La Monarchia e la Prima Guerra
Mondiale.
Il Re aveva in testa una sola idea:
completare l'Unità d'Italia. Non aveva stima dei tedeschi, ben ricambiato da
Guglielmo II, che lo aveva già definito “Il piccolo ladro " .
Il proclama ai soldati.
Dal Quartier generale, il 24
maggio, il Sovrano indirizzò ai soldati questo proclama:
"Soldati di terra e di mare.
L'ora solenne delle rivendicazioni
nazionali è suonata. Seguendo l'esempio del mio grande Avo, assumo oggi il
Comando Supremo delle forze di terra e di mare, con sicura fede nella vittoria,
che il vostro valore, la vostra abnegazione, la vostra disciplina sapranno
conseguire.
Il nemico che vi accingete a
combattere è agguerrito e degno di voi. Favorito dal terreno e dai sapienti
apprestamenti dell'arte, egli vi opporrà tenace resistenza, ma il vostro
indomito slancio saprà, superarla.
Soldati, a voi la gloria di
piantare il tricolore dell'Italia sui terreni sacri che natura pose a confini
della Patria nostra, a voi la gloria di compiere, finalmente, l'opera con tanto
eroismo iniziata dai nostri padri.
Il Re al fronte.
Il Re, è noto, dimostrò nei quattro
anni di guerra, competenza tecnica, coraggio fisico ed umiltà. Il Maresciallo
Enrico Caviglia nel suo Diario, sotto la data del 31 marzo 1933, annota: "
... Il Re mi disse in un colloquio l'anno scorso che egli aveva visto
l'aggiustamento del tiro delle batterie austriache e l'aveva segnalato a
Cadorna. " Non fu ascoltato.
Dopo il convegno di Peschiera, l'11
novembre Vit-
torio Emanuele esortò gli italiani
con queste parole: "Siate un esercito solo. Ogni viltà è tradimento, ogni discordia
è tradimento, ogni recriminazione è tradimento. Questo mio grido di fede
incrollabile nei destini d'Italia suoni così nelle trincee come in ogni più remoto
lembo della Patria; e sia il grido del popolo che combatte e del popolo che
lavora".
Vittorio Emanuele rifiutò la
Medaglia D'Oro al Valor Militare, così motivando: «Mentre tanti episodi di eroismo
e di sacrifici o rimangono oscuri e mentre tanti nostri valorosi chiudono nei
cimiteri e nelle corsie degli ospedali il segreto di atti che, non conosciuti, non potrebbero ricevere alcuna ricompensa,
non credo di poter accettare per quello che era mio dovere fare, come re e come
soldato, la più alta distinzione al valor militare.»
Ritorno a casa
Il 14 novembre il Re Vittorioso
torna a Roma. Nonostante la vittoria, il ritorno fu infelice per tutti.
Al Sovrano il compito di incanalare
gli elementi patogeni. Indica alla classe politica le linee da seguire. Lo fa con stile impersonale, nei Discorsi della
Corona. L'l dicembre 1919 si svolge la prima seduta post bellica del
Parlamento: ".. Al di sopra della vittoria stessa è la giustizia, umana
clemenza e virtù ... L'Italia desidera considerare con la più viva simpatia
l'ascensione delle classi popolari..."
L'
11 giugno 1921, apertura della XXVI legislatura.
Ricordati i doveri dei contribuenti,
il Re afferma: “... Gli organismi statali debbono dimostrarsi pronti a tutte le
semplificazioni e riduzioni, adottando ordinamenti più snelli e più
decentrati... occorrerà che il parlamento rivolga la attività propria all'ordinato
ascendere delle classi lavoratrici così delle officine come dei campi... Sarà
vanto di quest'Assemblea... rafforzare gli istituti cooperativi... "
Rilevante, l'attenzione del
cittadino-Re alla cultura ed alla scuola: "L'educazione intellettuale e
morale del popolo è la virtù che preserva le democrazie dal cadere nell'errore
delle demagogie. Giova quindi che la scuola abbia le cure più assidue, amorose,
infaticabili del Parlamento ... " La seduta fu tumultuosa, i socialisti
gridarono "viva la Repubblica", la classe politica, tutta o capì e
finse di non capire o non capì; del resto, il parafulmine era bell'e pronto.
