Durante
il primo conflitto mondiale,
la politica italiana nei confronti delle
nazionalità sperimenta importanti
oscillazioni. L’idea della guerra
come conflitto ‘risorgimentale’,
teso a completare il processo
di unificazione nazionale e
ricondurre in seno alla Madrepatria
le terre ‘irredente’ sotto dominio
asburgico poneva il tema al centro
della scena, con una funzione legittimante
riconosciuta dallo stesso testo
della dichiarazione di guerra.
Per
contro, le ambizioni di Roma
nello spazio adriatico e dei Balcani
si muovevano in netto contrasto
con il principio di nazionalità, il cui
ruolo – non a caso – è sistematicamente
ridimensionato nel discorso
pubblico in favore di un più astratto
diritto del Paese al recupero dei
suoi presunti ‘possedimenti storici’.
Il
perdurare della guerra rende
il tema delle nazionalità sempre
più importante. Dal 1914, l’Intesa
aveva cercato di sfruttarne il malcontento, con il
fine auspicato di indebolire
la coesione dell’esercito austro-ungarico.
Reparti ‘nazionali’ formati
da transfughi, disertori o
ex prigionieri, erano stati costituiti
in tutti i maggiori eserciti, ad
esempio, la ‘Duržina’ (1^ compagnia,
battaglione C, 2° reggimento
di marcia della Legione Straniera).
I
cecoslovacchi in particolare avevano svolto un ruolo importante in questi
processi, anche per l’attivismo dei loro capi politici e militari,
come Tomáš Masaryk e Milan Štefánik.
In
Italia, sono le tensioni interne al governo Boselli a portare
in luce la questione delle nazionalità, che assume particolare
importanza dopo Caporetto, a causa anche della crescente dipendenza
del Paese dal sostegno alleato. Nel dicembre 1917, i
colloqui informali fra il leader croato Ante Trumbić, il
generale Armando Mola,
Addetto militare italiano a Londra, e Guglielmo
Emanuel, corrispondente del Corriere della Sera dalla capitale britannica,
delineano una prima ipotesi di revisione del
patto di Londra che assegni a Roma le sole terre adriatiche con
popolazione «prevalentemente italiana». Nei colloqui si parla,
inoltre, di diritto dei popoli a determinare la loro sorte secondo
il principio di nazionalità e del comune interesse italo-slavo alla sicurezza
dell’Adriatico e a evitare ogni intromissione da parte di terzi.
Questi elementi sono portati a conoscenza del Comando supremo
italiano, del governo Orlando e del Foreign Office; vi
è comunque una forte sfiducia reciproca: in particolare, l’Italia è
incerta sugli obiettivi del Comitato nazionale jugoslavo mentre
quest’ultimo teme che l’adesione di Roma al principio di nazionalità
sia solo un espediente tattico. La pubblicazione da parte
sovietica del testo del patto di Londra (sino allora segreto), rendendo
note le mire di Roma ai danni dell’Impero austro-ungarico, aumenta
tensioni e diffidenze.
All’aumento
delle pressioni internazionali perché l’Italia rinunci
ai compensi chiesti nel 1915 fa da contraltare la propaganda
delle società patriottiche come la ‘Dante Alighieri’ o la ‘Trento e
Trieste’, tese a «combattere con ogni mezzo, in Italia e fuori, tutte
quelle correnti occulte e palesi che [tendono] a sminuire e a falsificare
l’essenza di quei nostri diritti ai quali il miglior sangue di nostra gente, versato per la comune crociata
antigermanica, aveva dato la
sua solenne consacrazione». Tuttavia, anche in Parlamento comincia
a farsi strada la posizione di quanti invocano buoni rapporti con i
futuri Stati slavi; in particolare, l’iniziativa di diverse figure
dell’interventismo liberale e democratico (fra cui Francesco Ruffini,
Salvatore Barzilai, Andrea Torre e Giovanni Amendola) porta
alla nascita del Comitato italiano per l’intesa tra le nazionalità
soggette
all’Austria-Ungheria. L’azione del comitato s’inserisce nella
linea tracciata dal Presidente del Consiglio, secondo cui
«[l]’astuzia dell’Austria ha scatenato le passioni etniche delle razze
oppresse; sembra perciò naturale e necessaria per noi una politica
opposta». Su questo sfondo si giunge ai primi contatti fra Torre e
Tumbrić in vista di una «assemblea solenne dell’irredentismo da
tenersi a Roma in fine di marzo [1918]». L’iniziativa è, tuttavia,
osteggiata dal Ministro degli Esteri, che in un telegramma agli
Ambasciatori a Londra e Parigi, informa che l’«on. Torre non ha
avuto alcun incarico dal Ministero degli Affari Esteri e che ritengo
inopportuna assemblea irredentistica a Roma». Il
congresso delle nazionalità oppresse si apre l’8 aprile, nella Sala
degli Orazi e Curiazi del Campidoglio. Vi prendono parte le delegazioni
cecoslovacca, rumena, polacca, jugoslava e italiana (1) rappresentativa
di uno spettro politico assai più ampio di quello da cui si
era mossa l’idea originaria. Il congresso registra inoltre numerose
adesioni di organismi italiani e stranieri, fra cui l’Associazione politica
fra gli italiani irredenti, il Fascio parlamentare di difesa
nazionale, la ‘Dante Alighieri’, il Comitato italo-jugoslavo e quello
italo-ceco, il Partito repubblicano, la Democrazia indipendente jugoslava, la
Democrazia sociale
irredenta riunita, l’Associazione
internazionale ‘Latina
Gens’, l’Unione fra le associazioni
liberali costituzionali di
Roma e i centri francesi, inglesi e
americani ‘pro nazioni oppresse’.
