31 luglio 1916: fine della Strafexpedition.
8 agosto 1916: prendiamo Gorizia. Gli
Austroungarici si attestano sulle alture a nordest della città. È il momento di
andare avanti; via obbligata: la conquista dell’Ortigara; obiettivo ultimo: la
poderosa testa di ponte di Tolmino, ancora più a nordest.
Ragioni tattico-strategiche: 1 - aggirare da nord il sistema
difensivo nemico, incombente sull’Altopiano dei Sette Comuni e sulla Valsugana;
2 - sbarrare al nemico la strada per le valli sottostanti.
Questo il corretto pensiero del Capo di Stato Maggiore, generale
Luigi Cadorna. Disastrosa ne sarà l’attuazione.
Domenica 10 giugno 1917, ore 5 del
mattino. Dopo la settima, ottava, nona e decima battaglia dell’Isonzo, la
neocostituita VI Armata, gen. Ettore Mambretti, attacca. Sono il XXII Corpo
d’A., gen. Capello; il XX, generale Montuori ed il XVIII, gen. Etna.
Martedì 19 giugno la 52a divisione,
interamente di alpini, prende la cresta dell’Ortigara; il nemico si ritira
sulla corona di cime circostanti. Bisognerebbe andare avanti: né Mambretti
né Cadorna impartiscono l’ordine; e nemmeno quello di ritirarsi. Su
quell’acrocoro i nostri diventano bersaglio fisso per l’artiglieria nemica.
“L’on. Bissolati afferma che la sospensione di ulteriori azioni offensive
nel Trentino, dopo la sanguinosa esperienza dell'Ortigara, fu dovuta a un
discreto intervento di re Vittorio Emanuele III”. (Pieropan, pagg. 357-358)
La nostra narrazione sceglie come paradigma la giornata del
19 giugno 1917, nella quale fu conquistata l’Ortigara.
Seguiamo la traccia segnata da Gianni Pieropan, nel suo
volume Ortigara 1917, seconda edizione, Mursia, Milano 1976.
19 giugno. Martedì.
Premessa.
L’inizio degli attacchi non è simultaneo, perché dipende dalle posizioni
di partenza delle diverse unità. Da sud a nord dello schieramento:
12a divisione. Gli Arditi del 27°
fanteria scendono sull’Assa per penetrare in Val Gabro e in Val Martello.
Vengono respinti.
30a divisione. Alba. Il 21° e il 22°
reggimento riprendono gli assalti falliti lunedì 18. Uguale risultato.
57a divisione. Azione dimostrativa in
contrada Bosco.
25a divisione, XXII Corpo d’Armata.
Ore 14. Cessa il tiro di preparazione per i deludenti risultati.
Da Monte Catz parte all’attacco del M. Rotondo il 112° fanteria, ma
il reggimento è fermato davanti alle trincee nemiche dal fuoco
d’interdizione, che si allunga anche sui rincalzi.
La brigata del col. brigadiere Conti e i bersaglieri del 5° reggimento
giungono d’impeto alle trincee di quota 1.626 di Monte Zebio, ma le
mitragliatrici da nord li colpiscono d’infilata.
Ore 13,30. Inutile il trasferimento in zona del 14° bersaglieri.
Ore 16,30. Stallo.
Ore 17,45. Fallisce un ulteriore attacco della 25a.
Perdite: caduti 6 ufficiali e 97 fanti; feriti 33 ufficiali e 513
fanti; dispersi, 151. Il sistema difensivo è ancora più che solido, ma
si continua a prenderlo a testate.
