giovedì 1 febbraio 2018

I NOSTRI CORRISPONDENTI DI GUERRA


Per i corrispondenti di guerra italiani l’impegno dal fronte termina cinque mesi dopo l’armistizio di novembre. Molti di loro a quel punto erano già rientrati nelle loro redazioni, mentre un gruppo di inviati era rimasto aggregato al Comando supremo per fornire notizie e servizi dalle “Terre redente”. Il congedo ufficiale arriva per tutti in forma solenne il 3 aprile 1919 con un ordine del giorno del generale Diaz.
I testi di storia del giornalismo dicono che nel conflitto persero la vita 84 giornalisti italiani. Il dato però va aggiornato e quasi raddoppiato. Un’accurata ricerca condotta proprio in occasione del centenario della guerra dice che i morti furono 166. Fra i corrispondenti che presero parte anche ai combattimenti vennero attribuite tre Medaglie d’Argento (una a Antonio Baldini e due a Achille Benedetti). Dieci giornalisti, fra i quali Guelfo Civinini e Arnaldo Fraccaroli, furono decorati con la Croce di Guerra.

Precisazioni forse necessarie visto che da più parti, sia all’epoca, sia successivamente da alcuni storici, i giornalisti impegnati nelle corrispondenze dal fronte sono stati anche pesantemente criticati e accusati di raccontare gli eventi standosene al calduccio e al sicuro negli alberghi. Per dirla a chiare lettere i corrispondenti sono stati spesso bollati come imboscati. In realtà, fatta salva l’ovvia certezza che fra i giornalisti, come in qualsiasi altra categoria di professionisti, ci sarà stato chi si impegnava con maggiore o minore serietà nella sua attività, le cifre relative ai morti e ai decorati dovrebbero bastare come risposta alle critiche. Ma, al di là di quelli che forse sono stati casi particolari di attaccamento alla professione e all’ideale patriottico, c’è una considerazione più generale, che consente di dare una diversa valutazione sull’impegno degli inviati al fronte.
Le disposizioni ministeriali per l’accreditamento come corrispondente di guerra fissavano tre requisiti fondamentali: fedina penale pulita, esperienza militare e età non inferiore ai 40 anni. La mobilitazione generale del maggio 1915 interessò tutte le classi fino al 1874 (41 anni), ma gli uomini di età superiore ai 34 anni venivano destinati alla Milizia Territoriale o a servizi di terza linea. In pratica ciò significa che tutti i coetanei degli inviati al fronte (fatta eccezione per il personale dell’Esercito Permanente) erano tranquillamente a casa propria o, al massimo, destinati a servizi di retrovia.
Loro invece, con maggiore o minore coraggio, maggiore o minore capacità, seguivano la guerra dal 1914: prima da rappresentanti di un Paese neutrale, spediti un po’ su tutti i fronti. Poi, dal fatidico 24 maggio, a raccontare le vicende dei soldati italiani. Per loro è definita una sorta di inquadramento nei ranghi dell’esercito: vestono in divisa, col grado di capitano, ma senza mostrine, hanno a disposizione un autiere che però deve essere pagato dal gior-nale, così come la benzina per le macchine. Fanno capo a un ufficiale di collegamento, si devono attenere alle disposizioni del Comando e, soprattutto, della censura che spesso interviene direttamente sui giornali, facendo  letteralmente scalpellare dalle matrici i pezzi considerati non pubblicabili. Quando il Comando Supremo lo ritiene opportuno, come dopo Caporetto, vengono allontanati dal fronte, spostati e sorvegliati, dapprima a Udine e poi concentrati all’Hotel del Corso di Padova, dove non arrivano notizie se non i bollettini ufficiali del Comando. Una zona buia dell’informazione, che lascia poi il posto a nuove cronache, anche se in una prima fase la censura impone di non trasmettere dispacci di oltre 500 parole.
