Molti anni dopo gli eventi, nel
ricostruire le tappe che avevano condotto alla nascita del regime fascista, Gaetano Salvemini tornò a
riflettere sulle giornate in cui l’Italia aveva fatto il suo ingresso nella
Prima guerra mondiale e in particolare sulle condizioni che avevano reso
possibile il sostegno alla linea interventista da parte di una maggioranza parlamentare di fatto neutralista. La Camera, scrisse
Salvemini, era allora sostanzialmente in accordo con la maggioranza del paese,
«che non voleva la guerra». Eppure - principalmente per la propria debolezza
politica - non fu in grado opporsi alla corrente che spingeva l’Italia verso
l’ingresso nel conflitto. «Essendo stata manipolata dal governo durante tre successive elezioni, essa non aveva il
prestigio per resistere al governo e a quelle forze extraparlamentari che sostenevano il governo.
Non poteva agire ora come rappresentanza del Paese dopo che per dieci anni non
si era curata di rappresentarlo».
Nonostante la lettura retrospettiva di
Salvemini rimanga corretta, i motivi della resa delle forze neutraliste erano
probabilmente ancora più complessi. E andavano ricercati, oltre che nella
scarsa legittimazione su cui poteva contare la Camera, nella stessa eterogenea
composizione del fronte neutralista. La frammentazione politica della Camera (eletta nel
1913 per la prima volta a suffragio universale maschile) era d’altronde
piuttosto elevata. A sinistra sedevano 47 deputati socialisti, 21 socialisti
riformisti e 11 socialisti indipendenti. Grazie al patto GentiIoni a
Montecitorio era inoltre approdata la cospicua pattuglia dei 34 deputati
cattolici, destinati ad assumere una posizione ambivalente rispetto alla
neutralità, mentre un ruolo significativo nei mesi che precedettero l’intervento
fu svolto, oltre che dai 5 rappresentanti nazionalisti, dai 17 repubblicani e dai 73 radicali. Il perno indispensabile per la formazione di qualsiasi governo rimaneva comunque
lo schieramento costituzionale, composto da 307 deputati, che però - specie dal
momento in cui Giolitti aveva abbandonato la Presidenza del Consiglio - appariva
tutt’altro che compatto. Sebbene l’esecutivo guidato da Antonio Salandra fosse
stato al principio interpretato come un temporaneo avvicendamento con Giolitti,
analogo ad altri che si erano verificati negli anni precedenti, in realtà le
cose si sarebbero rivelate ben presto differenti. Salandra era infatti
espressione di un indirizzo intenzionato ad abbandonare la linea ‘progressista’
di Giolitti, e le differenze emersero presto anche in materia di politica estera.
Nello schieramento costituzionale, il gruppo «liberale», che vedeva proprio in
Salandra e in Sonnino i punti di riferimento, poteva infatti contare su circa
80 deputati, mentre su posizioni molto diverse si collocava il gruppo della
sinistra «liberale democratica», erede di Zanardelli, la cui forza era stimata
attorno ai 30 membri. E così la componente giolittiana, seppur prevalente (e indispensabile
per sostenere qualsiasi esecutivo), non era in grado di esprimere autonomamente
la maggioranza della Camera.
Al di là della complessa distribuzione
delle forze, fu però soprattutto la distanza nel modo di concepire la «neutralità» a rendere fin dall’inizio impraticabile la strada verso la costruzione di uno
schieramento parlamentare capace di sostenere una compatta linea neutralista.
Da una simile maggioranza era innanzitutto esclusa la cospicua componente
socialista, che per le divergenze interne non prese mai seriamente in
considerazione l’ipotesi di appoggiare un esecutivo neutralista presieduto da Giolitti.
La stessa formula «né aderire né sabotare», coniata dal segretario del partito
Costantino Lazzari, era d’altronde una soluzione compromissoria. La componente
intransigente spingeva infatti verso la piazza e in particolare verso il
ricorso allo sciopero generale, cui invece si dichiarò contrario il Consiglio nazionale della Confederazione generale del Lavoro. La pattuglia riformista
confidava altresì nel Parlamento e soprattutto nel ruolo che lo schieramento
giolittiano sembrava poter giocare.
Ma a lacerare la posizione socialista erano anche i significati da attribuire alla neutralità. I vari leader del partito articolarono infatti tesi tutt’altro che omogenee, e la neutralità da perseguire fu così definita, di volta in volta, come «assoluta», «relativa», «energica», «attiva e operante», «armata», «raccolta e austera», «parziale».
