venerdì 10 febbraio 2017

Ortigara: sacrificio annunciato ed inutile - prima parte

di Michele D'Elia

31 luglio 1916
: fine della Strafexpedition.

8 agosto 1916: prendiamo Gorizia. Gli Austroungarici si attestano sulle alture a nordest della città. È il momento di andare avanti; via obbligata: la conquista dell’Ortigara; obiettivo ultimo: la poderosa testa di ponte di Tolmino, ancora più a nordest.
Ragioni tattico-strategiche: 1 - aggirare da nord il sistema difensivo nemico, incombente sull’Altopiano dei Sette Comuni e sulla Valsugana; 2 - sbarrare al nemico la strada per le valli sottostanti.
Questo il corretto pensiero del Capo di Stato Maggiore, generale Luigi Cadorna. Disastrosa ne sarà l’attuazione.
Domenica 10 giugno 1917, ore 5 del mattino. Dopo la settima, ottava, nona e decima battaglia dell’Isonzo, la neocostituita VI Armata, gen. Ettore Mambretti, attacca. Sono il XXII Corpo d’A., gen. Capello; il XX, generale Montuori ed il XVIII, gen. Etna.
Martedì 19 giugno la 52a divisione, interamente di alpini, prende la cresta dell’Ortigara; il nemico si ritira sulla corona di cime circostanti. Bisognerebbe andare avanti: né Mambretti né Cadorna impartiscono l’ordine; e nemmeno quello di ritirarsi. Su quell’acrocoro i nostri diventano bersaglio fisso per l’artiglieria nemica.
“L’on. Bissolati afferma che la sospensione di ulteriori azioni offensive nel Trentino, dopo la sanguinosa esperienza dell'Ortigara, fu dovuta a un discreto intervento di re Vittorio Emanuele III”. (Pieropan, pagg. 357-358)
La nostra narrazione sceglie come paradigma la giornata del 19 giugno 1917, nella quale fu conquistata l’Ortigara.
Seguiamo la traccia segnata da Gianni Pieropan, nel suo volume Ortigara 1917, seconda edizione, Mursia, Milano 1976.

19 giugno. Martedì.
Premessa.
L’inizio degli attacchi non è simultaneo, perché dipende dalle posizioni di partenza delle diverse unità. Da sud a nord dello schieramento:
12a divisione. Gli Arditi del 27° fanteria scendono sull’Assa per penetrare in Val Gabro e in Val Martello. Vengono respinti.
30a divisione. Alba. Il 21° e il 22° reggimento riprendono gli assalti falliti lunedì 18. Uguale risultato.
57a divisione. Azione dimostrativa in contrada Bosco.
25a divisione, XXII Corpo d’Armata.
Ore 14. Cessa il tiro di preparazione per i deludenti risultati. Da Monte Catz parte all’attacco del M. Rotondo il 112° fanteria, ma il reggimento è fermato davanti alle trincee nemiche dal fuoco d’interdizione, che si allunga anche sui rincalzi.
La brigata del col. brigadiere Conti e i bersaglieri del 5° reggimento giungono d’impeto alle trincee di quota 1.626 di Monte Zebio, ma le mitragliatrici da nord li colpiscono d’infilata.
Ore 13,30. Inutile il trasferimento in zona del 14° bersaglieri.
Ore 16,30. Stallo.
Ore 17,45. Fallisce un ulteriore attacco della 25a.
Perdite: caduti 6 ufficiali e 97 fanti; feriti 33 ufficiali e 513 fanti; dispersi, 151. Il sistema difensivo è ancora più che solido, ma si continua a prenderlo a testate.

