sabato 20 marzo 2021

Croce dal ministero all’opposizione

 


“Questo filosofo ha molto buon senso”, disse di lui Giovanni Giolitti, famoso per il suo pragmatismo, che gli aveva affidato nel suo quinto, breve e ultimo governo – durato dal giugno 1920 al luglio 1921 – il ministero della Pubblica istruzione, nel clima convulso del primo dopoguerra. Una lode che “suonò gratissima” a Benedetto Croce, il quale, nella sua Storia d’Italia dal 1871 al 1915, uscita nel 1929, ricambierà l’apprezzamento allo statista piemontese: “Uomo di grande accortezza e di grande sapienza parlamentare…Ma non meno di seria devozione alla patria, di vigoroso sentimento dello Stato…di concetti semplici, o, meglio, ridotti nella sua mente alla loro semplice e sostanziale espressione, la quale vinceva le opposizioni con l’evidenza del buon senso”. Che fra i due ci fosse stata qualche sintonia, al di là delle profonde differenze di indole, formazione e motivazioni, era stato evidente già nell’anno della neutralità italiana (1914-15) che entrambi, da liberali non sonniniani, avrebbero voluto proseguisse. Salvo poi inchinarsi, nel maggio 1915, al senso del dovere comune. Ma ciò non aveva impedito le critiche del filosofo all’uomo politico, di cui non amava la troppa propensione ai compromessi e ai tatticismi parlamentari, soprattutto quando, nell’estate 1917, l’anno di Caporetto, lo ritenne ispiratore occulto dei tumulti popolari di Torino, causati dalla penuria di pane e sfociati in un aperta contestazione, incoraggiata dai socialisti, della partecipazione alla Grande Guerra. La piena comprensione della statura politica di Giolitti da parte di Croce viene fatta risalire dagli storici, in particolare da Giuseppe Galasso, agli anni finali del conflitto. Il quinto governo Giolitti fu un governo di coalizione che comprendeva, oltre ai liberali anche socialisti riformisti come Ivanoe Bonomi e Arturo Labriola e popolari cattolici come Filippo Meda. Il nome del senatore Croce, scriverà il suo fedele discepolo Vittorio Enzo Alfieri nel volumetto Pedagogia crociana (edizioni Morano, Napoli, 1967), era stato suggerito a Giolitti, che “certamente non aveva letto neppure un rigo” dello studioso napoletano, dal deputato liberale Giulio Alessio. Giolitti, al quale premeva l’appoggio dei popolari, si consultò anche con don Luigi Sturzo, ricevendone un ‘nulla osta’ sia pure condizionato. Il Filosofo venne poi convinto ad accettare dalla moglie torinese, Adele Rossi, e già nel corso del primo colloquio, Giolitti lo informò che era atteso dal Re per il giuramento. Croce obiettò di non avere con sé l’abito nero richiesto dall’etichetta di corte, ma il presidente del Consiglio lo rassicurò che Vittorio Emanuele III non avrebbe fatto caso a tali formalità. Nel famoso discorso di Dronero alla vigilia delle elezioni del 1919 (le prime con sistema proporzionale) Giolitti aveva indicato nella scuola, da riorganizzare in ogni ordine e grado, il banco di prova della ricostruzione liberale dopo la prova della guerra, riconoscendo all’istruzione pubblica un alto compito nella formazione dei cittadini. Croce, nei suoi scritti, non si era mai occupato nello specifico di pedagogia, ma avvertiva profondamente l’importanza dell’educazione umana e della maturazione della personalità dei giovani nel rapporto fra la loro anima e quella degli insegnanti. Un procedimento maieutico attraverso il quale il docente avrebbe favorito negli studenti lo sviluppo e il pieno riconoscimento di se stessi (si pensi all’etimologia del verbo educare). Egli nutriva invece, ricambiato, una certa antipatia per il mondo accademico, come ricorderà, non senza ironia, Gaetano Salvemini in occasione del primo discorso di Croce, da ministro, a Montecitorio (6 luglio 1920) e saprà resistere alle richieste di istituire cattedre universitarie