13a divisione. Il 1/256° parte dalla
Lunetta, di Monte Zebio, tra quota 1.626 e 1.673, alla testa vi è il suo
comandante, col. Cavarzerani, poi creato dal Re, Conte di Nevea per l’azione di
Sella Nevea. La prima ondata del I e III battaglione è infranta, così le
successive, dal fuoco combinato delle Swarzlose (nome delle mitragliatrici
austriache) e dell’artiglieria. Scrive il sottotenente Castelli del 256°: “«...
il tiro ben centrato di mortai e un nutrito lancio di bombe a mano da parte dei
fucilieri nemici, balzati fuori dai rifugi blindati, fanno subito paurosi vuoti
e gravi perdite infliggono ai miei uomini, mentre tre mitragliatrici vengono
prese in pieno da bombe e messe fuori uso.
Nel contempo le batterie avversarie volgono il loro fuoco
micidiale sul nostro battaglione di prima schiera che ha iniziato il suo lento
movimento su per le pendici del monte; compietamente allo scoperto, è preso
ancora d’infilata dal fuoco delle mitragliatrici, di fucileria e di altre
batterie avversarie in posizione ad occidente e ad oriente del possente loro
sistema difensivo». Tuttavia l’eroico comportamento dei pochi uomini
disponibili, che il Castelli chiama «giapponesi» perché tutti bassi di statura
e piuttosto maturi d’età per essere stati a suo tempo riformati, gli consente
di porre in azione le tre armi rimaste efficienti, costringendo così gli
avversari a rintanarsi nei loro rifugi.
Ciò che naturalmente non arresta il tiro della loro artiglieria,
una vera e propria cortina di fuoco calata sulle pendici del monte. I
battaglioni avanzati, ormai decimati dalle forti perdite, rimangono fermi,
inchiodati sul terreno; il battaglione di rincalza ancora su posizione sul
vecchio trincerone, viene quasi annientato dal fuoco di repressione di altre
batterie entrate nel frattempo in azione. In un momento di tregua. .. ispeziono
la linea per trovare in qualche nicchia munizioni che cominciano a
scarseggiare. .. sono come un automa che va... Scorgo invece con mia meraviglia
il colonnello Cavarzerani e un trombettiere, unica persona del suo seguito... Egli
mi parla, mi conforta con parole buone e con tanta affettuosità che mi
commuove: mi sento scuotere, rivivere, riempire il cuore e l’anima di calore,
di energia e di coraggio nuovo. A sera un colonnello, un sottotenente, una
ventina di fanti... presidiano la prima linea di M. Zebio ormai divenuto ombra
muta, tomba di tanti umili eroi...”, (in Pieropan pag. 224)
Ore 15,30. Arriva il 11/239°, che migliora la situazione.
Perdite: caduti 10 ufficiali e 337 fanti; feriti: 52 ufficiali e
1.126
fanti; dispersi, 1 ufficiale e 121 fanti. Nella maggior parte dei
casi,
disperso vuol dire morto.
29a divisione. Generale Caviglia.
Ore 6. Il 214°reggimento punta su Monte Forno: I, II e III
battaglione. Il I battaglione raggiunge e supera la prima linea di resistenza e
nota che i pezzi in caverna, hanno resistito all’artiglieria italiana.
Il II è fermato dall’artiglieria, che spara da Monte Colombara e
dal Corno di Montebianco. Il III li sostiene alle spalle, interverrà in un
secondo momento.
Ore 7,45. Il generale Caviglia sale a quota 1.791 e si rende conto
della situazione.
Ore 9. Il nemico si rafforza; arriva, però, la notizia che gli
alpini hanno preso e superato l’Ortigara. Ciò impone alla 29a di persistere
nell’attacco.
Ore 12-13,30. Nostro tiro di preparazione
Ore 13,30. Il 214° riparte all’assalto. Il I battaglione perde il
suo comandante, capitano D’Auce, lo sostituisce il maggiore Asinari di Bemezzo.
Nell’azione il reggimento perde 700 uomini.
Ore 15,30. Il generale Caviglia sospende l’azione.
Perdite: morti 9 ufficiali; 176 fanti, feriti 33 ufficiali; 1.092
feriti; dispersi 150. Il Monte Forno resta in mano austriaca. (Pieropan,
op.cit. pagg. 225-226)
I nostri fanti.