13a divisione. Il 1/256° parte dalla Lunetta, di Monte Zebio, tra quota 1.626 e 1.673, alla testa vi è il suo comandante, col. Cavarzerani, poi creato dal Re, Conte di Nevea per l’azione di Sella Nevea. La prima ondata del I e III battaglione è infranta, così le successive, dal fuoco combinato delle Swarzlose (nome delle mitragliatrici austriache) e dell’artiglieria. Scrive il sottotenente Castelli del 256°: “«... il tiro ben centrato di mortai e un nutrito lancio di bombe a mano da parte dei fucilieri nemici, balzati fuori dai rifugi blindati, fanno subito paurosi vuoti e gravi perdite infliggono ai miei uomini, mentre tre mitragliatrici vengono prese in pieno da bombe e messe fuori uso.
Nel contempo le batterie avversarie volgono il loro fuoco micidiale sul nostro battaglione di prima schiera che ha iniziato il suo lento movimento su per le pendici del monte; compietamente allo scoperto, è preso ancora d’infilata dal fuoco delle mitragliatrici, di fucileria e di altre batterie avversarie in posizione ad occidente e ad oriente del possente loro sistema difensivo». Tuttavia l’eroico comportamento dei pochi uomini disponibili, che il Castelli chiama «giapponesi» perché tutti bassi di statura e piuttosto maturi d’età per essere stati a suo tempo riformati, gli consente di porre in azione le tre armi rimaste efficienti, costringendo così gli avversari a rintanarsi nei loro rifugi.
Ciò che naturalmente non arresta il tiro della loro artiglieria, una vera e propria cortina di fuoco calata sulle pendici del monte. I battaglioni avanzati, ormai decimati dalle forti perdite, rimangono fermi, inchiodati sul terreno; il battaglione di rincalza ancora su posizione sul vecchio trincerone, viene quasi annientato dal fuoco di repressione di altre batterie entrate nel frattempo in azione. In un momento di tregua. .. ispeziono la linea per trovare in qualche nicchia munizioni che cominciano a scarseggiare. .. sono come un automa che va... Scorgo invece con mia meraviglia il colonnello Cavarzerani e un trombettiere, unica persona del suo seguito... Egli mi parla, mi conforta con parole buone e con tanta affettuosità che mi commuove: mi sento scuotere, rivivere, riempire il cuore e l’anima di calore, di energia e di coraggio nuovo. A sera un colonnello, un sottotenente, una ventina di fanti... presidiano la prima linea di M. Zebio ormai divenuto ombra muta, tomba di tanti umili eroi...”, (in Pieropan pag. 224)
Ore 15,30. Arriva il 11/239°, che migliora la situazione.
Perdite: caduti 10 ufficiali e 337 fanti; feriti: 52 ufficiali e 1.126
fanti; dispersi, 1 ufficiale e 121 fanti. Nella maggior parte dei casi,
disperso vuol dire morto.
29a divisione. Generale Caviglia.
Ore 6. Il 214°reggimento punta su Monte Forno: I, II e III battaglione. Il I battaglione raggiunge e supera la prima linea di resistenza e nota che i pezzi in caverna, hanno resistito all’artiglieria italiana.
Il II è fermato dall’artiglieria, che spara da Monte Colombara e dal Corno di Montebianco. Il III li sostiene alle spalle, interverrà in un secondo momento.
Ore 7,45. Il generale Caviglia sale a quota 1.791 e si rende conto della situazione.
Ore 9. Il nemico si rafforza; arriva, però, la notizia che gli alpini hanno preso e superato l’Ortigara. Ciò impone alla 29a di persistere nell’attacco.