I lavori
del congresso si chiudono il
10 aprile con l’approvazione all’unanimità
di quattro risoluzioni
pubbliche, che ricalcano i
principi generali a suo tempo
negoziati da Torre e Trumbić
e che confluiscono nel ‘Patto di
Roma’. Né questo esito né
l’incontro che i delegati hanno,
l’11 aprile, con Vittorio Emanuele
Orlando sono però sufficienti
a dissipare la sfiducia che
continua a pesare fra le parti.
Ciò dipende da diversi fattori,
fra cui la frammentazione delle
delegazioni nazionali e
loro divisioni interne, la diffidenza
reciproca e (specialmente)
nei confronti dell’Italia, la
mancanza di un supporto politico
adeguato, l’ostilità diffusa a una
pace di compromesso dopo i
sacrifici fatti nel corso del
conflitto e la genericità dei
compromessi raggiunti, anche per le
forzature imposte dagli alleati
dell’Intesa. La presenza ingombrante
dei ‘Quattordici punti’, enunciati a gennaio dal Presidente Wilson, è
un altro elemento problematico, in particolare per il
riferimento in essi contenuto alla possibilità di giungere a «[una]
rettifica delle frontiere italiane […] secondo le linee di demarcazione chiaramente
riconoscibili tra le nazionalità» (Punto 9).
Se,
quindi, nella conferenza di Roma s’incrociano dimensione interna
ed estera per rilanciare la posizione italiana sullo scacchiere balcanico,
in essa si riflettono anche le rigidità di una politica ancora
largamente ispirata alle idee del Ministro degli Esteri, Sonnino,
che del Patto di Londra era stato uno degli artefici e che Orlando
aveva confermato alla guida della Consulta. Per queste
ragioni,
la politica italiana delle nazionalità non sarebbe mai davvero uscita
dalla sua intrinseca ambiguità. Pensata per un mondo in cui la
sopravvivenza dell’Austria-Ungheria era data in qualche modo per
scontata, essa non si sarebbe mai realmente adeguata alla
realtà di uno Stato salvo (il Regno dei Serbi, Croati e Sloveni prima,
dal 1929 il Regno di Jugoslavia) che ne mettesse in discussione
l’ambizione a un controllo completo sull’Adriatico e il
suo hinterland. Questa rigidità si sarebbe espressa anche dopo il
termine del conflitto e avrebbe toccato l’apice con il ritiro dalla delegazione
dalla conferenza di pace di Parigi nell’aprile 1919.
Non a
caso, oggetto del contendere sarebbero state – in tale occasione – proprio
le rivendicazioni italiane sull’Adriatico e i contrasti sorti a
questo proposito fra una delegazione divisa e la rigida intransigenza
del Presidente Wilson; una querelle solo in parte risolta
dalla firma del trattato di Rapallo (novembre 1920).
Gianluca
Pastori
Università
Cattolica, Milano
(1) La
nostra delegazione: Luigi Albertini, Giovanni Amendola, Carlo Emanuele
a Prato, Francesco Arcà, Salvatore Barzilai, Giuseppe Antonio Borgese,
Giuseppe Canepa, Ettore Ciccotti, Giovanni Colonna di Cesarò, Luigi
Della Torre, Pietro Lanza di Scalea, Luigi Federzoni, Roberto Forges
Davanzati, Giovanni Giuriati, Giovanni Lorenzoni, Giuseppe Lazzarini,
Paolo Mantica, Maurizio Maraviglia, Ferdinando Martini, Benito Mussolini,
Ugo Ojetti, Maffeo Pantaleoni, Giuseppe Prezzolini, Francesco Ruffini,
Gaetano Salvemini, Antonio e Vittorio Scialoja, Franco Spada, Pietro
Silva, Alessandro Tasca di Cutò, Andrea Torre e Vito Volterra