domenica 27 gennaio 2019

L’Italia e la politica delle nazionalità e il congresso di Roma sulle nazionalità oppresse 8-10 aprile 1918


Durante il primo conflitto mondiale, la politica italiana nei confronti delle nazionalità sperimenta importanti oscillazioni. L’idea della guerra come conflitto ‘risorgimentale’, teso a completare il processo di unificazione nazionale e ricondurre in seno alla Madrepatria le terre ‘irredente’ sotto dominio asburgico poneva il tema al centro della scena, con una funzione legittimante riconosciuta dallo stesso testo della dichiarazione di guerra.
Per contro, le ambizioni di Roma nello spazio adriatico e dei Balcani si muovevano in netto contrasto con il principio di nazionalità, il cui ruolo – non a caso – è sistematicamente ridimensionato nel discorso pubblico in favore di un più astratto diritto del Paese al recupero dei suoi presunti ‘possedimenti storici’.
Il perdurare della guerra rende il tema delle nazionalità sempre più importante. Dal 1914, l’Intesa aveva cercato di sfruttarne il malcontento, con il fine auspicato di indebolire la coesione dell’esercito austro-ungarico. Reparti ‘nazionali’ formati da transfughi, disertori o ex prigionieri, erano stati costituiti in tutti i maggiori eserciti, ad esempio, la ‘Duržina’ (1^ compagnia, battaglione C, 2° reggimento di marcia della Legione Straniera).
I cecoslovacchi in particolare avevano svolto un ruolo importante in questi processi, anche per l’attivismo dei loro capi politici e militari, come Tomáš Masaryk e Milan Štefánik.
In Italia, sono le tensioni interne al governo Boselli a portare in luce la questione delle nazionalità, che assume particolare importanza dopo Caporetto, a causa anche della crescente dipendenza del Paese dal sostegno alleato. Nel dicembre 1917, i colloqui informali fra il leader croato Ante Trumbić, il generale Armando Mola, Addetto militare italiano a Londra, e Guglielmo Emanuel, corrispondente del Corriere della Sera dalla capitale britannica, delineano una prima ipotesi di revisione del patto di Londra che assegni a Roma le sole terre adriatiche con popolazione «prevalentemente italiana». Nei colloqui si parla, inoltre, di diritto dei popoli a determinare la loro sorte secondo il principio di nazionalità e del comune interesse italo-slavo alla sicurezza dell’Adriatico e a evitare ogni intromissione da parte di terzi. Questi elementi sono portati a conoscenza del Comando supremo italiano, del governo Orlando e del Foreign Office; vi è comunque una forte sfiducia reciproca: in particolare, l’Italia è incerta sugli obiettivi del Comitato nazionale jugoslavo mentre quest’ultimo teme che l’adesione di Roma al principio di nazionalità sia solo un espediente tattico. La pubblicazione da parte sovietica del testo del patto di Londra (sino allora segreto), rendendo note le mire di Roma ai danni dell’Impero austro-ungarico, aumenta tensioni e diffidenze.
All’aumento delle pressioni internazionali perché l’Italia rinunci ai compensi chiesti nel 1915 fa da contraltare la propaganda delle società patriottiche come la ‘Dante Alighieri’ o la ‘Trento e Trieste’, tese a «combattere con ogni mezzo, in Italia e fuori, tutte quelle correnti occulte e palesi che [tendono] a sminuire e a falsificare l’essenza di quei nostri diritti ai quali il miglior sangue di  nostra gente, versato per la comune crociata antigermanica, aveva dato la sua solenne consacrazione». Tuttavia, anche in Parlamento comincia a farsi strada la posizione di quanti invocano buoni rapporti con i futuri Stati slavi; in particolare, l’iniziativa di diverse figure dell’interventismo liberale e democratico (fra cui Francesco Ruffini, Salvatore Barzilai, Andrea Torre e Giovanni Amendola) porta alla nascita del Comitato italiano per l’intesa tra le nazionalità
