“Questo filosofo ha molto buon senso”, disse di
lui Giovanni Giolitti, famoso per il suo pragmatismo, che gli aveva affidato
nel suo quinto, breve e ultimo governo – durato dal giugno 1920 al luglio 1921
– il ministero della Pubblica istruzione, nel clima convulso del primo
dopoguerra. Una lode che “suonò gratissima” a Benedetto Croce, il quale, nella
sua Storia d’Italia dal 1871 al 1915, uscita nel 1929, ricambierà
l’apprezzamento allo statista piemontese: “Uomo di grande accortezza e di
grande sapienza parlamentare…Ma non meno di seria devozione alla patria, di
vigoroso sentimento dello Stato…di concetti semplici, o, meglio, ridotti nella
sua mente alla loro semplice e sostanziale espressione, la quale vinceva le
opposizioni con l’evidenza del buon senso”. Che fra i due ci fosse stata
qualche sintonia, al di là delle profonde differenze di indole, formazione e
motivazioni, era stato evidente già nell’anno della neutralità italiana
(1914-15) che entrambi, da liberali non sonniniani, avrebbero voluto
proseguisse. Salvo poi inchinarsi, nel maggio 1915, al senso del dovere comune.
Ma ciò non aveva impedito le critiche del filosofo all’uomo politico, di cui
non amava la troppa propensione ai compromessi e ai tatticismi parlamentari,
soprattutto quando, nell’estate 1917, l’anno di Caporetto, lo ritenne
ispiratore occulto dei tumulti popolari di Torino, causati dalla penuria di
pane e sfociati in un aperta contestazione, incoraggiata dai socialisti, della
partecipazione alla Grande Guerra. La piena comprensione della statura politica
di Giolitti da parte di Croce viene fatta risalire dagli storici, in
particolare da Giuseppe Galasso, agli anni finali del conflitto. Il quinto
governo Giolitti fu un governo di coalizione che comprendeva, oltre ai liberali
anche socialisti riformisti come Ivanoe Bonomi e Arturo Labriola e popolari
cattolici come Filippo Meda. Il nome del senatore Croce, scriverà il suo fedele
discepolo Vittorio Enzo Alfieri nel volumetto Pedagogia crociana (edizioni
Morano, Napoli, 1967), era stato suggerito a Giolitti, che “certamente non
aveva letto neppure un rigo” dello studioso napoletano, dal deputato liberale
Giulio Alessio. Giolitti, al quale premeva l’appoggio dei popolari, si consultò
anche con don Luigi Sturzo, ricevendone un ‘nulla osta’ sia pure condizionato.
Il Filosofo venne poi convinto ad accettare dalla moglie torinese, Adele Rossi,
e già nel corso del primo colloquio, Giolitti lo informò che era atteso dal Re
per il giuramento. Croce obiettò di non avere con sé l’abito nero richiesto
dall’etichetta di corte, ma il presidente del Consiglio lo rassicurò che
Vittorio Emanuele III non avrebbe fatto caso a tali formalità. Nel famoso
discorso di Dronero alla vigilia delle elezioni del 1919 (le prime con sistema
proporzionale) Giolitti aveva indicato nella scuola, da riorganizzare in ogni
ordine e grado, il banco di prova della ricostruzione liberale dopo la prova
della guerra, riconoscendo all’istruzione pubblica un alto compito nella
formazione dei cittadini. Croce, nei suoi scritti, non si era mai occupato
nello specifico di pedagogia, ma avvertiva profondamente l’importanza
dell’educazione umana e della maturazione della personalità dei giovani nel rapporto
fra la loro anima e quella degli insegnanti. Un procedimento maieutico
attraverso il quale il docente avrebbe favorito negli studenti lo sviluppo e il
pieno riconoscimento di se stessi (si pensi all’etimologia del verbo educare).