Tutti, da Barzini a Fraccaroli, da Civinini a Morandotti, a Gino Piva (straordinaria la sua cronaca della battaglia dell’Ortigara),) sono chiamati a raccontare l’impegno, la fatica e il dolore dei soldati in situazioni drammatiche, da riportare con realismo, ma facendo sempre attenzione alle direttive della censura: vietato parlare di morti, feriti, prigionieri. Inutile dunque cercare sui giornali traccia di episodi di diserzione o di ammutinamento, né delle decimazioni che ne furono la conseguenza. Ne parleranno i libri di storia.
La guerra, dunque, viene raccontata dal fronte, ma nelle pagine dei giornali ci sono anche cronache politiche, notizie sportive, programmi di teatri e cinema che continuano a disegnare una quotidianità lontana dai combattimenti. I piccoli fatti di cronaca, i resoconti dai Consigli comunali, le polemiche politiche, ma anche le pubblicità e gli annunci personali (con galanti inviti ad una risposta o a un incontro) disegnano l’immagine di un Paese, che, lontano dal fronte, riesce tutto sommato a condurre una vita normale, nonostante l’ansia per i tanti ragazzi in divisa e per le vicende belliche. E sono, ovviamente, altri giornalisti che raccontano questa altra faccia della nazione. Qualche volta però anche a loro, rimasti nelle redazioni, capita di dover fare i contri con la guerra. Succede quando la guerra si sposta sulle città con i primi bombardamenti aerei.
In Italia l’obiettivo maggiormente colpito dall’Aeronautica austriaca fu Padova, con 129 morti e 104 feriti nei diversi raid succedutisi fra il 1915 e il ’18. Altri episodi di attacchi aerei furono registrati nelle città del litorale adriatico, come Pescara e Ravenna (15 morti) e nelle zone industriali lombarde. Fra questi ultimi si inserisce l'attacco aereo del 14 febbraio 1916 che colpisce Milano, Monza, Treviglio e Bergamo.
La notizia fa il giro del mondo: 12 morti a Milano (saliranno a 18 nei giorni successivi), due a Monza, decine di feriti a Bergamo e a Treviglio. Le cronache milanesi precisano che verso le 7 e 30 “venivano segnalati dai posti di osservazione due apparecchi nemici. Un Albatros e un Taube che si dirigevano sulla città . Le bombe cadono a Porta Volta, Porta Romana e Porta Venezia. Secondo altre fonti i tre aerei (due su Milano, uno su Monza) erano aerei Aviatik versione Taube. Il Taube, in tedesco “colomba”, era un monoplano dotato  i motore Mercedes, velocità massima 100 km l’ora,  quando la gran parte degli aerei erano biplani e triplani, con le ali (14 metri di apertura) realizzate secondo un disegno aereodinamico che le faceva assomigliare alle ali di un uccello. Da qui il nome, anche se l’idea di una colomba non sembra la più azzeccata per un aereo da guerra. Uno dei tre apparecchi, inseguiti dagli aerei (Breda) alzatisi in volo da Taliedo, fu abbattuto dall’artiglieria italiana in Val di Chiese, poco prima di raggiungere l’Austria.
Le bombe sui centri urbani non erano comunque una
novità assoluta ed è logico supporre che azioni analoghe vennero compiute anche dai nostri aerei, ma sui giornali dell’epoca è difficilissimo trovarne traccia. Sicuramente all’indomani dell’attacco su Milano, il 18 febbraio, nostri velivoli raggiunsero e bombardarono Lubiana. Secondo il bollettino ufficiale furono colpiti obiettivi militari e strategici, ma i giornali sloveni parlarono di vittime civili, comprese donne e bambini. Dell’operazione si occupò anche la Domenica del Corriere, ma solo per dedicare il tradizionale disegno di copertina all’eroico rientro del capitano Oreste Salomone, che, ferito e con l’apparecchio danneggiato, riuscì comunque ad atterrare in territorio italiano. La censura funzionava anche così.
Giorgio Guaiti

Giornalista e scrittore, Milano

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