Un antico detto ricorda: ‘La fanteria è la regina delle
battaglie’. Ma sempre per le ragioni di modaiola correttezza politica, tale
massima pare applicarsi solo ai soldati stranieri, alleati o no; non anche agli
italiani. Peter Hart afferma ambiguamente “L’esercito italiano era numeroso...
ma aveva gravi problemi sia di equipaggiamento sia di addestramento... gli
ufficiali erano reclutati ancora su base regionale relativamente ristretta e in
genere mancavano di professionalità.
Formalmente il Comandante in Capo era Re Vittorio Emanuele, ma...
il comandante de facto era il generale Luigi Cadorna... un teorico di strategia
militare, molto rispettato anche se non aveva esperienze di rilievo come
comandante sul campo. I ranghi inferiori dell’esercito erano in gran parte
reclutati fra i contadini, dove il livello di analfabetismo era molto elevato,
un fatto che ostacolò la formazione di sottufficiali competenti. Avrebbero
comunque dimostrato una forte capacità di resistenza sia alle difficili
condizioni, sia alle pesanti perdite del servizio attivo” P
Una spigolatura di coraggio viene riconosciuta al nostro soldato
quando vengono lanciate la 6a, 7a, 8° e 9a offensive dell’Isonzo: “Nell’insieme
Cadorna stava spingendo avanti i suoi uomini, fissando per le operazioni
offensive un ritmo più elevato di quello previsto dai generali inglesi,
francesi o russi. Le unità venivano impiegate in battaglia con frequenza molto
più regolare, anche nel corso dell’inverno, cosa che favoriva ben pochi momenti
di respiro a causa dei rigori del clima. Cadorna era un rigido fautore della
disciplina e sosteneva con entusiasmo l’uso della minaccia della pena di morte
per mantenere i suoi uomini all’altezza delle prestazioni richieste. Il 12 maggio
1917 le operazioni ripresero con un bombardamento in occasione della decima
battaglia dell’Isonzo” (2)
Su nostra richiesta gli Alleati inviarono altri pezzi di
artiglieria e al loro arrivo gli inglesi scoprirono che, per loro, il soldato
italiano era una enigma ”.
(3) Infatti, così lo vede il ten. col Charles Buzzard: “Direi che,
di tutti gli eserciti, lo standard più difficile da valutare è quello degli
italiani. Ci si trova sempre di fronte a qualche sorpresa. L’italiano è capace
di fare tutto, ed è un maestro del far niente. Quanto al fisico penso che,
nonostante sia insuperabile in quanto a bassa statura, abbia una forza
notevole. Può infatti trasportare più di un soldato inglese o francese. Si
potrà anche vedere la fanteria sparpagliarsi lungo una strada... ma camminerà
tutto il giorno nutrendosi di poco. Praticamente non è mai ubriaco e, seppur
analfabeta, è estremamente abile e ingegnoso. Non ha idea di cosa sia la
puntualità... Quando lavora, però, lo fa eccezionalmente bene. Il morale degli
italiani è facilmente influenzabile. Come mi disse un ufficiale italiano: «Gli
dica che è coraggioso e lo diventerà!». Quindi i reggimenti di buona tradizione
sono eccellenti, quelli privi di tradizioni o con una cattiva reputazione sono
pessimi...”(4)
Delle nostre fanterie così scrive il gen. Enrico Caviglia: “Le
truppe sottoposte a gravi sacrifìci, senza corrispondenti successi, si
convincono dell’inutilità dei loro sforzi e mal si prestano a nuovi olocausti.
Nell’ultima grande guerra nessun esercito ha portato le sue fanterie a dar di
cozzo per anni contro le stesse posizioni, soffrendo gravissime perdite, senza
il sorriso visibile della vittoria, come noi facemmo sulla fronte giulia. I
nomi di alcune località del Carso e dell’Isonzo onorarono altamente, ma solamente
il valore delle truppe.
