericolo che l’aiuto americano avrebbe potuto costituire per l’Europa.
Il 19 aprile 1917 scriveva ad esempio: «Il contributo
dell’America,
fatalmente utile alla causa degli Alleati, è una ipoteca usuraia
sulle condizioni della pace; una usura che il proclamato, ma
non vero disinteresse giova soltanto a dissimulare» (9). Un
motivo ricorrente al quale Macchi di Cellere dà ampio spazio nelle
sue memorie è quello della insufficiente azione propagandistica dell’Italia
negli Stati Uniti. Già nel gennaio 1917 ammoniva:
«È indubitato che di fronte all’opinione pubblica americana
noi ci troviamo, in confronto delle altre nazioni, in istato
di assoluta inferiorità, e la nostra causa e la nostra partecipazione alla
guerra sono male apprezzate, specialmente perché disconosciute» (10).
Macchi
di Cellere aveva scritto un “Memoriale”, indirizzato «a
persona amica» e pubblicato nelle memorie postume (11), riassumendo la
sua opera a Washington. In esso compare questa frase
riferita a due espressioni tipiche della posizione italiana: «Il
“sacro egoismo” e la “nostra guerra” ci costarono allora in America
assai più di una battaglia perduta» (12). Nel “Memoriale»
si
parla di «lotta […] a coltello» sui «postulati adriatici» e si trova
la denuncia che «i peggiori nemici della causa nostra in America
si trovarono in Italia». In particolare le ragioni delle «riserve
mentali di Wilson» erano indicate, tra l’altro, ne «1°. I
residui, mai interamente cancellati dell’azione deleteria esercitata dalla
Missione politica che recò all’America belligerante il
saluto dell’Italia, azione, che, da parte di taluno fra i membri della
Missione, venne continuata lungamente dopo il ritorno in patria.
2°. La incertezza, le titubanze, le contraddizioni, i contrasti della
politica italiana. Da un lato il cristallo di rocca sonniniano, d’altro
lato il programma orlandiano, il bissolatiano, quello rinunciatario,
la campagna del “Corriere della Sera”, il Patto di Roma» (13).
In
effetti, alla conferenza della pace le differenti posizioni del presidente
del Consiglio Orlando, in condizione di inferiorità per la
sua ignoranza della lingua inglese, e del ministro degli esteri Sonnino,
senza contare in Patria i programmi dei nazionalisti e degli
interventisti democratici, offrirono ai nostri “alleati” spazi di
manovra. Esula dagli scopi di questo breve articolo esaminare
le
vicende della conferenza della pace, comunque impossibili da riassumere
in brevità.
Massimo
de Leonardis
Università Cattolica, Milano
1 R. Albrecht-Carrié, Italy at the Paris
Peace Conference, New York 1938,
pp.
199-200.
2
Diaz ad Orlando, 4-11-18, in I Documenti Diplomatici Italiani (DDI),
sesta
serie: 1918-1922, vol. I (4 novembre 1918-17 gennaio 1919), Roma
1956,
n. 3.
3
Justus, V. Macchi di Cellere all’ambasciata di Washington. Memorie e
testimonianze,
Firenze 1920, p. 40 (memorie postume). In generale sull’ambasciata
di
Macchi di Cellere a Washington cfr. M. de Leonardis, La diplomazia
italiana
e l’intervento americano, in Over There in Italy. L’Italia e
l’intervento
americano nella Grande Guerra, Società Italiana di Storia Militare,
Quaderno
2018, pp. 13-24 e la bibliografia ivi indicata.
4
A. Salandra, I discorsi della guerra con alcune note, Milano 1922, p. 4.
5
Justus, op. cit., p. 64.
6
Macchi di Cellere a Sonnino, marzo 1917 (pervenuto il 24), DDI, quinta
serie:
1914-1918, vol. VII (1° gennaio-15 maggio 1917), Roma 1978, n. 562.
7
L. Riccardi, Alleati non amici. Le relazioni politiche tra l’Italia e l’Intesa
durante
la prima guerra mondiale, Brescia 1992, pp. 491.
8
Macchi a Sonnino, 4 giugno 1916, DDI, quinta serie …, cit., vol. V (24
ottobre
1915-17 giugno 1916), Roma 1988, n. 903.
9
Justus, op. cit., p. 59.
10
Ibi, p. 63; il cap. VI del volume è dedicato a “La Propaganda”.
11
Ibi, pp. 174-80.
12
Ibi, p. 175. La frase «la nostra guerra è una guerra santa» compariva nel
discorso
del Presidente del Consiglio Salandra in Campidoglio il 2 giugno
1915
(La nostra guerra è santa, Roma 1915) e fu costantemente utilizzata
in
Italia. A tali frasi si sarebbe potuta aggiungere quella pronunciata il 15
agosto
1914 dal nazionalista Alfredo Rocco: «Noi possiamo, per contingenze
momentanee,
stipulare alleanze. Ma non illudiamoci. Gli alleati sono soci,
non
sono amici».
13
Justus, op. cit., p. 177. Per «Patto di Roma» si deve intendere il generico
documento
conclusivo del “Congresso dei popoli oppressi dall’Austria-
Ungheria”,
tenuto nella capitale nell’aprile 1918. La Missione fu negli Stati
Uniti
da maggio alla prima metà di luglio 1917, guidata da Ferdinando di
Savoia-Genova
Principe di Udine. Macchi è molto critico dell’operato di
alcuni
membri della Missione, che «errando nel determinare i limiti di essa,
volevano
ad ogni costo, compiere trattative od atti che rivelassero i benefici
del
loro intervento». Assai severo è in particolare verso Nitti, che anche dopo
il
ritorno in Italia non mancò di far pervenire ad ambienti americani le sue
opinioni
divergenti dal governo (ibi, pp. 67-68). Anche Sonnino, nella sua
deposizione
alla Commissione parlamentare d’inchiesta sulle spese di guerra,
spiegherà
che «la missione aveva più specialmente un carattere di cortesia
internazionale,
sicché non aveva propriamente il mandato di stipulare
trattati
od accordi con le autorità americane» e segnalerà la reazione contrariata
di
Nitti (S. Sonnino, Diario 1916-1922, vol. III, a cura di P. Pastorelli,
Bari
1972, pp. 381-82, diario del 4 ottobre 1922).