Dalle colonne dell’«Avanti!» il direttore Serrati, che aveva sostituito
Mussolini, sosteneva per esempio una linea fortemente antinazionalista, che
intendeva la neutralità come espressione del conflitto di classe. Ma una linea
del genere non poteva certo essere condivisa da Turati, ben consapevole che il discredito
nei confronti della «Nazione» avrebbe finito con l’indebolire proprio la causa
neutralista.
Non meno diviso si rivelò anche il fronte
dei deputati cattolici. Molti giornali cattolici sollevarono per esempio
obiezioni sui significati eccessivamente eterogenei attribuiti alla neutralità e non esitarono a utilizzare toni apertamente patriottici, anche per respingere gli attacchi indirizzati da una parte della grande stampa, tra cui
per esempio il «Corriere della sera». Ma la posizione prevalente fu quella di
non appoggiare manifestazioni pubbliche neutraliste e di rispettare il ruolo
delle istituzioni. Dopo la manifestazione interventista del 20 settembre 1914
le diverse espressioni del mondo cattolico respinsero inoltre in modo unanime
l’idea di poter confluire in un blocco unitario interventista insieme ai
socialisti. E nel gennaio 1915 il conte Dalla Torre distinse la linea dei
cattolici italiani dalla posizione imparziale della Santa sede.
Il vero anello debole del neutralismo fu
rappresentato proprio da Giolitti. La neutralità dell’uomo politico liberale era ovviamente distante
tanto da quella socialista quanto da quella cattolica. E poteva essere semmai
intesa come declinazione di una visione schiettamente realista, che spingeva a
ritenere che l’Italia potesse ottenere di più dalla contrattazione della
propria neutralità che da un eventuale ingresso nel teatro bellico. Ma questa posizione
si rivelò sempre più debole nei mesi che precedettero il «maggio radioso».
La nuova maggioranza, il 5 dicembre, poté
così approvare (con 413 voti a favore e 49 contrari) l’ordine del giorno che, riconoscendo
che la neutralità era stata «proclamata con pieno diritto e ponderato
giudizio», esprimeva la fiducia che il governo sapesse«spiegare, nei modi e con
i mezzi più adatti, un’azione conforme agli interessi nazionali». All’indomani
di quel dibattito Filippo Turati scrisse ad Anna Kuliscioff che proprio
Giolitti, con l’intervento in cui aveva escluso che la neutralità configurasse
una violazione della Triplice Alleanza, aveva «salvato il paese e la monarchia»,
scongiurando l’intervento.
La famosa lettera resa pubblica dalla
«Tribuna» nel febbraio 1915 - nella quale Giolitti sosteneva che si potesse guadagnare «parecchio» dalle trattative diplomatiche e in cui sminuiva l’entusiasmo di
quei giovani che si dichiaravano disposti all’estremo sacrificio per la patria,
contribuì non poco a ridimensionare il peso del leader liberale - la cui
credibilità era già incrinata da diversi anni. In quel modo Giolitti aveva
innanzitutto indebolito la sua posizione di possibile negoziatore con
l’Austria, dal momento che aveva esplicitato le proprie convinzioni
neutraliste.
Ma aveva anche incrinato le relazioni con Salandra. Proprio per conservare un’influenza sul governo, lo statista di Dronero dovette così
concedere il proprio consenso al progetto di legge sui provvedimenti relativi
alla difesa dello Stato. Nei mesi successivi Giolitti si ritirò dunque a
Cavour, nella consapevolezza che, per quanto il governo di Salandra fosse
tutt’altro che solido, non esistevano ancora le condizioni per un nuovo governo
più nettamente neutralista. Ma al momento del suo ritorno nella Capitale, il 9
maggio 1915, la situazione era ormai radicalmente mutata.
Quando giunse a Termini, Giolitti fu
fischiato dalla folla. Circa trecento deputati lasciarono comunque il loro biglietto da visita presso la sua abitazione, a testimonianza di essere nuovamente disposti a
sostenerlo alla guida del governo. Dinanzi alla manifestazione (seppur
informale) di una volontà neutralista da parte della Camera, Salandra rassegnò
al sovrano le proprie dimissioni. Mentre nelle piazze la buriana interventista
si scatenava contro il «turpe mercante», il «traditore d’Italia», il «boia
labbrone», Giolitti non poté però che rifiutare l’offerta di guidare un nuovo esecutivo.
Così il 17 maggio Vittorio Emanuele riconsegnò l’incarico a Salandra. E tre
giorni dopo, il 20 maggio, la Camera ‘neutralista’ - compresi molti esponenti
del gruppo giolittiano - concesse al nuovo esecutivo i pieni poteri che
preludevano all’entrata in guerra.
Damiano Paiano
Università Cattolica, Milano
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