Il principio dell’economia delle forze ci può fare ammettere che
nelle prime battaglie dellTsonzo si potessero lanciare all’attacco le nostre
fanterie con generosa larghezza, se si sperava di sfondare la fronte nemica e
venire ad una vittoria decisiva. Ma uguali sacrifìci non erano più militarmente
giustificati, quando l’impostazione del concetto direttivo, l’impiego delle
truppe e lo svolgimento dell’azione miravano a piccole conquiste
territoriali... In molti tratti della nostra fronte orientale, sul Carso,
intorno a Gorizia, intorno a Tolmino i nemici vedevano le nostre trincee sotto
di loro, contavano i nostri uomini, conoscevano le nostre abitudini,
sorvegliavano i nostri movimenti, mentre essi se ne stavano a loro agio in trincee
dominanti e non visti da noi. In quelle loro trincee essi dovevano spendere
poco più delle energie necessarie alla vita nelle seconde linee. Se si fossero
ritirati, non avremmo potuto accorgercene. Le nostre fanterie erano invece
immerse nella peggiore vita di guerra.
Si trovavano in condizioni materiali di inferiorità rispetto ai
nemici, e dovevano sopportare e vincere i disagi e le sofferenze morali e
fisiche d’ogni genere che la guerra crea e addensa sui combattenti per
abbattere la volontà di lottare. Esse dettero prova di possedere le vecchie
qualità della razza: di pazienza, di sopportazione dei disagi e delle
privazioni, di resistenza fisica e morale a tutti i fattori deprimenti naturali
e bellici”.(5) E in altro suo testo: ”... si è detto che la nostra fanteria non
era manovriera. Invece si può affermare che, con i nostri metodi tattici d'ali
ora. non v'era la possibilità di manovrare per i reparti di frontiera in linea.
Chi non ne è convinto, deve aver visto la guerra col cannocchiale. Le nostre
trincee erano in generale a meno di un ettometro da quelle nemiche, talvolta a
pochi metri, e lo spazio intermedio conteneva due linee di reticolati.
Tuttavia la manovra consisteva nel lasciare la nostra trincea per
andare in quella austriaca nel più breve tempo possibile, quando era venuto il
momento dello scatto, il quale momento non era mai stabilito dagli ufficiali di
fanteria. Né vi era la possibilità di manovrare. Quando nell'avvicinamento alla
prima linea si insaccavano le truppe in camminamenti, conosciuti e battuti
dall’artiglieria nemica, dove le nostre belle brigate erano demolite
nell'attesa del momento dello scatto. Eppure anche in quelle condizioni la
nostra fanteria, per riuscire ad avanzare, studiava numerosi artifìci ed
ingegni, che certamente nessun regolamento o trattato di tattica aveva mai
consigliato. Talvolta da lontano furono visti dei nostri battaglioni rimanere a
terra immobili sotto il tiro dell'artiglieria nemica che li decimava, e pareva
agli osservatori e critici che, se quei battaglioni si fossero spostati,
avrebbero potuto evitare quelle perdite.
Ma gli osservatori non sapevano che, se i battaglioni si fossero
alzati, sarebbero stati falciati dalle mitragliatrici nemiche, e che solo per
questa essi rimanevano a terra immobili... resistenti alle fatiche ed alle
privazioni, e convinti che la loro vita valga meno della nostra, e si possa
spendere come moneta corrente. Ed attaccati, come essi sono, alla loro terra,
sentono istintivamente la necessità di sacrificarsi per difenderla, senza
nessuna speranza di premio, senza nessun diritto ad un premio. Nulla di più
generoso esiste al mondo!
(Enrico Caviglia. La battaglia della Bainsizza, Ed A. Mondadori,
Milano 20 febbraio 1930. pagg. 42-44).
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