soggette all’Austria-Ungheria. L’azione del comitato s’inserisce nella linea tracciata dal Presidente del Consiglio, secondo cui «[l]’astuzia dell’Austria ha scatenato le passioni etniche delle razze oppresse; sembra perciò naturale e necessaria per noi una politica opposta». Su questo sfondo si giunge ai primi contatti fra Torre e Tumbrić in vista di una «assemblea solenne dell’irredentismo da tenersi a Roma in fine di marzo [1918]». L’iniziativa è, tuttavia, osteggiata dal Ministro degli Esteri, che in un telegramma agli Ambasciatori a Londra e Parigi, informa che l’«on. Torre non ha avuto alcun incarico dal Ministero degli Affari Esteri e che ritengo inopportuna assemblea irredentistica a Roma». Il congresso delle nazionalità oppresse si apre l’8 aprile, nella Sala degli Orazi e Curiazi del Campidoglio. Vi prendono parte le delegazioni cecoslovacca, rumena, polacca, jugoslava e italiana (1) rappresentativa di uno spettro politico assai più ampio di quello da cui si era mossa l’idea originaria. Il congresso registra inoltre numerose adesioni di organismi italiani e stranieri, fra cui l’Associazione politica fra gli italiani irredenti, il Fascio parlamentare di difesa nazionale, la ‘Dante Alighieri’, il Comitato italo-jugoslavo e quello italo-ceco, il Partito repubblicano, la Democrazia indipendente jugoslava, la Democrazia sociale irredenta riunita, l’Associazione internazionale ‘Latina Gens’, l’Unione fra le associazioni liberali costituzionali di Roma e i centri francesi, inglesi e americani ‘pro nazioni oppresse’.
I lavori del congresso si chiudono il 10 aprile con l’approvazione all’unanimità di quattro risoluzioni pubbliche, che ricalcano i principi generali a suo tempo negoziati da Torre e Trumbić e che confluiscono nel ‘Patto di Roma’. Né questo esito né l’incontro che i delegati hanno, l’11 aprile, con Vittorio Emanuele Orlando sono però sufficienti a dissipare la sfiducia che continua a pesare fra le parti. Ciò dipende da diversi fattori, fra cui la frammentazione delle delegazioni nazionali e loro divisioni interne, la diffidenza reciproca e (specialmente) nei confronti dell’Italia, la mancanza di un supporto politico adeguato, l’ostilità diffusa a una pace di compromesso dopo i sacrifici fatti nel corso del conflitto e la genericità dei compromessi raggiunti, anche per le forzature imposte dagli alleati dell’Intesa. La presenza ingombrante dei ‘Quattordici punti’, enunciati a gennaio dal Presidente Wilson, è un altro elemento problematico, in particolare per il riferimento in essi contenuto alla possibilità di giungere a «[una] rettifica delle frontiere italiane […] secondo le linee di demarcazione chiaramente riconoscibili tra le nazionalità» (Punto 9).
Se, quindi, nella conferenza di Roma s’incrociano dimensione interna ed estera per rilanciare la posizione italiana sullo scacchiere balcanico, in essa si riflettono anche le rigidità di una politica ancora largamente ispirata alle idee del Ministro degli Esteri, Sonnino, che del Patto di Londra era stato uno degli artefici e che Orlando aveva confermato alla guida della Consulta. Per queste
ragioni, la politica italiana delle nazionalità non sarebbe mai davvero uscita dalla sua intrinseca ambiguità. Pensata per un mondo in cui la sopravvivenza dell’Austria-Ungheria era data in qualche modo per scontata, essa non si sarebbe mai realmente adeguata alla realtà di uno Stato salvo (il Regno dei Serbi, Croati e Sloveni prima, dal 1929 il Regno di Jugoslavia) che ne mettesse in discussione l’ambizione a un controllo completo sull’Adriatico e il suo hinterland. Questa rigidità si sarebbe espressa anche dopo il termine del conflitto e avrebbe toccato l’apice con il ritiro dalla delegazione dalla conferenza di pace di Parigi nell’aprile 1919.
Non a caso, oggetto del contendere sarebbero state – in tale occasione – proprio le rivendicazioni italiane sull’Adriatico e i contrasti sorti a questo proposito fra una delegazione divisa e la rigida intransigenza del Presidente Wilson; una querelle solo in parte risolta dalla firma del trattato di Rapallo (novembre 1920).

Gianluca Pastori
Università Cattolica, Milano
(1) La nostra delegazione: Luigi Albertini, Giovanni Amendola, Carlo Emanuele a Prato, Francesco Arcà, Salvatore Barzilai, Giuseppe Antonio Borgese, Giuseppe Canepa, Ettore Ciccotti, Giovanni Colonna di Cesarò, Luigi Della Torre, Pietro Lanza di Scalea, Luigi Federzoni, Roberto Forges Davanzati, Giovanni Giuriati, Giovanni Lorenzoni, Giuseppe Lazzarini, Paolo Mantica, Maurizio Maraviglia, Ferdinando Martini, Benito Mussolini, Ugo Ojetti, Maffeo Pantaleoni, Giuseppe Prezzolini, Francesco Ruffini, Gaetano Salvemini, Antonio e Vittorio Scialoja, Franco Spada, Pietro Silva, Alessandro Tasca di Cutò, Andrea Torre e Vito Volterra

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