La firma del
trattato di Versailles, oltre a chiudere la guerra fra la Germania e le Potenze
alleate e associate, segna anche l’atto di nascita della Società delle nazioni
(SdN).
Fortemente
voluta dal Presidente statunitense Wilson, essa doveva rappresentare il
pilastro del nuovo ordine internazionale. Secondo il ‘Patto fondativo’
(‘Convenant’), suo obiettivo era salvaguardare la pace internazionale favorendo
il ricorso all’arbitrato, la sicurezza collettiva e il disarmo. Essa si
occupava, inoltre, di questioni che andavano dalla regolamentazione di rapporti
di lavoro alla protezione dei prigionieri di guerra, alla promozione della
cooperazione e all’avvio dei territori ex coloniali all’indipendenza attraverso
il sistema dei c.d. ‘mandati’. Essa favorì, infine, la nascita di nuovi
organismi ai sensi dell’art. 23 del Convenant; fra questi: l’Organizzazione internazionale
del lavoro, l’Organizzazione economica e finanziaria e l’Organizzazione
sanitaria della Società delle nazioni, precursore della attuale Organizzazione mondiale
della santità.
Fin da subito,
le attese furono molte. La centralità degli Stati Uniti nella conferenza della
pace e l’importanza attribuita al progetto dal Presidente Wilson furono le sue
principali forze. Accettato dagli alleati il 25 gennaio, il progetto della SdN
avrebbe portato alla redazione del Patto da parte di una commissione ad hoc
presieduta dallo stesso Wilson e comprendente i rappresentanti di Stati Uniti,
Gran Bretagna, Francia, Italia, Giappone, Belgio, Cina, Portogallo e Serbia. Il
Patto (approvato il 28 aprile) sarebbe poi confluito nei trattati siglati con
le Potenze sconfitte. La mancata ratifica del trattato di Versailles da parte
degli Stati Uniti (novembre 1919) avrebbe rappresentato una prima battuta
d’arresto, sebbene le sue conseguenze non siano da sopravalutare. Se, infatti, il
disimpegno di Washington fu uno scacco importante sul piano simbolico e una
sconfitta personale per Wilson, esso non arrestò né il processo di
istituzionalizzazione della vita internazionale, lo sforzo di dare vita a un
credibile sistema di sicurezza collettiva.
Gli anni Venti
in particolare sarebbero stati segnati da un’intensa azione nel campo del
disarmo. Per Wilson, le clausole imposte alle Potenze sconfitte dovevano essere
solo l’anticipo di un processo destinato a coinvolgere anche i vincitori della
guerra. Questa idea sarebbe stata ripresa dal suo successore, il repubblicano
Warren Harding (in carica: 1921-23), sotto la cui egida si sarebbe svolta, fra
il novembre 1921
e il febbraio
1922, la conferenza di Washington che avrebbe portato una prima riduzione delle
flotte da guerra degli Stati parte del trattato per la riduzione degli
armamenti navali (Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Italia e Giappone). Il
tema del disarmo sarebbe stato affrontato anche dalla Società delle nazioni,
fra l’altro con la costituzione di una Commissione temporanea mista sugli
armamenti (1921-24) e la redazione di varie bozze di trattato (primo fra tutti
il trattato di mutua assistenza del 1923), per riaffiorare poi, nella seconda
parte del decennio con l’infruttuosa Conferenza mondiale sul disarmo del
1932-37.
Le ragioni della
poca efficacia dell’azione societaria sono diverse e si legano da un lato alla
farraginosità dei suoi meccanismi, dall’altro alle divergenze esistenti fra i
membri. Altro aspetto problematico è il rapporto fra azione collettiva e
politiche nazionali, spesso in contrasto l’una con le altre. Da questo punto di
vista è significativo che proprio il voto contrario della Gran Bretagna
(preoccupata per le ricadute che un voto favorevole avrebbe avuto sulla
sicurezza imperiale) blocchi l’approvazione del trattato di mutua assistenza,
sostenuto, fra gli altri, da Lord Robert Cecil, già principale fautore della
SdN nel gabinetto Lloyd George e influente membro della commissione per la
redazione del Convenant. Questo scollamento si sarebbe accentuato negli anni
portando, fra l’altro, alla ‘fuga in avanti’ rappresentata dalla firma del
patto Briand-Kellogg (27 agosto 1928), ambizioso tentativo di risposta
franco-statunitense allo stallo cui erano giunti – a livello societario – i
lavori della commissione preparatoria della conferenza sul disarmo.
In questo senso,
la freddezza franco-britannica verso la SdN rappresenta forse più del
disimpegno statunitense la ragione della sua debolezza. Né Parigi né Londra
trovavano, infatti, nell’organizzazione uno strumento adatto al conseguimento
dei rispettivi interessi: per la prima, una garanzia ‘forte’ contro un
possibile risorgere della minaccia tedesca; per la seconda, un foro di dialogo
con Washington per l’esercizio di una sorta di egemonia condivisa. La volontà
di entrambe di non ‘legarsi le mani’, subordinando l’autonomia delle politiche
nazionali alle necessità della sicurezza collettiva, fa il resto. Si tratta di
elementi destinati a emergere soprattutto alla fine degli anni Venti e con più
forza nel decennio successivo, di fronte all’incapacità dell’organizzazione di
gestire le crisi che punteggiano il periodo (crisi mancese, 1931-32; guerra del
Chaco, 1932-35; guerra italo-etiopica, 1935-36) e alle defezioni che, iniziate
con quella del Brasile nel 1926, culminano con quelle del Giappone, della
Germania e dell’Italia nel 1933-37.
Nei primi anni
Venti, tuttavia, predomina ancora la fiducia, che accompagna la crescita del
ruolo dell’organizzazione. Ciò emerge con chiarezza nel rapporto che si
instaura fra la SdN e gli Stati che non ne fanno parte, come la Germania (che
presenta domanda di ammissione nel 1924 ed è ammessa due anni dopo), gli Stati
Uniti e l’Unione Sovietica, che pur essendo ammessa al Consiglio della Società
solo nel settembre 1934 (ne sarebbe stata espulsa cinque anni dopo, in seguito
all’invasione della Finlandia), negli anni precedenti collabora attivamente
all’attività societaria. È questo anche il periodo in cui la partecipazione di
Francia e Gran Bretagna alle attività della SdN è più attiva. La presenza, in
Gran Bretagna, di un movimento pacifista e filo-societario tradizionalmente
forte concorre in parte a spiegare questo atteggiamento che, tuttavia, riflette
anche la necessità sentita da una parte della classe politica di individuare
modi alternativi di gestione dei problemi in una fase di rapida trasformazione del
sistema degli Stati.
Gianluca Pastori
Università
Cattolica, Milano