Il Fascismo.
Né i politici né gli uomini di
cultura capirono il pericolo. Uno per tutti: Benedetto Croce, che definì il
fascismo: "Malattia morale, smarrimento di coscienza..." così anche
pensatori stranieri come il Meinecke.
Il Sovrano non firma lo stato
d'assedio.
Penosi furono i rifiuti a catena,
dell'incarico proposto dal Re ai politici di maggior spicco, di formare un
qualsiasi governo, che impedisse a Mussolini di andare al potere.
«Il 28 ottobre [1922 n.d.rj, alle 6
del mattino, il dimissionario e dormiente Presidente del Consiglio, Facta,
decise di proclamare lo "stato d'assedio", per impedire ai fascisti
la Marcia su Roma. Lunare!
L'onorevole Facta, Presidente per
la seconda volta, presentò al Re il decreto. Vittorio Emanuele rifiutò di
firmarlo, proprio perché proposto da un Presidente e da un Governo che si erano
già dimessi e che, proprio per questa ragione, non godevano né dell'autorità né
dell'autorevolezza indispensabili per proporre e tanto meno attuare misure
straordinarie.
Quella stessa mattina il Re chiese
a Salandra, dopo il no di Giolitti, di costituire il nuovo governo, ma ottenne
un altro rifiuto. Sappiamo come andò a finire.
In ogni caso, il Re impedì a
Mussolini di sciogliere la Camera. Chi accusa il Re di avere favorito Mussolini
vuole ignorare le affermazioni di alcuni uomini illustri: il liberale Giovanni
Amendola: « ... Ci voleva anche un Minimo di soluzione politica» ; il 7
novembre 1922, lo stesso uomo politico, sul dovere inderogabile di accordare la
fiducia al governo di Mussolini, scrive a Carlo Cassola: «E’ necessario che la
Camera dia il voto al nuovo Ministero ... ».
Tagliente Luigi Einaudi sul
Corriere della Sera, il 27 ottobre 1922 «Il Ministero Facta è finito. Non vi
sono le dimissioni, perché i Ministri hanno creduto di salvare le apparenze
limitandosi a mettere i loro portafogli a disposizione del Capo del Governo ...
di questa obbligata libertà l'on. Facta non può usare che presentando al Re le
dimissioni del Ministero. L'ipotesi di un rattoppo non è neanche degna di
essere presa in considerazione ... ».
Risolta la crisi di governo, il Re
confidò a Solaro del Borgo: «Ho molto pensato ma anche il mio grande avo Vittorio
Emanuele II avrebbe fatto così. Io ho rifiutato due volte di sancire quell'atto
imbecille e criminoso dello stato d'assedio, steso solo per salvare appena
dieci poltrone governative». E all'on. Schanzer: «Ho inghiottito tutto, capisce
Schanzer, in quello sciaguratissimo tempo [Nitti-Facta], sempre per non venire
alla sciabola. Io per primo non ci credo: i generali sono un salto nel buio».
In epoca recente ha scritto, Carlo Ghisalberti: «Né la Corona, né l'Esercito
legato alla dinastia potevano offrire alla sovversione fascista quella
resistenza che sostanzialmente il Governo, il Parlamento e la classe dirigente
non erano stati capaci di esprimere». Mussolini si dimostra monarchico
fraudolento, già dal discorso di Udine del 20 settembre 1922. Il Re convivrà
con il fascismo per evitare che questo si impadronisca completamente dello
Stato; condurrà da solo una silenziosa e ininterrotta battaglia affrontando il
delitto Matteotti, l'Aventino, le leggi razziali e la loro abolizione.
Il 15 maggio 1943, secondo il
Cognasso, il Re consegnò a Mussolini un appunto scritto nel quale lo esortava a
sganciare "le sorti dell'Italia dalla Germania".
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