Damiano Palano, Universi Cattolica
Già alla vigilia della Prima guerra mondiale il vecchio blocco politico giolittiano aveva in larga parte smarrito il controllo del «Paese reale», senza che però fosse contemporaneamente emerso un nuovo blocco, capace almeno temporaneamente di stabilizzare il sistema. Se l'ingresso in guerra, come ha scritto Antonio Varsori, «fu in qualche modo la sconfitta del ‘sistema giolittiano'», è infatti «difficile sostenere che esso fu la vittoria di Salandra e dei liberali consenatori», perché «troppo diviso era il fronte antigiolittiano creatosi nelle giornate 'radiose' maggio 1915». L’eterogeneo fronte interventista si dimostrò infatti sin dai primi mesi di guerra estremamente fragile al proprio interno e politicamente debole, specialmente dopo che l'attesa di una di una rapida vittoria prese a scontrarsi contro la realtà della guerra di posizione. Ma la debolezza del governo guidato da Antonio Salandra fu enfatizzata anche dai conflitti con i vertici militari, in ordine a questioni tutt'altro che marginali. Già negli anni che avevano preceduto il conflitto mondiale i rapporti tra la classe politica liberale e gli ambienti militari erano stati piuttosto problematici, se non addirittura conflittuali, non tanto per il forte legame esistente tra le forze armate e la Corona, quanto per l'evidente - talvolta persino ostentato - disinteresse di molti uomini di governo per le questioni strettamente militari. Il generale Cadorna, fin dal 1908, aveva d'altronde precisato che, in caso, di guerra, avrebbe assunto il comando solo a condizione che gli fosse concessa una piena libertà d'azione nella preparazione e nella conduzione delle operazioni. .Via la situazione cambiò nel momento in cui divenne chiaro che la guerra si sarebbe protratta ben oltre le iniziali previsioni.
La prima rilevante incrinatura nella fiducia concessa a
Cadorna emerse infatti nel dicembre 1915, quando le operazioni militari furono
sospese senza che Gorizia fosse stata conquistata. Nel gennaio dell'anno
seguente il ministro della Guerra, generale Zupelli, espose al Consiglio dei
ministri un piano alternativo, che avrebbe consentito di isolare Trieste. A
seguito dei rilievi avanzati da Zupelli, il Consiglio dei ministri formulò
inizialmente la proposta di affiancare a Cadorna un Consiglio di difesa,
composto da civili e militari, che però era un organo previsto solo in tempo di
pace. La costituzione in tempo di guerra di un simile comitato avrebbe così
richiesto uno specifico decreto, che non Hi però mai approvato, probabilmente
perché ciò avrebbe comportato le immediate dimissioni di Cadorna. Salandra non
nascose al sovrano la gravità della situazione che si era andata delineando, e
«Tutti gli ufficiali che sono venuti dal fronte», scrisse per esempio in una
lettera al re del 30 gennaio 1916, «hanno diffuso l'impressione che
ricominciare, come pare si prefigga il Comando supremo, prcss'a poco negli
stessi luoghi e nelle stesse forme, l'attacco alla linea dell'Isonzo sia come
dare della testa al muro». In realtà il piano di Zupelli non ottenne un
sostegno da parte del governo e fu rapidamente accantonato. Prendendo atto
dell'ostilità dell'esecutivo nei suoi confronti, Cadorna iniziò però a
organizzare una vera e propria campagna giornalistica - a dir poco celebrativa
della figura del generale - che doveva sostenerlo nella battaglia contro
Zupclli e che si valse per esempio delle firme di Ugo Ojetti e Luigi Barzini.
Alla fine del mese di febbraio il contrasto raggiunse il
punto culminante, perché Cadorna - anche a seguito degli insuccessi delle
operazioni italiane in Albania, di cui proprio Zupelli era stato sostenitore,
contro il parere del capo di stato maggiore - chiese al presidente del
consiglio l'allontanamento del ministro della Guerra. Dopo pochi giorni, il 9
marzo, Zupelli abbandonò effettivamente l’incarico di ministro della Guerra,
sostituito dal generale Morrone. E proprio l'esito dello scontro certificò -
anche agli occhi dell’opinione pubblica - che Cadorna si collocava in una
posizione di sostanziale supremazia dinanzi all'esecutivo. 1 dissidi tra
vertici militari e politici, rimarginati dalla nomina di Morrone, dovevano
riaffiorare circa due mesi dopo, quando, il 15 maggio 1916, gli austriaci
diedero l'avvio alla Strafexpedition, avanzando in territorio italiano.