Ore 12-13,30. Nostro tiro di preparazione
Ore 13,30. Il 214° riparte all’assalto. Il I battaglione perde il suo comandante, capitano D’Auce, lo sostituisce il maggiore Asinari di Bemezzo. Nell’azione il reggimento perde 700 uomini.
Ore 15,30. Il generale Caviglia sospende l’azione.
Perdite: morti 9 ufficiali; 176 fanti, feriti 33 ufficiali; 1.092 feriti; dispersi 150. Il Monte Forno resta in mano austriaca. (Pieropan, op.cit. pagg. 225-226)
I nostri fanti.
Un antico detto ricorda: ‘La fanteria è la regina delle battaglie’. Ma sempre per le ragioni di modaiola correttezza politica, tale massima pare applicarsi solo ai soldati stranieri, alleati o no; non anche agli italiani. Peter Hart afferma ambiguamente “L’esercito italiano era numeroso... ma aveva gravi problemi sia di equipaggiamento sia di addestramento... gli ufficiali erano reclutati ancora su base regionale relativamente ristretta e in genere mancavano di professionalità.
Formalmente il Comandante in Capo era Re Vittorio Emanuele, ma... il comandante de facto era il generale Luigi Cadorna... un teorico di strategia militare, molto rispettato anche se non aveva esperienze di rilievo come comandante sul campo. I ranghi inferiori dell’esercito erano in gran parte reclutati fra i contadini, dove il livello di analfabetismo era molto elevato, un fatto che ostacolò la formazione di sottufficiali competenti. Avrebbero comunque dimostrato una forte capacità di resistenza sia alle difficili condizioni, sia alle pesanti perdite del servizio attivo” P
Una spigolatura di coraggio viene riconosciuta al nostro soldato quando vengono lanciate la 6a, 7a, 8° e 9a offensive dell’Isonzo: “Nell’insieme Cadorna stava spingendo avanti i suoi uomini, fissando per le operazioni offensive un ritmo più elevato di quello previsto dai generali inglesi, francesi o russi. Le unità venivano impiegate in battaglia con frequenza molto più regolare, anche nel corso dell’inverno, cosa che favoriva ben pochi momenti di respiro a causa dei rigori del clima. Cadorna era un rigido fautore della disciplina e sosteneva con entusiasmo l’uso della minaccia della pena di morte per mantenere i suoi uomini all’altezza delle prestazioni richieste. Il 12 maggio 1917 le operazioni ripresero con un bombardamento in occasione della decima battaglia dell’Isonzo” (2)
Su nostra richiesta gli Alleati inviarono altri pezzi di artiglieria e al loro arrivo gli inglesi scoprirono che, per loro, il soldato italiano era una enigma ”.
(3) Infatti, così lo vede il ten. col Charles Buzzard: “Direi che, di tutti gli eserciti, lo standard più difficile da valutare è quello degli italiani. Ci si trova sempre di fronte a qualche sorpresa. L’italiano è capace di fare tutto, ed è un maestro del far niente. Quanto al fisico penso che, nonostante sia insuperabile in quanto a bassa statura, abbia una forza notevole. Può infatti trasportare più di un soldato inglese o francese. Si potrà anche vedere la fanteria sparpagliarsi lungo una strada... ma camminerà tutto il giorno nutrendosi di poco. Praticamente non è mai ubriaco e, seppur analfabeta, è estremamente abile e ingegnoso. Non ha idea di cosa sia la puntualità... Quando lavora, però, lo fa eccezionalmente bene. Il morale degli italiani è facilmente influenzabile. Come mi disse un ufficiale italiano: «Gli dica che è coraggioso e lo diventerà!». Quindi i reggimenti di buona tradizione sono eccellenti, quelli privi di tradizioni o con una cattiva reputazione sono pessimi...”(4)
Delle nostre fanterie così scrive il gen. Enrico Caviglia: “Le truppe sottoposte a gravi sacrifìci, senza corrispondenti successi, si convincono dell’inutilità dei loro sforzi e mal si prestano a nuovi olocausti. Nell’ultima grande guerra nessun esercito ha portato le sue fanterie a dar di cozzo per anni contro le stesse posizioni, soffrendo gravissime perdite, senza il sorriso visibile della vittoria, come noi facemmo sulla fronte giulia. I nomi di alcune località del Carso e dell’Isonzo onorarono altamente, ma solamente il valore delle truppe.
Il principio dell’economia delle forze ci può fare ammettere che nelle prime battaglie dellTsonzo si potessero lanciare all’attacco le nostre fanterie con generosa larghezza, se si sperava di sfondare la fronte nemica e venire ad una vittoria decisiva. Ma uguali sacrifìci non erano più militarmente giustificati, quando l’impostazione del concetto direttivo, l’impiego delle truppe e lo svolgimento dell’azione miravano a piccole conquiste territoriali... In molti tratti della nostra fronte orientale, sul Carso, intorno a Gorizia, intorno a Tolmino i nemici vedevano le nostre trincee sotto di loro, contavano i nostri uomini, conoscevano le nostre abitudini, sorvegliavano i nostri movimenti, mentre essi se ne stavano a loro agio in trincee dominanti e non visti da noi. In quelle loro trincee essi dovevano spendere poco più delle energie necessarie alla vita nelle seconde linee. Se si fossero ritirati, non avremmo potuto accorgercene. Le nostre fanterie erano invece immerse nella peggiore vita di guerra.
Si trovavano in condizioni materiali di inferiorità rispetto ai nemici, e dovevano sopportare e vincere i disagi e le sofferenze morali e fisiche d’ogni genere che la guerra crea e addensa sui combattenti per abbattere la volontà di lottare. Esse dettero prova di possedere le vecchie qualità della razza: di pazienza, di sopportazione dei disagi e delle privazioni, di resistenza fisica e morale a tutti i fattori deprimenti naturali e bellici”.(5) E in altro suo testo: ”... si è detto che la nostra fanteria non era manovriera. Invece si può affermare che, con i nostri metodi tattici d'ali ora. non v'era la possibilità di manovrare per i reparti di frontiera in linea. Chi non ne è convinto, deve aver visto la guerra col cannocchiale. Le nostre trincee erano in generale a meno di un ettometro da quelle nemiche, talvolta a pochi metri, e lo spazio intermedio conteneva due linee di reticolati.
Tuttavia la manovra consisteva nel lasciare la nostra trincea per andare in quella austriaca nel più breve tempo possibile, quando era venuto il momento dello scatto, il quale momento non era mai stabilito dagli ufficiali di fanteria. Né vi era la possibilità di manovrare. Quando nell'avvicinamento alla prima linea si insaccavano le truppe in camminamenti, conosciuti e battuti dall’artiglieria nemica, dove le nostre belle brigate erano demolite nell'attesa del momento dello scatto. Eppure anche in quelle condizioni la nostra fanteria, per riuscire ad avanzare, studiava numerosi artifìci ed ingegni, che certamente nessun regolamento o trattato di tattica aveva mai consigliato. Talvolta da lontano furono visti dei nostri battaglioni rimanere a terra immobili sotto il tiro dell'artiglieria nemica che li decimava, e pareva agli osservatori e critici che, se quei battaglioni si fossero spostati, avrebbero potuto evitare quelle perdite.
Ma gli osservatori non sapevano che, se i battaglioni si fossero alzati, sarebbero stati falciati dalle mitragliatrici nemiche, e che solo per questa essi rimanevano a terra immobili... resistenti alle fatiche ed alle privazioni, e convinti che la loro vita valga meno della nostra, e si possa spendere come moneta corrente. Ed attaccati, come essi sono, alla loro terra, sentono istintivamente la necessità di sacrificarsi per difenderla, senza nessuna speranza di premio, senza nessun diritto ad un premio. Nulla di più generoso esiste al mondo!
(Enrico Caviglia. La battaglia della Bainsizza, Ed A. Mondadori, Milano 20 febbraio 1930. pagg. 42-44).


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