Egli nutriva invece, ricambiato, una certa antipatia per il mondo accademico,
come ricorderà, non senza ironia, Gaetano Salvemini in occasione del primo
discorso di Croce, da ministro, a Montecitorio (6 luglio 1920) e saprà
resistere alle richieste di istituire cattedre universitarie di linguistica o
di stilistica, che riteneva superflue. Presentandosi alla Camera come “né
pessimista né utopista” sulle condizioni e il destino della scuola in Italia,
Croce rese però un sincero omaggio agli “insegnanti valorosi e coscienziosi che,
quali che siano gli ostacoli dei cattivi ordinamenti, non possono non fare
quotidianamente opera efficace di educazione”. Nella sua breve ma densa
permanenza alla Minerva (sede, allora del ministero), che coincise fra l’altro
con le celebrazioni del sesto centenario della morte di Dante, Croce dovette
occuparsi di varie questioni, anche minime, ma riuscì solo a delineare
risposte, avvedute, a quelle principali, che saranno poi oggetto, fra elementi
di continuità e diversità di concezione dello Stato, della riforma di Giovanni
Gentile (1923): la riqualificazione del sistema formativo con l’estensione
dell’istruzione obbligatoria, gli esami di Stato, la cui istituzione comportava
una certa integrazione delle scuole non statali nel sistema pubblico e il controllo
dello svolgimento dei programmi ministeriali, il ritorno dell’insegnamento
della religione cattolica nelle scuole elementari di fatto soppresso dal 1888,
che però Croce, a differenza di Gentile, pensava facoltativo e affidato, per
coerenza, non al maestro ma a sacerdoti. In particolare, il suo disegno di
legge sull’esame di Stato, propedeutico all’ammissione dei liceali
all’Università, prevedeva la presenza quali commissari di docenti esterni alla
scuola. Un altro significativo disegno di legge del ministro, peraltro
respinto, fu quello relativo alla riduzione delle classi aggiunte, affidate a
supplenti negli istituti superiori. Il compito di Croce venne anche reso
difficile, oltre che dalle ristrettezze del bilancio a disposizione, da
agitazioni degli studenti universitari, da opposizioni dei docenti e da diversi
scioperi del personale ministeriale con autoriduzioni arbitrarie dell’orario di
lavoro, alle quali egli reagì con fermezza. Sarà Croce a stendere l’indirizzo
di saluto e di ringraziamento dei ministri al presidente Giolitti. La loro
avversione al governo di Benito Mussolini non fu immediata, quanto quella di
altri, per la verità pochi, liberali, come Amendola, Ruffini, in parte Soleri,
o l’intransigente Piero Gobetti, liberale ‘sui generis’. Se nell’atteggiamento
crociano di ‘benevola attesa’ si potrebbero ipotizzare ragioni filosofiche, in
Giolitti fece premio ancora una volta un certo ‘realismo’: la presa d’atto che
per le pregiudiziali poste sul suo nome dai popolari e su un ingresso in coalizione
dai socialisti, non era possibile, nell’ottobre 1922, dare vita a un ministero
diverso. Ma pure Croce avvertiva preoccupazione per l’instabilità dei governi
di fronte ad un’Italia scossa, nel primo dopoguerra, dalle offese ai reduci e
dalle violenze degli opposti estremismi, nonché dai tentativi di importare
anche in Italia (nel cosiddetto “biennio rosso”) la rivoluzione bolscevica che
aveva da poco trionfato in Russia. Croce e Giolitti, come gran parte della
classe politica di allora, e come lo stesso Sovrano, credettero che il
movimento fascista avrebbe potuto essere più o meno rapidamente assorbito
nell’alveo statutario. La ‘svolta’, cioè il passaggio all’opposizione avvenne,
per entrambi, solo dopo il delitto Matteotti del 1924. Giolitti scorse, in
quello stesso anno, il segnale della dittatura negli interventi censori sulla
stampa, prodromo della legge illiberale del 31 dicembre 1925. Croce supererà
ogni ambiguità di fronte al discorso mussoliniano del 3 gennaio 1925 che
avrebbe sancito il passaggio dal governo al regime fascista e, con esso, la
definitiva disillusione dei liberali e dei moderati italiani che non vollero
esserne complici.
Gianpiero
Goffi Giornalista - Cremona
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