di linguistica o di stilistica, che riteneva superflue. Presentandosi alla Camera come “né pessimista né utopista” sulle condizioni e il destino della scuola in Italia, Croce rese però un sincero omaggio agli “insegnanti valorosi e coscienziosi che, quali che siano gli ostacoli dei cattivi ordinamenti, non possono non fare quotidianamente opera efficace di educazione”. Nella sua breve ma densa permanenza alla Minerva (sede, allora del ministero), che coincise fra l’altro con le celebrazioni del sesto centenario della morte di Dante, Croce dovette occuparsi di varie questioni, anche minime, ma riuscì solo a delineare risposte, avvedute, a quelle principali, che saranno poi oggetto, fra elementi di continuità e diversità di concezione dello Stato, della riforma di Giovanni Gentile (1923): la riqualificazione del sistema formativo con l’estensione dell’istruzione obbligatoria, gli esami di Stato, la cui istituzione comportava una certa integrazione delle scuole non statali nel sistema pubblico e il controllo dello svolgimento dei programmi ministeriali, il ritorno dell’insegnamento della religione cattolica nelle scuole elementari di fatto soppresso dal 1888, che però Croce, a differenza di Gentile, pensava facoltativo e affidato, per coerenza, non al maestro ma a sacerdoti. In particolare, il suo disegno di legge sull’esame di Stato, propedeutico all’ammissione dei liceali all’Università, prevedeva la presenza quali commissari di docenti esterni alla scuola. Un altro significativo disegno di legge del ministro, peraltro respinto, fu quello relativo alla riduzione delle classi aggiunte, affidate a supplenti negli istituti superiori. Il compito di Croce venne anche reso difficile, oltre che dalle ristrettezze del bilancio a disposizione, da agitazioni degli studenti universitari, da opposizioni dei docenti e da diversi scioperi del personale ministeriale con autoriduzioni arbitrarie dell’orario di lavoro, alle quali egli reagì con fermezza. Sarà Croce a stendere l’indirizzo di saluto e di ringraziamento dei ministri al presidente Giolitti. La loro avversione al governo di Benito Mussolini non fu immediata, quanto quella di altri, per la verità pochi, liberali, come Amendola, Ruffini, in parte Soleri, o l’intransigente Piero Gobetti, liberale ‘sui generis’. Se nell’atteggiamento crociano di ‘benevola attesa’ si potrebbero ipotizzare ragioni filosofiche, in Giolitti fece premio ancora una volta un certo ‘realismo’: la presa d’atto che per le pregiudiziali poste sul suo nome dai popolari e su un ingresso in coalizione dai socialisti, non era possibile, nell’ottobre 1922, dare vita a un ministero diverso. Ma pure Croce avvertiva preoccupazione per l’instabilità dei governi di fronte ad un’Italia scossa, nel primo dopoguerra, dalle offese ai reduci e dalle violenze degli opposti estremismi, nonché dai tentativi di importare anche in Italia (nel cosiddetto “biennio rosso”) la rivoluzione bolscevica che aveva da poco trionfato in Russia. Croce e Giolitti, come gran parte della classe politica di allora, e come lo stesso Sovrano, credettero che il movimento fascista avrebbe potuto essere più o meno rapidamente assorbito nell’alveo statutario. La ‘svolta’, cioè il passaggio all’opposizione avvenne, per entrambi, solo dopo il delitto Matteotti del 1924. Giolitti scorse, in quello stesso anno, il segnale della dittatura negli interventi censori sulla stampa, prodromo della legge illiberale del 31 dicembre 1925. Croce supererà ogni ambiguità di fronte al discorso mussoliniano del 3 gennaio 1925 che avrebbe sancito il passaggio dal governo al regime fascista e, con esso, la definitiva disillusione dei liberali e dei moderati italiani che non vollero esserne complici.

Gianpiero Goffi Giornalista - Cremona

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