Anche in questo caso, la proposta del governo di convocare un
consiglio comprendente, oltre ai ministri coinvolti, i generali Cadorna, Porro
e i comandanti delle armate, fu respinta, sempre nel timore che una forzatura
avrebbe provocato le dimissioni del capo di stato maggiore. All'inizio del mese
di giugno le gravi ripercussioni che la violazione dei confini nazionali andava
producendo presso l'opinione pubblica indusse però il governo a valutare
seriamente l'ipotesi di sostituire Cadorna. Ciò nonostante, il Consiglio dei
Ministri deliberò all'unanimità di lasciare il generale al suo molo.
In quel momento Salandra stava d’altronde già per uscire di
scena, e la composita coalizione che lo aveva sostenuto al momento dell'entrata
in guerra si era ormai dissolta. Il fronte degli interventisti - tenuto insieme
soprattutto dall'anti-giolittismo e composto da conservatori, liberali
nazionali, nazionalisti, democratici, mazziniani, anarcosindacalisti, anarchici
- era evidentemente troppo eterogeneo per reggere dinanzi agli sforzi di una
guerra di posizione. Ma il nuovo esecutivo, presieduto dall'ormai anziano Paolo
Boschi, pur potendo contare sull'appoggio di un'«unione nazionale», non si
rivelò né più forte, né più energico del precedente. Come ebbe modo di rilevare
sarcasticamente Francesco Saverio Nitti, «era il ministero della debolezza che
simulava la forza».
La presenza nel governo di Leonida Bissolati, ministro senza
portafoglio ma incaricato di fatto di formare una sorta di collegamento tra il
governo e il Capo di Stato Maggiore, fu però all'origine di tensioni piuttosto
rilevanti. Nel corso del primo anno di guerra, gli interventisti non avevano
esitato a celebrare in Cadorna l'«uomo forte», contro le esitazioni di un
governo debole. Ma quando Salandra rassegnò le proprie dimissioni da Presidente
del Consiglio, l'atteggiamento degli ambienti più radicalmente interventisti
stava già cambiando, perché, in seguito al trauma della Strafexpedìtion, Cadorna
stava incominciando a perdere buona parte del proprio prestigio. Già dalle
primissime fasi della guerra, il Generale aveva guardato d’altronde con molto
sospetto quei deputati che si erano arruolati ufficiali e che, in zona di
guerra, potevano rivelarsi potenzialmente come ‘controllori politici'
dell'autorità militare. E proprio questo atteggiamento doveva condurre Cadorna
a diffidare fin dall'inizio del ruolo di Bissolati. Quest'ultimo, espulso dal
Psi nel 1912, allo scoppio della guerra si era arruolato nell'esercito, a
dispetto della sua non più giovane età. Insieme a Benito Mussolini rappresentò
così agli occhi dell'opinione pubblica la componente più nota
dell'interventismo ‘rivoluzionario’, un fronte piuttosto eterogeneo che però
aveva assunto un molo politico significativo in occasione della formazione del
ministero Boselli. E forse anche per questo Cadorna rifiutò in termini netti,
nell'agosto 1916, di riconoscere a Bissolati un qualsiasi ruolo di
intermediazione. La posizione di Bissolati nei mesi seguenti fu però minata dal
processo contro il colonnello Giulio Douhet, perché risultò evidente che il
militare – nel mese di ottobre condannato per avere redatto un memoriale
'anticadorniano' - aveva avuto frequenti contatti con il ministro.
Contro Bissolati si avviò dunque una energica campagna
stampa, che sancì la sconfitta del tentativo del governo Boselli di esercitare
un seppur minimo controllo dell'attività del Comando supremo. Come ha scritto
Piero Melograni, Cadorna «aveva dimostrato ancora una volta di possedere un'energia
ben diversa da quella della maggioranza dei politici del suo tempo: di essere,
in altre parole, ‘l’uomo forte’ della situazione». Nel corso della prima metà
del 1917 la posizione degli interventisti venne d'altronde a convergere
nuovamente con quella del capo di stato maggiore, soprattutto in ordine alla
convinzione che fosse necessario combattere i «nemici interni». Nel clima
creatosi in seguito alle notizie della rivoluzione russa, gli interventisti
iniziarono infatti a guardare con sempre maggiore insistenza a Cadoma e al
«governo di Udine» come a un'alternativa auspicabile. E i sospetti che nella
primavera del 1917 presero a circolare intorno alle «aspirazioni dittatoriali»
del Generale non fecero che acuire la diffidenza reciproca, rendendo sempre più
problematici i rapporti tra il governo e i vertici militari.
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